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Parità di genere: perché può essere un valore aggiunto in azienda

Sono molti i benefici per le aziende che sviluppano politiche dedicate alla riduzione del divario di genere. Alla crescita delle competenze ed all’incremento della qualità dei processi si aggiunge anche il rafforzamento della reputazione dell’impresa. Ma i vantaggi non finiscono qui. La certificazione della parità di genere porta con sé sgravi contributivi. Cosa può fare il legislatore per contribuire a limitare il gender pay gap? Il Ministro del Lavoro del Governo Prodi, Cesare Damiano, spiega a IPSOA Quotidiano i temi oggetto del suo intervento al 13° Forum One LAVORO, dedicato a “Il lavoro che cambia: novità 2024”, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrina Per il Lavoro, che si svolge a Modena il 27 febbraio 2024 e in live streaming.

Si svolge a Modena il 13° Forum One LAVORO, dedicato a “Il lavoro che cambia: novità 2024”, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrina Per il Lavoro. Il Ministro del Lavoro del Governo Prodi, Cesare Damiano, anticipa a IPSOA Quotidiano i temi al centro del suo intervento.Ma veramente la parità di genere può essere un valore aggiunto per le imprese? in quale modo?Si tratta, indubbiamente, di un valore aggiunto. Politiche aziendali che riducono il divario di genere portano con sé una crescita delle competenze e un incremento di qualità dei processi. E trainano una crescita della reputazione dell’impresa. Alla necessità di giustizia sociale, che riguarda i diritti di oltre la metà dell’umanità, si accompagnano, nell’adozione di politiche di parità, benefici concreti definiti dal legislatore, come la certificazione della parità di genere che porta con sé sgravi contributivi. Una forma di premio che può stimolare ulteriori azioni di valore sociale come assumere policy d’impresa per la conciliazione dei tempi lavorativi con quelli propri della vita privata. Come è giusto che sia. Ciò, perché si deve ricordare che il quinto obiettivo dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite è esattamente l’uguaglianza di genere. Obiettivo con il quale contrasta il fatto che, in molti contesti lavorativi, non siano stati ancora superati stereotipi anacronistici e fuori dalla realtà che vedono le donne inadatte a svolgere ruoli legati alle discipline definite dall’acronimo inglese “Stem”, ossia scienza, tecnologia, ingegneria e matematica. In molte organizzazioni, come rilevato dal Global gender gap report 2023 del World Economic Forum, la realtà lavorativa delle donne è ancora bloccata in questo quadro pregiudiziale. Ebbene, per l’impresa questo è un limite funzionale che mortifica non solo le lavoratrici, che vedono frustrate le proprie aspettative, ma anche la capacità dell’organizzazione di raggiungere risultati migliori.Cos’altro può fare il legislatore per limitare il Gender Pay Gap?Credo che si debba agire al fine di orientare in modo corretto la contrattazione. Si deve prendere atto del fatto che sta diventando sempre più anacronistico il solo criterio della presenza al lavoro ai fini della determinazione della retribuzione e della produttività dell’impresa. Oggi, ci si orienta verso forme di organizzazione del lavoro nelle quali si deve valutare l’adempimento in termini di obiettivi raggiunti, anziché, semplicemente, di ore lavorate. Si pensi alle potenzialità dello smart working o al dibattito che si è aperto sulla settimana lavorativa di quattro giorni anche nel settore manifatturiero. Il criterio, rigido, della presenza in servizio può essere, inoltre, indirettamente discriminatorio. Discriminazione che si manifesta in ragione del divario nel tempo lavorato che deriva dalla persistente asimmetria nella distribuzione dei carichi di cura tra uomini e donne. Il gender pay gap può annidarsi nei premi di produttività e di risultato. La diffusione del lavoro agile richiede di indirizzare le forme di retribuzione di produttività e per obiettivi, sulla base di sistemi trasparenti e rendicontabili che abbiano come fine ultimo il raggiungimento degli obiettivi attraverso una gestione elastica del tempo. Da notare che una previsione legislativa in questo senso esiste già, laddove il comma 183 dell’articolo 1 della legge di Stabilità per il 2016, stabilisce, ad esempio, che “ai fini della determinazione dei premi di produttività è computato il periodo obbligatorio di congedo di maternità”. Dunque, applicando la norma, nella contrattazione aziendale si possono impedire pratiche aziendali potenzialmente discriminatorie, evitando ambiguità o vuoti normativi sul punto all’interno degli accordi aziendali. Nel caso si intenda mantenere il criterio della presenza in servizio, l’impatto discriminatorio può essere disinnescato dalla previsione negoziale di misure correttive volte a includere determinate assenze collegate ad esigenze sociali nel calcolo del diritto alla retribuzione. Nel 2022 le lavoratrici madri che hanno lasciato il lavoro sono aumentare quasi del 19% rispetto al 2021. La crescita è costante negli ultimi dieci anni. Come possiamo invertire il trend?Come affermato sopra, si deve operare per un’equa distribuzione del lavoro di cura. Si deve produrre una legislazione efficace, che oggi stenta ad affermarsi, per valorizzare il congedo di paternità obbligatorio, muovendosi verso un equo congedo di genitorialità. Il congedo di paternità esiste nel nostro ordinamento soltanto dal 2012, previsto nella riforma Fornero. Allo stato delle cose, per il padre sono previsti 10 giorni di congedo obbligatorio retribuiti al 100%. Un istituto lontanissimo dai 5 mesi del congedo di maternità. Rispetto al resto dell’Unione Europea, con questa misura, l’Italia si trova in fondo alla classifica. Una legislazione su un congedo di parità più efficace è un primo passo assolutamente necessario. Ma si deve andare oltre. È necessario ampliare l’orizzonte. Abbiamo citato sopra la necessità di promuovere la trasparenza e la rendicontazione delle politiche di genere nei contesti aziendali attraverso gli obblighi di reportistica e la certificazione volontaria della parità di genere. Si tratta, in poche parole, di promuovere la messa in trasparenza delle politiche interne ai contesti lavorativi così da far emergere le criticità che causano o acuiscono il gap di genere sul lavoro. Questo processo, tra l’altro, non esenta la pubblica amministrazione, vincolata dal legislatore a presentare il “bilancio di genere”. È proprio la progressiva affermazione della dimensione di genere nelle politiche pubbliche, in modo trasversale e non frammentato, che rivela il grado di maturità delle politiche nazionali in termini di inclusione sociale e parità. Questo indirizzo è fortemente raccomandato dall’Unione Europea ed è oggetto di iniziative legislative che cominciano ad andare oltre la sperimentazione. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2024/02/27/parita-genere-valore-aggiunto-azienda

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