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Hard Brexit: imprese italiane tra le meno colpite

La separazione tra Londra e Bruxelles comporterà danni inevitabili. Soprattutto in mancanza di un accordo e di una proroga del periodo transitorio. L'OCSE stima, per il Regno Unito, una perdita di crescita del PIL del 2-2,5% nei primi due anni, con investimenti privati a -9% e aumento dell'inflazione; per i Paesi dell'area euro una perdita di crescita del PIL pari a 0,5% nei primi due anni, con effetti maggiori su Irlanda, Paesi Bassi, Belgio e Danimarca. Per quanto riguarda, invece, l'impatto della Brexit sull’Italia, secondo il Brexit sensitity index elaborato dall'Agenzia di rating Standard & Poor's, il nostro Paese sarebbe uno dei meno colpiti. In testa, invece, Irlanda, Malta, Lussemburgo, Cipro, Svizzera e Belgio.

La posizione sulla Brexit assunta dal Governo britannico non smorza i toni, al contrario sembra tendere deliberatamente a incendiarli. Il risultato è che di giorno in giorno nuovi dubbi si consolidano sui bilanci e sugli strategic e business plan che le aziende elaborano guardando sia al periodo di transizione sia allo scenario che si aprirà nel 2021. Un’incertezza che ha già provocato un risultato, con l’indice positivo di più di 100.000 società con sede nel Regno Unito che, nei 3 mesi passati, s’è involuto in negativo quasi esclusivamente a causa del Brexit-caos che sembra prepararsi.

D’altra parte, il Primo Ministro, Boris Johnson, è stato piuttosto netto: “o il dialogo mostra un sostanziale avvicinamento delle parti sui nodi centrali entro giugno, oppure si salta dritti a fine anno, lavorando all’addio senza accordo”, quindi senza abbracci né saluti, nemmeno un arrivederci. Tradotto, dal 1° gennaio 2021 Londra sarebbe sciolta da qualunque legame con l’UE, lo stesso varrebbe per il mondo imprenditoriale britannico e l’industria dei servizi. Uno shock per migliaia di società, sottolineato dalla maggiore associazione inglese che riunisce quasi 200.000 grandi aziende, la CBI - Confederation of British Industry, e che in risposta a tali annunci ha immediatamente aperto uno spazio web dedicato al verificarsi dello scenario peggiore, un’uscita dal sistema europeo senza alcun accordo sul post-Brexit.

I numeri in gioco non ammettono grandi giri di parole sul livello di rischio che comporterebbe il fallimento del dialogo Londra-Bruxelles e il conseguente ritorno delle relazioni commerciali sotto l’ombrello normativo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. La buona notizia: l’Italia, secondo l’OCSE e sfogliando le analisi Standard & Poor's, potrebbe soffrire meno di altri Paesi l’addio di Londra all’UE.

La relazione UK-UE attraverso i dati

Il 54% dei beni importati ogni anno entro i confini del Regno unito provengono da Paesi membri dell’Unione europea. Tale flusso ha un valore di 345 miliardi di sterline. Un suo ridimensionamento, anche un rallentamento, determinerebbe la necessaria revisione, al ribasso, cioè con taglio dei costi e con ciò che ne deriverebbe, delle supply-chains di migliaia di imprese che guardano al mercato europeo.

Lo stesso vale per l’export, dato che Londra trasferisce beni del valore di 289 miliardi di sterline l’anno in Europa che, di fatto, è il suo primo partner come mercato per l’esportazione.

Ma il danno maggiore è collegato al settore dei servizi, un ramo fiore all’occhiello dell’eccellenza britannica. In sostanza, il 40% dei servizi che Londra esporta sono destinati ai mercati europei. Immaginare restrizioni, in materia di scambi ma anche riguardo i riconoscimenti delle professionalità e le libertà di stabilimento, rischierebbe di innestare un effetto domino in un settore che contribuisce all’80% del PIL britannico e che dà lavoro a 4 occupati su 5.

Non solo regole e restrizioni: anche trasferimenti e fondi europei a rischio

Prima di sfogliare i propositi inglesi nel dialogo con l’UE sulla Brexit, è corretto rammentare due fattori chiave che aiutano a illuminare la trama per un eventuale accordo: il primo riguarda lo scoglio dei volumi import-export, sul quale Londra ha già annunciato che - a partire dal 2021 - sarà necessario intervenire con almeno 50.000 nuovi operatori per garantire l’implementazione effettiva delle nuove procedure, l’acquisizione degli atti e la loro verifica per le attività doganali multitasking.

In pratica, si dovrà raddoppiare il numero di amministrativi già impegnati in dogana e sui processi correlati.

Il secondo aspetto invece riguarda le imprese e i fondi che da Bruxelles annualmente si rendono disponibili in determinati ambiti e per specifiche attività imprenditoriali. Un esempio su tutti è il programma Horizon 2020, un motore di stimolo per l’innovazione e la ricerca e che indirizza alle imprese britanniche più di 5 miliardi di sterline l’anno. Fondi che a breve si ridurranno a zero e che dovranno essere sostituiti da un incremento di crediti e incentivi fiscali da parte del Governo.

E non finisce qui perché lo stesso effetto deriverà dal mancato accesso al rural development funding, a Erasmus+, European Solidarity Corps, UK LIFE projects, Creative Europe, Europe for Citizens, Connecting Europe Facility in Telecoms, European Social Funding, e ancora, European Regional Development funding, e i fondi strutturali e per l’investimento.

E la lista potrebbe continuare. Si tratta di miliardi a perdere che si dissolverebbero e che solo in minima parte potrebbero essere recuperati se riservati anche ad aziende fuori dall’Unione, ad esempio localizzate in Paesi terzi. Ma non tutti i fondi europei consentono queste piccole libertà. In totale, i flussi dai fondi europei a rischio per le imprese d’oltremanica potrebbero superare i 20 miliardi di sterline l’anno ed è una stima minima.

