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Riforma dei licenziamenti? La grande assente, per ora. Ma è necessaria

Dal 2015 ad oggi abbiamo assistito ad un lento e progressivo smantellamento del modello sanzionatorio conseguente all’illegittimità del licenziamento voluto dai Legislatori ad opera della giurisprudenza costituzionale e di legittimità. E le differenti prese di posizione hanno generato un certo grado di “scollamento” fra il testo e lo spirito delle norme e la loro interpretazione. Il sistema relativo all’illegittimità del licenziamento vive un momento di grande frammentazione oltre che una certa distanza dalle dinamiche delle moderne organizzazioni aziendali. Ecco allora la necessità di una riforma complessiva della disciplina per ricondurre ad unità questo dedalo di norme ormai eccessivamente stratificate. La soluzione, comunque, potrebbe esserci. Quale?

I temi in discussione nel dibattito intorno al mondo del lavoro sono molti e diversissimi fra loro, dalla flessibilità nell’accesso al mercato si pensi ai recenti interventi sul contratto a tempo determinato, al tema delle misure di sostegno alla povertà che partono dall’assegno d’inclusione ed arrivano alla proposta sull’introduzione del salario minimo legale o, ancora, al tema degli impatti delle intelligenze artificiali generative. Tutti temi di grande interesse, però, ad uno sguardo più attento non può sfuggire la grande assenza dal dibattito pubblico del tema del licenziamento e delle conseguenze dell’eventuale illegittimità dello stesso. Fino agli inizi del secondo decennio degli anni 2000 abbiamo vissuto in una situazione di immutabile staticità nella quale il tema dell’illegittimità del licenziamento viveva di una dicotomia, in realtà ancora presente, per la quale il mondo datoriale si divideva fra i soggetti rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e quelli che ne erano esclusi. Rispetto a questa summa divisio l’apparato sanzionatorio era, quindi, riconducibile, a prescindere dal vizio in cui era incorsa la parte datoriale al momento del licenziamento, in tutela reale/reintegratoria e tutela obbligatoria/risarcitoria in ragione delle dimensioni aziendali. Con la legge n. 12/1992, infatti, la prospettiva comincia a mutare a favore di un apparato sanzionatorio, sempre nell’alveo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, per il quale la sanzione seguiva il tipo di vizio contestato e poteva risolversi, anche “soltanto” in una sanzione di tipo economico. Questa stessa riforma, al netto delle ipotesi di nullità, portava con sé, sebbene in modo non del tutto compiuto, come avverrà con la prima stesura del contratto a tutele crescenti, il concetto di predeterminazione economica del costo dell’inadempimento. Questo processo di migrazione verso un diverso modello “sanzionatorio” conseguente all’illegittimità del licenziamento viene portato a compimento con il contratto a tutele crescenti in cui l’assetto rimediale trova il suo punto di equilibrio per un verso nella gradazione dell’indennità risarcitoria connessa all’anzianità di servizio, per altro verso nel ridimensionamento della tutela reintegratoria ad aspetto tendenzialmente residuale. In questo quadro, ciò che però rimane immutata è, però, la dicotomia fra aziende di grandi e piccole dimensioni fondata esclusivamente sul numero di dipendenti impiegati. A questa storica bipartizione si aggiunge un ulteriore elemento di distinzione rappresentato dalla data di assunzione del lavoratore, al quale si applicheranno regimi differenti a seconda della circostanza per cui questi sia assunto prima o dopo il 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del contratto a tutele crescenti. Dal 2015 ad oggi, però, abbiamo assistito ad un lento e progressivo smantellamento del modello voluto dai Legislatori di quella stagione, ad opera della giurisprudenza costituzionale e di legittimità. In tal senso devono essere lette le pronunce della Corte costituzionale (Corte Cost. n. 194/2018; Corte Cost. 150/2020) che hanno superato il meccanismo di quantificazione automatica dell’indennità risarcitoria fondato sull’anzianità aziendale operato nell’ambito del contratto a tutele crescenti. Sotto questo profilo, si evidenzia come gli interventi dei Giudici delle Leggi abbiano, nell’esercizio della loro funzione, nei fatti, restituito al magistrato un margine di discrezionalità nella determinazione dell’indennità risarcitoria i cui limiti sono stati nelle more incrementati dal decreto Dignità. Anche la disciplina dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non è