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Tutela del lavoro dei riders: una riforma parziale. Perché?

Il ddl di conversione del decreto legge per la tutela del lavoro dei riders ha iniziato il suo cammino parlamentare. In attesa di conoscerne gli esiti, qualche riflessione è bene farla. Se si guarda alla portata delle novità, la disciplina risulta parziale, perché non rivolta a tutti gli operatori della Gig economy. E’ questo il vero limite della nuova disciplina. Se qualche passo avanti è stato fatto sul fronte delle tutele per i lavoratori non subordinati che svolgono la propria attività attraverso piattaforme digitali, altrettanto non può dirsi per coloro che svolgono la prestazione con forme più o meno ampie di organizzazione da parte del committente, che finiranno per ricorrere al giudice per ottenere alcune tutele proprie del lavoro subordinato. Non sarebbe stato forse più utile un intervento organico da parte del legislatore?

Come spesso avviene nel nostro ordinamento giuridico, la norma, nel tentativo di fornire una cornice giuridica a fattispecie nuove arriva a dettare le proprie regole senza tenere conto di alcuni importanti e concreti fattori di contesto - sociali ed economici - ma con la sola guida dell’urgenza e, a volte, dell’interesse mediatico attributo ad alcune materie. Il diritto del lavoro negli ultimi anni è stato a più riprese oggetto di questo interesse mediatico. Ma sul tema che ci occupa ora nel contesto di questo editoriale e come già più volte da chi scrive sottolineato, non è possibile ridurre l’analisi al solo aspetto giuridico della materia.

- Riders e platform workers. La tutela (incompiuta) del lavoro digitale

Per valutare la portata delle novità introdotte per la tutela del lavoro dei riders è necessario avere una mente aperta al contesto sociale ed economico in cui queste nuove forme di lavoro si sono collocate ormai da alcuni anni. Il settore della app economy (di cui l’attività di consegna svolta dai riders è solo una piccola percentuale) è in continua crescita e coinvolge ormai moltissimi addetti. Le imprese che operano in questo settore (dal food delivery in senso stretto a tutte le attività della sharing economy che coinvolgono molte attività di servizio) hanno un modello di business che non è in grado di sostenere i costi di un’impresa per così dire “tradizionale”. Le persone che lavorano in questo settore lo fanno per i più disparati motivi e, nel caso delle consegne a domicilio, non lo considerano certo il lavoro per la vita (v. F.Rotondi, L.Solari, Jobs App Un nuovo contratto di lavoro per l’economia digitale).

In questo contesto, il nuovo decreto legge (D.L. n. 101 del settembre 2019) entrato in vigore il 5 settembre scorso introduce alcune disposizioni - “urgenti” appunto - per la tutela del lavoro di coloro che operano attraverso piattaforme digitali. Tra queste disposizioni emergono alcune novità in materia di collaborazioni coordinate e continuative e l’introduzione di una nuova disciplina in materia di lavoro – non subordinato - tramite piattaforme digitali che entrerà in vigore decorsi 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, pertanto orientativamente nella primavera del 2020.

Sul fronte delle collaborazioni coordinate e continuative, seguendo probabilmente l’orientamento espresso dalla recente giurisprudenza dei Tribunali di Torino e Milano nel settore del food delivery e mediante una modifica diretta del Codice dei contratti scaturito dal Jobs Act, si precisa che debba trovare applicazione la disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni organizzate – quanto a tempi e luoghi di lavoro - dal committente, “anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme digitali”.

La definizione di cosa il legislatore intenda per “piattaforme digitali” viene dal gruppo di norme dedicato, invece, a creare un sistema specifico di tutela per alcune delle nuove modalità di lavoro scaturite dalla Gig economy.

E qui sta il primo elemento di parzialità e incompletezza della nuova disciplina.

La seconda parte dell’art. 1 del nuovo decreto (D.L. n. 101/2019) si concentra infatti sull’obiettivo della tutela di questa fascia di lavoratori – non subordinati - e ancora una volta – così come è stato fatto un anno fa con la nuova regolamentazione del contratto a termine e del contratto di somministrazione di lavoro - richiama con enfasi all’attenzione di lettori, operatori e interpreti un non ben definito concetto di dignità stabilendo, quale dichiarazione di intenti, che lo scopo di tale nuova disciplina è quello di “promuovere un’occupazione sicura e dignitosa nella prospettiva di accrescere e riordinare i livelli di tutela per i prestatori occupati con rapporti di lavoro non subordinato (…), nelle attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore (…) attraverso piattaforme anche digitali”.

La parte successiva del nuovo corpus di norme (che introduce un Capo V-bis nel D.Lgs. n. 81/2015) qualifica le piattaforme digitali come “i programmi e le procedure informatiche delle imprese che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, organizzano le attività di consegna di beni, fissandone il prezzo e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”.

