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Parità retributiva di genere: quali saranno i nuovi obblighi per le imprese

Obblighi di comunicazione con riguardo al divario retributivo tra lavoratrici e lavoratori e valutazione congiunta delle retribuzioni. Sono le novità di maggior rilievo previste dalla Direttiva (UE) 2023/970, che condizioneranno in modo significativo le politiche retributive delle imprese. Tuttavia, se l’accertamento dell’assenza di fenomeni discriminatori sul piano retributivo non presenta particolari difficoltà quando la lavoratrice e il lavoratore operino nel medesimo contesto lavorativo e svolgano identiche mansioni, l’attività di comparazione del lavoro può risultare complessa quando deve essere accertata l’equità delle politiche retributive alla luce della comparazione del valore tra diverse mansioni. Come deve operare il datore di lavoro?

L’art. 34, par. 1 della Direttiva (UE) 2023/970 del 10 maggio 2023, entrata in vigore lo scorso 6 giugno 2023, stabilisce che entro il 7 giugno 2026 ciascuno Stato membro è tenuto a conformare la legislazione domestica alle disposizioni dettate dalla direttiva stessa al fine di rafforzare, (anche) attraverso la trasparenza retributiva, l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. La richiamata direttiva contempla diritti d’informazione che si aggiungono a quelli più recentemente introdotti dal decreto Trasparenza (D.Lgs. n. 104/2022), prevede nuovi e analitici obblighi di comunicazione con riguardo al divario retributivo, e che dovranno essere opportunamente raccordati con l’obbligo di trasmissione del rapporto sulla situazione del personale di cui all’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006, e introduce la valutazione congiunta delle retribuzioni, elemento di novità di maggior rilievo dell’impianto normativo delineato dalla citata direttiva e che condizionerà in modo significativo le politiche retributive dell’impresa. Principio di parità di retribuzione tra lavoratrici e lavoratori Come accennato, la direttiva in esame mira ad assicurare con maggiore effettività il principio di parità della retribuzione tra lavoratrici e lavoratori, incardinando il disciplinamento di detto principio su: a) una nozione di retribuzione comprensiva oltre che dello “stipendio normale di base o minimo”, anche di tutti gli altri vantaggi pagati direttamente indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore (componenti complementari o variabili) a motivo dell’impiego di quest’ultimo (art. 1, par. 1, lett. a); b) la comparazione del valore dei lavori, condotta in osservanza di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere quali i) le competenze, ii) l’impegno, iii) la responsabilità, iv) le condizioni di lavoro “nonché qualsiasi altro fattore pertinente al lavoro o alla posizione specifici” (art. 4, par. 2). Se l’accertamento dell’assenza di fenomeni discriminatori sul piano retributivo non presenta particolari difficoltà quando la lavoratrice e il lavoratore operanti nel medesimo contesto lavorativo svolgano identiche mansioni, l’attività di comparazione del valore del lavoro può risultare complesso quando debba essere accertata l’equità delle politiche retributive alla luce della comparazione del valore tra diverse mansioni. In tal caso, il ricorso al livello d’inquadramento attribuito al lavoratore e alla lavoratrice offre certamente un primo utile elemento per orientare la verifica, ma, come evincibile da quanto indicato alla lettera b) che precede, la valutazione non può prescindere da elementi concreti e attuali, sia di natura qualitativa che quantitativa. Verifica e analisi delle retribuzioni Dunque, per esprimere una fondata valutazione circa l’equità delle politiche retributive e per accertare l’assenza di un ingiustificato divario retributivo di genere è necessario effettuare un’analisi delle retribuzioni corrisposte a lavoratrici e lavoratori che svolgano un lavoro di pari valore, che è possibile condurre solo quando sia disponibile una mappatura dei lavori di pari valore svolti nell’ambito dell’organizzazione, definita ricorrendo ai già richiamati elementi di cui alla lettera b). Tale modalità di verifica di un (eventuale) divario retributivo ingiustificato non costituisce una novità che attende d’essere introdotta nel vigente ordinamento, dal momento che, nel solco di quanto disposto dalla Convenzione n. 100 dell’Organizzazione internazionale del lavoro del 29 giugno 1951 e ratificata con Legge n. 741/1956, l’art. 28, c. 1 del D.Lgs. n. 198/2006 dispone che “è vietata qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale”. È altresì stabilito che “i sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne ed essere elaborati in modo da eliminare le discriminazioni”. A tal proposito, l’art. 4, par. 2 della direttiva in esame affida a ciascuno Stato membro l’adozione di misure che offrano strumenti e metodologie di classificazione professionale e di analisi che consentano di effettuare un confronto e una valutazione del valore del lavoro secondo criteri e parametri che escludano fenomeni di discriminazione retributiva fondati sul genere. Come noto, in forza dell’art. 46-bis del D.Lgs. n. 198/2006, l’art. 1 del D.M. 29 aprile 2022, ha individuato della prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 i parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere alle imprese, cruciale, anche sul piano della competitività dell’impresa, con riferimento al nuovo Codice dei contratti pubblici (in particolare, art. 61 del D.Lgs. n. 36/2023) e in relazione al quale il datore di lavoro ha titolo a beneficiare di un esonero contributivo calcolato nella misura dell’1% della contribuzione posta complessivamente a suo carico nel limite di 50mila euro annui (art. 1, c. 138 della Legge n. 234/2021 e INPS, circ. 137/2022). Ebbene, l’area “Equità remunerativa per genere” (par. 5.6) della Prassi più sopra richiamata incorre in due incongruenze con la disciplina (e giurisprudenza) comunitaria e la legislazione domestica: 1) l’indicatore (key performance indicator) applicato per accertare l’equità retributiva dell’impresa a prescindere dalla fascia dimensionale di essa impone di calcolare “la percentuale di differenza retributiva per medesimo livello inquadramentale per genere e a parità di competenze”. Stando al tenore letterale di tale prescrizione, la comparazione è incardinata sul livello d’inquadramento di lavoratori e lavoratrici nonché sulle competenze professionali, trascurando però gli ulteriori parametri di raffronto indicati dalla direttiva - e comunque già noti alla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea - quali, ad esempio, i) l’impegno, ii) la responsabilità e iii) le condizioni di lavoro. Dunque, non è detto che superato il vaglio della prassi UNI/PdR 125:2022, le politiche retributive dell’impresa adempiano alle prescrizioni dettate dal citato art. 28 del D.Lg. n. 198/2006; 2) la prassi giudica un divario retributivo di genere non giustificato inferiore al 10% ininfluente ai fini dell’ottenimento della certificazione, mentre l’art. 10, par. 1, lett. a) della richiamata direttiva individua in una differenza pari ad almeno il 5% l’elemento che comporta l’attivazione della procedura prevista in tema di valutazione congiunta delle retribuzioni. Ferma restando la necessità di opportuni adattamenti di talune norme dettate dalla prassi UNI/PdR 125:2022, si consideri infine che se fosse accertato un ingiustificato divario retributivo di genere in violazione del più volte citato art. 28 del D.Lgs. 198/2006, il sistema (certificato) di gestione per la parità di genere risulterebbe in contrasto con il divieto di discriminazione retributiva, la cui violazione è punita con l’ammenda da 250 euro a 1500 euro (art. 41, c. 2 del D.Lgs. n. 198/2006).

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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/11/14/parita-retributiva-genere-obblighi-imprese

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