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Parità retributiva di genere: le regole UE ci sono. La parola al legislatore e alle parti sociali

Contrastare il gender pay gap e garantire la trasparenza dell’informazione e la neutralità nella parità di retribuzione tra uomini e donne che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari qualifica, sia nel settore pubblico che in quello privato. Sono gli obiettivi della Direttiva 2023/970. L’Unione europea, naturalmente, pone delle basi di natura generale. Ma qual è la situazione di partenza con la quale ci si deve confrontare in Italia nel perseguire la giustizia retributiva dal punto di vista della parità di genere? E qual è la situazione regolatoria sulla quale si dovrà intervenire per conseguire l’obiettivo? Bisognerà aggiornare l’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006, prevedendo un’integrazione di dati nel contesto del reporting, in particolare l’indicazione del divario retributivo mediano e la verifica della distribuzione di uomini e donne nei quartili retributivi; integrazione che potrebbe rappresentare, quindi, una scelta di metodo valida. Tocca, però, al legislatore e alle parti sociali affrontare tempestivamente un compito articolato e complesso per far sì che l’Italia consegua gli obiettivi entro il 7 giugno 2026.

La trasparenza dell’informazione e la neutralità, dal punto di vista di genere, delle classificazioni professionali sono i criteri scelti dall’Unione europea per combattere il Gender Pay Gap attraverso la Direttiva 2023/970 del Parlamento e del Consiglio pubblicata il 10 maggio sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione. Attraverso l'individuazione di prescrizioni indirizzate all'applicazione della parità di retribuzione tra uomini e donne che svolgono lo stesso lavoro - o un lavoro di pari qualifica - la direttiva individua un periodo di tre anni, fino al 7 giugno del 2026, perché gli Stati membri adeguino le proprie disposizioni legislative e regolatorie, che riguardano il lavoro pubblico e quello privato, all’obiettivo. I datori di lavoro dovrebbero essere messi in condizione di applicare sistemi retributivi equi per uno stesso lavoro, o per un lavoro di pari valore. Dovranno essere applicati strumenti o metodologie che consentono al datore di lavoro, così come alle parti sociali, di adottare sistemi di valutazione e classificazione professionale neutri sotto il profilo del genere che, dunque, evitino alla radice che possano verificarsi discriminazioni retributive, dirette e indirette, a causa del genere. L’Unione europea, naturalmente, pone delle basi di natura generale, perché, a partire dall’articolazione della grande varietà di situazioni che si verificano nei vari Paesi, l’insieme degli Stati membri punti a un obiettivo comune. Ma qual è la situazione di partenza con la quale ci si deve confrontare in Italia nel perseguire la giustizia retributiva dal punto di vista della parità di genere? E qual è la situazione regolatoria sulla quale si dovrà intervenire per conseguire l’obiettivo? Un simile tema implica un approfondimento di natura multidisciplinare, da affrontare con la consapevolezza che l’argomento può rivelarsi scivoloso a partire dal piano delle rilevazioni statistiche. Il dato medio delle retribuzioni orarie lorde, quello utilizzato da Eurostat, restituisce, riguardo all’Italia, un quadro apparentemente brillante, con un divario retributivo di genere del solo 4,2%, rispetto a una media dell’UE del 13%. Tale rilevazione non intercetta, ad esempio, i gap che si rilevano nei premi di produzione, di risultato, di produttività. Né i gap che si accumulano nel corso della vita a causa del divario nel tempo dedicato al lavoro. Divario che è diretta conseguenza dell’impari distribuzione dei carichi familiari. Ancora, la valutazione “manca” i gap che si collegano alla segregazione orizzontale in lavori sottovalutati e quindi sottopagati; o la segregazione verticale nelle fasce retributive più basse degli organigrammi aziendali. Così come i divari che originano dalle interruzioni di percorso, dalle barriere alla carriera. Gap che confluiscono, infine, nell’iniquità dei trattamenti pensionistici. I dati medi sulla retribuzione oraria rischiano, perciò, di rappresentare un criterio troppo sintetico. Si potrebbe, poi, dire che confrontare le retribuzioni orarie in un sistema regolativo come quello attuale italiano porti necessariamente a registrare un basso differenziale, considerato che le retribuzioni di base sono fissate dai contratti collettivi nazionali a livello settoriale, senza, ovviamente, distinzione tra uomini e donne. Ma anche qui, se si imposta il ragionamento in questi termini, perdiamo di vista la complessità del problema. Anzitutto, se parliamo di componente fissa della retribuzione e di comparazione tra uomini e donne, possono essere rilevanti due diversi scenari: il primo, in cui un uomo e una donna svolgono la stessa mansione; il secondo, in cui un uomo e una donna svolgono mansioni diverse, ma di pari valore. Il principio di parità retributiva dovrebbe trovare applicazione in entrambi i casi, come previsto dall’art. 28, comma 1, del D.Lgs. n. 198/2006. Quali sono i problemi che ne ostacolano l’applicazione e cosa può fare la contrattazione collettiva o, comunque, l’intervento delle parti sociali al riguardo? Se un uomo e una donna svolgono la stessa mansione, da contratto collettivo hanno necessariamente la stessa retribuzione di base. Il differenziale nella componente fissa della retribuzione si può annidare, in questo caso, soprattutto nei superminimi negoziati individualmente, senza criteri di trasparenza che possano spiegarne l’attribuzione e consentire un controllo da parte dei lavoratori e del sindacato. Nel caso in cui uomini e donne svolgano lavori diversi, ma di pari valore, la parificazione del trattamento retributivo può essere ostacolata da un contesto di segregazione orizzontale di genere: all’interno di un determinato settore produttivo alcune mansioni sono assegnate prevalentemente alle donne e le caratteristiche proprie di tali mansioni sono sottovalutate e, di conseguenza sotto-remunerate. L’utilizzo di una job evaluation, la valutazione analitica delle mansioni, neutra dal punto di vista del genere potrebbe essere un modo per ricostruire e aggiornare le griglie di classificazione. Così come potrebbe essere una base di partenza per costruire una skill evaluation, un processo di valutazione ex post delle competenze, dell’apporto del lavoratore in termini di saper fare acquisito e skill maturati, ai fini di una distribuzione trasparente e oggettiva dei superminimi, della retribuzione collegata al merito e al rendimento delle progressioni di carriera. Peraltro, nell’analizzare il tema della formazione di fronte alle sfide del digitale, particolare accento va posto in merito all’importanza delle competenze trasversali, comunicative, relazionali, di intelligenza emotiva, ossia quelle capacità “innate” spesso sottovalutate nella ponderazione del valore del lavoro. Il tema della valutazione delle competenze ci traghetta su un secondo versante di analisi, quello relativo al gender pay gap nella retribuzione di produttività. Quando si parla di trasparenza, diventa però centrale anche il tema della conoscibilità da parte dei lavoratori e del sindacato delle retribuzioni effettivamente corrisposte. L’approvazione della Direttiva 970 richiederà di aggiornare l’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006, prevedendo un’integrazione di dati nel contesto del reporting - ossia, in particolare, l’indicazione del divario retributivo mediano e la verifica della distribuzione di uomini e donne nei quartili retributivi; integrazione che potrebbe rappresentare, quindi, una scelta di metodo valida. Ora tocca al legislatore e alle parti sociali affrontare tempestivamente un compito articolato e complesso per far sì che l’Italia consegua gli obiettivi dati dalla Direttiva entro il termine fissato: 7 giugno 2026. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/06/17/parita-retributiva-genere-regole-ue-sono-parola-legislatore-parti-sociali

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