stata scevra da interventi della Corte costituzione e della Suprema Corte di Cassazione che, nel giro di soli due anni, hanno ampliato i margini della tutela reitegratoria nel solco di un’idea parzialmente restauratrice dell’assetto rimediale precedente ante 2012. La Corte costituzionale, da prima, con la sentenza n. 59 del 2021 interviene con una sentenza interpretativa secondo cui l’articolo 18, comma 7, è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui accertata “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare » - invece che « applica altresì » - la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4”, con ciò imponendo il rimedio reintegratorio tutte le volte in cui il fatto posto a base del licenziamento per motivo oggettivo sia “manifestamente insussistente”. A distanza di soli 13 mesi i Giudici della Consulta ritornano sulla medesima disposizione per dichiarare illegittima la norma nella parte in cui richiede che l’insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso sia “manifesta” (Corte Cost. n. 125/2022). Nello stesso lasso di tempo matura innanzi alla Suprema Corte di Cassazione un nuovo orientamento in materia di licenziamento per motivo soggettivo, secondo cui “in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, commi 4 e 5, come novellata dalla L. n. 92 del 28 giugno 2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo” (Cass. 11 aprile 2022, n. 11665). Tale ultimo orientamento ha, evidentemente, quale conseguenza quella, potenzialmente, di estendere l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria ed allo stesso tempo i margini di discrezionalità del decidente nel compiere l’operazione interpretativa descritta dalla Cassazione. Appare dunque evidente come le differenti prese di posizione abbiano generato un certo grado di “scollamento” fra il testo e lo spirito delle norme e la loro interpretazione. In ultima analisi, il sistema vive un momento di grande frammentazione dell’assetto rimediale (per data di assunzione - per dimensioni aziendali - per margini interpretativi): ecco allora la necessità di una riforma complessiva della disciplina per ricondurre ad unità questo dedalo di norme ormai eccessivamente stratificate. Esigenza, quest’ultima, non solo manifestata dai player del mercato del lavoro e dagli interpreti, ma dalla stessa Corte costituzionale a valle della sentenza n. 183/2022. Ad avviso di chi scrive la soluzione non può che passare per una riforma complessiva del tema, partendo da alcune semplici domande: a) La reintegrazione è un dogma non sostituibile per equivalente? b) La reintegrazione è davvero uno strumento effettivo o è, nella maggioranza dei casi concreti, sostituito dalla relativa indennità? c) Il requisito dimensionale è ancora un valore che qualifica la sostenibilità di un assetto rimediale più gravoso per l’impresa? Se la risposta fosse negativa - come nei fatti probabilmente è al netto di posizioni ideologiche - una futura riforma potrebbe orientarsi verso un sistema unico che veda la reintegrazione connessa solo alle ipotesi di nullità, lasciando a tutte le altre ipotesi solo il rimedio risarcitorio la cui quantificazione è delegata al giudice nell’ambito di fasce individuate anche in ragione di requisiti finanziari/economici e non solo o forse mai in base al requisito occupazionale dei datori di lavoro. Resta ovviamente il tema della quantificazione del danno da licenziamento illegittimo. A mio parere a questi fini occorre verificare lo stato di attuazione delle politiche attive ed avere un riscontro realistico sui tempi di ricollocazione del lavoratore ed, ovviamente, deve esserci la garanzia dell’affiancamento lungo questo percorso obbligato ed obbligatorio. Diversamente opinando qualsiasi quantificazione al di fuori di questi parametri, potrebbe risultare insufficiente o, addirittura, sproporzionata rispetto all'effettivo danno. Attraverso questo sistema si contempererebbero gran parte delle esigenze emerse dalle diverse parti. Sarebbero, infatti, soddisfatte quelle relative ai margini di discrezionalità della magistratura, ma anche quelle della predeterminabilità e sostenibilità dei costi provenienti dal mondo dell’impresa moderna e digitale, in cui al numero dei lavoratori non corrisponde necessariamente una maggiore forza economica, ed ancora si avrebbe una misura della quantificazione del risarcimento allineata all’efficacia degli strumenti di politica attiva. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/07/29/riforma-licenziamenti-assente-ora-necessaria

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