Perché la disciplina risulta parziale? Perché se si guarda alla portata delle due novità, mentre l’integrazione del Codice dei contratti in merito al concetto di etero-organizzazione per le collaborazioni coordinate e continuative (tutta da valutare poi nell’applicazione pratica risultando di fatto normato l’approdo della prima giurisprudenza in materia, incline ad interpretare le categorie giuridiche scaturenti dalle nuove modalità di lavoro dell’era digitale con la tradizione lente del lavoro autonomo oppure del lavoro subordinato) è potenzialmente rivolta a tutti gli operatori della Gig economy, l’applicazione del nuovo capo V-bis del Codice dei contratti risulta essere limitato, per espressa volontà legislativa, ai soli rapporti di lavoro dei riders. Le nuove tutele riguardando infatti unicamente i rapporti di lavoro instaurati nel mercato della consegna di beni per conto altrui. Il che implica che risultano estranei all’obiettivo della tutela annunciata tutti quei rapporti di lavoro, ormai largamente diffusi nell’economia digitale ma evidentemente non rilevanti per il legislatore, aventi ad oggetto attività legate alla produzione ed allo scambio di servizi (ossia le attività della sharing economy).

Ed è questo probabilmente il vero limite della nuova disciplina. Da un lato perché non tiene nella dovuta considerazione – da un punto vista sociale e poi giuridico – l’intero mondo della App Economy nella sua globalità. Dall’altro perché introduce tutele comunque parziali nel merito.

Come già accennato in premessa, il mondo della App Economy è infatti caratterizzato da imprese che non possono essere interpretate con gli strumenti giuridico-economici tradizionali. Si tratta, tra l’altro, di un modo caratterizzato da lavoratori che non hanno interesse ad essere catalogati secondo la tradizionale qualificazione del rapporto di lavoro, ossia in modo netto in termini di autonomia o subordinazione, quanto interessati ad acquisire tutele tipiche di questo settore senza con questo perdere quelle che sono le caratteristiche specifiche di questa forma di lavoro che va in primo luogo valutato in termini di obiettivi, con tutte le necessarie implicazioni anche di natura economica che ne derivano. Si tratta ad esempio di prestazioni nelle quali è possibile ricevere compensi più alti o meno alti anche in forza dello scopo individuale che tali forme di lavoro sono destinate a soddisfare per ciascuno dei diretti interessati: integrazione del reddito, finanziamento degli studi, esperienza in vista di una nuova imprenditoria digitale, conciliazione vita lavoro etc. etc..

I punti fondamentali su cui ho sempre ritenuto di fondare la mia personale discussione sul Jobs App, lo ricordo, sono 3:

a) una retribuzione variabile legata alla prestazione e non al tempo messo a disposizione (elemento su cui il nuovo decreto richiama parametri più vicini al cottimo che ad un vero e proprio corrispettivo di una prestazione che qualifica comunque come “non subordinata”);

b) un minimo per retribuire la prestazione a seconda del settore, della concorrenza e del mercato, valido per tutte le aziende della Gig Economy;

c) un welfare di settore e tutele che, con una percentuale fissa, obbligatoria e aggiuntiva su ogni retribuzione, finanzi un fondo di categoria per coprire malattia, assicurazione sanitaria e infortunio.

Il D.L. n. 101/2019 non sembra aver provveduto in questa direzione e non risulta pertanto idoneo a superare tutte le incertezze interpretative venutesi a creare con l’avvento dell’economia digitale e con l’inevitabile evoluzione del mercato del lavoro cui assistiamo da anni. Un mercato del lavoro caratterizzato da un incontro tra domanda ed offerta di lavoro le cui istanze di flessibilità dei rapporti contrattuali sfuggono alle classiche catalogazioni nei tradizionali schemi giuslavoristici.

Le novità introdotte dal decreto appaiono più incentrate sulla costante preoccupazione di ricomprendere il lavoro prestato attraverso l’utilizzo delle “piattaforme digitali” nell’ambito delle categorie tradizionali dell’autonomia e della subordinazione e non pare invece orientato a prevedere delle tutele specifiche, a parte i criteri per la determinazione del corrispettivo assai vicini al cottimo e l’obbligatorietà di una copertura assicurativa contro gli infortuni.

In definitiva, seppure qualche passo avanti è stato fatto sul fronte delle tutele per i lavoratori non subordinati che svolgono la propria attività attraverso piattaforme digitali, altrettanto non può dirsi per le altre categorie di lavoratori, prima di tutto quelli soggetti a forme, più o meno intense, di etero-organizzazione, i quali per vedersi riconosciute alcune tutele non potranno che ricorrere all’autorità giudiziaria, con tutti i limiti in materia di onere probatorio, affidando ad un Giudice la valutazione degli elementi di fatto della loro prestazione di lavoro e avvalendosi pertanto della presunzione – oggi allargata - di cui, all’art. 2 del D.lgs. n. 81/2015.

Sarebbe stato più utile forse un intervento più incisivo da parte del legislatore. Un intervento più organico per un settore così in crescita e in rapida evoluzione che sfugge ai tradizionali schemi giuslavoristici.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/10/12/tutela-lavoro-riders-riforma-parziale-perche

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