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Le norme sul lavoro a chiamata compiono 100 anni. Dove si può migliorare?

La materia trattata dal decreto 6 dicembre 1923, n. 2657 è ancora attualissima. Tocca temi come il diritto al giusto salario e alla limitazione della giornata di lavoro e contiene una tabella “indicante le occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia”, che è ad oggi ancora in vigore, perché ritenuta idonea a rispondere ad esigenze di flessibilità, venendo così ad essere richiamata dal decreto del Ministro del lavoro 23 ottobre 2004 per completare la disciplina del lavoro intermittente o a chiamata. La soluzione trovata dal legislatore merita di essere considerata con maggiore attenzione da parte delle imprese e dei sindacati: attraverso le norme del lavoro discontinuo si potrebbe senz’altro rispondere a molte istanze di flessibilità che il lavoro a tempo indeterminato non riescono a fronteggiare pienamente e, al contempo, anche ipotizzare di dar vita ad uno strumento che consenta di entrare o uscire dal mercato del lavoro in maniera graduale. Nulla impedisce di aggiornare la tabella, che risponde alle necessità del secolo scorso, individuando “nuove” occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo!

Celebriamo il 6 dicembre 2023 un secolo di vita di una fonte normativa, ed in particolare del decreto (emanato dal Re d’Italia) n. 2657 in data 6 dicembre 1923, contenente una tabella «indicante le occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia».Ovviamente non c’è da stupirsi se concetti e definizioni attraversano i secoli e giungono sino a noi immutate. Lo stesso codice civile, a ben vedere, contiene nozioni (specie in tema di obbligazioni) che risalgono agli antichi romani e che hanno subito modestissime variazioni nel corso della storia. E lo stesso potrebbe dirsi per il codice civile francese che, in onore di Napoleone che lo aveva promulgato, non è mai stato modificato e ha celebrato oramai da tempo i duecento anni. Si deve subito aggiungere che la materia trattata dal decreto n. 2657/1923 è diventata però attualissima, venendo a toccare temi, come quello del diritto al giusto salario e alla limitazione della giornata di lavoro, che hanno costituito oggetto di un recente e noto intervento da parte della Cassazione (Sez. lav., sentenza 2 ottobre 2023, n. 27711), che ha stabilito che per lavori (che, per l’appunto, un tempo si sarebbero detti) discontinui il giudice possa disapplicare la misura della retribuzione individuata dalla contrattazione collettiva, sottoscritta dai sindacati maggiormente rappresentativi. Il problema, come si intuirà, è il tipo (o la qualità) del lavoro prestato, che nei casi regolati dal decreto n. 2657/1923 comporta una fatica ridotta, in quanto il lavoro viene prestato in maniera non continuativa, di modo che la misura della retribuzione deve tenere conto delle possibili pause che inframezzano la prestazione resa. Si tratta di una differenza che trovava riconoscimento legale espresso in una lunga serie di norme di legge, i cui precetti venivano poi completati e determinati proprio dal decreto in parola, che era inteso ad individuare quelle attività «alle quali non è applicabile la limitazione dell’orario», al tempo sancita dal D.L. 15 marzo 1923, n. 692 (ora abrogato, ma rimasto in vigore per ottanta anni esatti). Questa differenza fra lavoro effettivo e discontinuo è stata ora formalmente espunta dai testi di legge, anche se la correttezza della distinzione sul piano retributivo, fra tempi di attesa e tempi di lavoro, è stata riconosciuta come del tutto legittima da una pronunzia della Corte di giustizia europea (ordinanza 11 gennaio 2007, C-437/05, Vorel). E non c’è da stupirsi allora se, pur essendo venuto meno il riferimento normativo più diretto, l’elenco contenuto nel decreto n. 2657/1923 è, però, rimasto comunque in vigore non tanto perché espressione di caratteri naturali ed insopprimibili della prestazione, ma perché è stato ritenuto idoneo a rispondere ad altre esigenze di flessibilità, venendo così ad essere richiamato nel 2004 dal decreto del Ministro del lavoro 23 ottobre 2004 per completare la disciplina del lavoro intermittente. Si tratta di un contratto, anche a tempo determinato, già previsto dal D.Lgs. n. 276/2003 (ed ora normato agli artt. da 13 a 18 del D.Lgs. n. 81/2015) mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro, che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente (e cioè “a chiamata”). Il contratto di lavoro intermittente può essere concluso solo in presenza di specifiche condizioni, sia in ordine all’età dei lavoratori (soggetti con meno di 24 anni di età e con più di 55 anni), sia in ordine alla durata complessiva della prestazione (non più di quattrocento giornate di effettivo lavoro nell'arco di tre anni solari) e solo per esigenze specifiche che, in mancanza di previsione da parte del contratto collettivo, sono individuate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Ed è proprio facendo esercizio di questa delega che con il già ricordato D.M. 23 ottobre 2004 si è provveduto alla “individuazione, in via provvisoriamente sostitutiva, della contrattazione collettiva dei casi di ricorso al lavoro intermittente”, mantenendo quindi in vita le previsioni oramai vecchie di un secolo del decreto reale n. 2657. L’elenco che esso contiene riguarda, per fare qualche esempio, custodi e guardiani, fattorini, personale di servizio negli alberghi e negli altri esercizi pubblici, operai di vario tipo, personale addetto ai trasporti, e financo i commessi di negozio nelle città con meno di cinquantamila abitanti. L’elenco è davvero lungo e si tratta di attività per le quali l’esigenza di manodopera è connessa al variare della richiesta di servizi da parte del pubblico, di modo che la soluzione trovata dal legislatore meriterebbe di essere considerata con maggiore attenzione da parte delle imprese e dei sindacati, poiché attraverso le norme del lavoro discontinuo (o “a chiamata”) si potrebbe senz’altro rispondere a molte delle istanze di flessibilità che il modello del lavoro a tempo pieno e indeterminato non riesce a fronteggiare pienamente e, al contempo, si potrebbe anche ipotizzare di dar vita ad uno strumento che consenta di entrare o uscire dal mercato del lavoro in maniera graduale.Nulla, del resto, impedisce alla contrattazione collettiva di aggiornare l’elenco di cui si è detto, che risponde a tutt’evidenza alle necessità del secolo scorso, individuando quelle occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo. Non si può mancare di rilevare come anche il legislatore potrebbe dedicare maggiore attenzione verso questa ipotesi di lavoro, che è rimasta sempre ai margini delle riforme, sia intervenendo sul versante del trattamento previdenziale al fine di garantire un miglior raccordo con la posizione che il prestatore andrà a costituire (o ha già maturato), sia individuando soluzioni in grado di consentire a chi lo volesse un inserimento più stabile nel mondo del lavoro. In ogni caso, il centenario di una norma è un evento così raro che non poteva passare sotto silenzio. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/12/02/norme-lavoro-chiamata-compiono-100-anni-migliorare

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