Le richieste inglesi al tavolo dei negoziati

In primo luogo, il Regno Unito ambirebbe a instaurare con la controparte europea un mercato liberalizzato per gli scambi di merci, senza tariffe, tasse, oneri o restrizioni quantitative sugli scambi di prodotti, inclusi quelli agricoli. Inoltre, la concorrenza e le sovvenzioni non dovrebbero essere soggette al meccanismo di risoluzione delle controversie, come inizialmente contemplato.

E ancora, Londra punterebbe ad un accordo separato sulla pesca che consentirebbe negoziati annuali sull'accesso alle reciproche acque, compresi i volumi di pescato e le quote consentite. Al contrario, l'UE spingerebbe affinché anche tale attività sia considerata come parte dell'accordo globale, non quindi d’un agreement separato, scisso dal consensus generale.

Naturalmente, da Londra richiamano alla necessità d’un accordo sull'equivalenza sui servizi finanziari, sul quale in realtà non dovrebbero maturare divergenze. Il Regno Unito guarda con ostilità alla partecipazione al mandato d'arresto europeo, rispetto alla cui prassi ambirebbe a distanziarsi seguendo la via d’un accordo di estradizione simile a quello che l'UE ha con l'Islanda e la Norvegia, posizione questa che potrebbe causare un forte allarme tra le forze dell'ordine, sia britanniche che europee.

Ma la richiesta più impellente rovesciata sul tavolo del negoziato ha posto al centro la riscrittura di un accordo di scambio modello Canada-UE. A parte il problema tecnico, l'accordo economico e commerciale globale, o CETA, è un accordo commerciale concluso tra l'UE e il Canada che non contiene riferimenti, ad esempio, a temi migratori, di residenza, quote di cittadini etc., contempla una posizione centrale per la Corte di giustizia europea, un corpo istituzionale da cui Londra vorrebbe sciogliersi in via definitiva.

Inoltre, si tratta sì di un canale di libero scambio, ma i servizi restano al margine, quasi penalizzati. In definitiva, prossimità a parte, il Canada è lontano, il Regno Unito non lo è, un tale accordo comprimerebbe il settore dei servizi inglesi piuttosto che concedergli respiro.

In definitiva, l’assenza di dazi e spese aggiuntive non passerebbe l’esame dell’UE la quale richiede espressamente che un accordo simile avvenga sì ma solo a condizione che Londra accetti di costruirlo su delle basi comuni in materia di fiscalità nazionale, diritti dei lavoratori, ambiente e sussidi statali. Come dire, l’Europa esce dalla porta per rientrare nel regno unito dalla finestra. Insomma, le parti restano lontane.

Nell'Economic Outlook pubblicato nel novembre 2019 l’OCSE ha rimarcato come malgrado l'imminente ratifica dell'Accordo di recesso da parte del Regno Unito abbia rimosso il rischio di un’uscita senza accordo, la possibilità che non si raggiunga un accordo sulle future relazioni tra l'UE e il Regno Unito entro il 31 dicembre 2020 avrebbe comunque un impatto sull'economia del Regno Unito e dell'UE.

Come dire, accordo o no, la separazione tra Londra e Bruxelles comporterà dei danni inevitabili.

Ad esempio, nell’ipotesi che non si raggiunga un accordo con il Regno Unito, che il periodo transitorio non venga prolungato, come del resto ripetuto dal Governo britannico, e che a partire dal 1° gennaio 2021 le relazioni commerciali tra UE e Regno Unito siano quindi regolate dalle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio, con l'applicazione della clausola della "nazione più favorita" (Most Favoured Nation, Mfn), secondo la quale ogni Stato si impegna ad accordare a ogni altro lo stesso trattamento concesso a tutti i Paesi con cui non esistono specifici accordi commerciali bilaterali, ebbene in tale caso lo scenario economico si indebolirebbe, con un ulteriore peggioramento, se i preparativi per i controlli alle frontiere che si renderanno necessari non riusciranno a prevenire significativi ritardi e ostacoli nei flussi commerciali.

In particolare, l'OCSE stima dunque:

- per il Regno Unito una perdita di crescita del PIL pari a 2-2,5% nei primi due anni, e nel primo anno una caduta degli investimenti privati del 9% e un aumento dell'inflazione di 3/4 di punto;

- per i Paesi dell'area euro una perdita di crescita del PIL pari a 0,5% nei primi due anni, con effetti maggiori sull'andamento economico di Paesi piccoli con maggiori legami commerciali con il Regno Unito quali: Irlanda, Paesi Bassi, Belgio e Danimarca; nel medio lungo periodo ci sarebbe una considerevole contrazione dei flussi commerciali in alcuni settori quali auto e ricambi auto, prodotti tessili e servizi finanziari.

Per quanto riguarda in particolare l'impatto della Brexit sull’Italia, secondo quanto riportato dal Brexit sensitity index elaborato dall'Agenzia di rating Standard & Poor's, il nostro Paese sarebbe uno dei meno colpiti. In testa invece vi sarebbero Irlanda, Malta, Lussemburgo, Cipro, Svizzera e Belgio.

Chi ha già scelto dove stare e cosa fare

Le imprese, non solo britanniche, che hanno già maturato una scelta sono numerose:

- alcune hanno deciso di tagliare gli investimenti,

- altre di rilocalizzare le loro sedi all’estero,

- altre ancora di licenziare o di spostare preferibilmente in un Paese europeo alcune attività.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/impresa/commercio-internazionale/quotidiano/2020/03/05/hard-brexit-imprese-italiane-colpite

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