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Licenziamento. Che cosa resta del Jobs Act?

Nel dibattito pubblico torna periodicamente a farsi sentire la proposta di cancellare il “Jobs Act”. Se però la stragrande parte dei decreti attuativi (otto) adottati nel corso del 2015 non risulta, al momento, in discussione, si può provare a ragionare sullo stato attuale della tormentata disciplina dei licenziamenti. E qui alla domanda “che cosa resta oggi del Jobs Act?” si può rispondere: una disciplina ormai quasi priva di connessione con la logica originaria, salvo che per la conferma della nuova (ma tutt’altro che incontrastata) prevalenza di un regime basato sulla monetizzazione della perdita del posto di lavoro. Ma residua un’incertezza su almeno due punti, che occorrerebbe affrontare se si puntasse davvero a riordinare il sistema attorno ad un unico regime sanzionatorio.

Nel dibattito pubblico torna periodicamente a farsi sentire, soprattutto ad opera dei partiti e movimenti più contrari alle politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro, la proposta di cancellare “il Jobs Act”. Di solito chi lancia questa idea - che pure ha in mente una cosa sola, e cioè la disciplina del regime sanzionatorio dei licenziamenti adottata nel 2015 dal Governo Renzi – non si cura di precisare che cosa, esattamente, intenderebbe superare allo stato della normativa. Si può però provare a ragionarne in questa sede, sì da trarne lo spunto per una riflessione sullo stato attuale della tormentata (come da sempre) disciplina dei licenziamenti.

Dei licenziamenti e non solo, innanzitutto. E’ infatti ovvio che quando ci si riferisce al Jobs Act nei termini descritti ci si esprime in modo inesatto, dal momento che sotto questa formula anglofila sono ricompresi ben otto decreti legislativi adottati nel corso del 2015, ed a loro volta promossi dalla legge delega n. 183/2014.

Ebbene, la stragrande parte di tali decreti non è, al momento, per nulla in discussione. Così, per fare degli esempi, nessuno propone di superare i d.lgs. n. 22/2015 sulla NASpI o n. 148/2015 sugli ammortizzatori sociali, per quanto soprattutto la materia del secondo sia costantemente interessata da norme di deroga o di emergenza. Neppure v’è chi stia pensando di riscrivere la riforma dei servizi per il lavoro disegnata dal D.Lgs. n. 150/2015, per quanto la sua trama sia stata profondamente intaccata dall’esito anti-centralizzante del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, con la conseguenza che la vera partita si sta adesso giocando nella riorganizzazione dei servizi sul territorio (ad es. con la creazione, in alcune regioni, di nuove Agenzie regionali per l’impiego) e in generale nell’informatizzazione del sistema.

Per quanto concerne il Codice dei contratti atipici o flessibili, previsto dal d.lgs. n. 81/2015, il suo impianto è rimasto inalterato, anche se questo non ha fermato gli interventi di riforma, in particolare su istituti che sono da sempre dei cantieri aperti, quali il contratto a termine e il contratto di somministrazione di lavoro, le cui discipline sono state notevolmente irrigidite (in particolare con la discussa reintroduzione della “causale” giustificativa) dal d.l. n. 87/2018 (cd. Decreto Dignità), convertito con legge n. 96/2018. Per questi due istituti il Jobs Act è già stato superato.

Ma siccome le cose non sono mai lineari quanto certe semplificazioni politiche vorrebbero, di solito si tace sul fatto che ci sono due altre norme dello stesso D.Lgs. n. 81/2015, delle quali gli stessi critici del Jobs Act si guardano bene dal proporre l’abolizione.

La prima è la norma sulle cd. collaborazioni eterorganizzate (art. 2), che, comunque la si voglia interpretare e valutare (e non v’è qui modo di farlo), sta avendo un forte effetto disincentivante delle co.co.co. maggiormente integrate nelle organizzazioni delle imprese committenti, ed ha pure fornito un primo zoccolo di tutele, tramite il caso giudiziario torinese sfociato nella recente Cass. n. 1663/2020, ed ancor prima della legge n. 128/2019, ai discussi rider.

La seconda norma, che ha rivelato un’insospettata forza propulsiva, è quella di cui all’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015. Nata come norma esplicativa degli specifici dispositivi di rinvio ai contratti collettivi contenuti nel decreto a proposito dei vari contratti flessibili, essa è stata a sua volta  utilizzata, tramite ulteriori e formali rinvii, da altre norme di legge, al fine di indirizzare i rimandi da esse previsti ai contratti collettivi (di qualsiasi livello: altra importante novità) riconducibili alle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative o alle rappresentanze dei lavoratori facenti capo a tali associazioni. In una fase caratterizzata dal timore di una disgregazione del sistema contrattuale, segnatamente a causa della comparsa in scena di contratti collettivi di dubbia rappresentatività, quando non pirateschi, basta ormai dire “art. 51” per evocare un ragionevole fronte di difesa del sistema contrattuale. E non pare un merito da poco.

Ma veniamo ora al Jobs Act “in senso stretto”, insomma al contratto a tutele crescenti di cui al d.lgs. n. 23/2015, cuore politico e simbolico – in effetti – del disegno di riforma del legislatore del 2015. Esso è già passato, come si dirà tra poco, attraverso sostanziali stravolgimenti, ed è altresì interessato, oltre che dalle proposte politiche ricordate in esordio, da diverse censure di legittimità costituzionale proposte da giudici di merito.

E’ stato rimesso alla Corte costituzionale, anzitutto, e in un caso anche alla Corte di giustizia UE, il doppio regime tra lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015: soltanto i secondi sono stati sottoposti al D.Lgs. n. 23/2015, mentre a quelli assunti in precedenza ha continuato ad applicarsi (ad esaurimento) l’art. 18, l. n. 300/1970, nella versione modificata dalla Riforma Fornero (l. n. 92/2012). Questo tipo di doglianza suscita, in verità, una qualche perplessità (anche quando è riferita al licenziamento collettivo, che non è che una somma di licenziamenti individuali), sia perché il doppio regime fu introdotto, all’epoca, per tenere indenni i lavoratori già in forza dall’impatto liberalizzante della riforma, e quindi come condizione di miglior favore nei loro confronti, sia perché la Corte costituzionale, nella sentenza n. 194/2018 sulla quale tornerò tra breve, ha già affermato che la scelta in discorso è stata una legittima espressione di discrezionalità legislativa. Il che non toglie che una ricomposizione del regime sarebbe opportuna; tuttavia, dovrebbe essere il legislatore, per l’appunto, a occuparsene.

Ma torniamo ai contenuti del D.Lgs. n. 23/2015, rispetto ai quali un rilievo preliminare che mi pare importante fare è che, a differenza di quanto spesso si dice, esso non ha affatto abolito la tutela reintegratoria, e ciò non soltanto per i licenziamenti discriminatori o altrimenti nulli. Infatti, nel caso di licenziamento disciplinare dichiarato ingiustificato per insussistenza del fatto (materiale o no) contestato al lavoratore, la tutela applicabile è, sia per l’art. 18 che per il D.Lgs. n. 23/2015, quella reintegratoria attenuata. E’ vero che nel vigore dell’art. 18 tale tutela si applica anche quando il  licenziamento disciplinare è stato comminato per un fatto tipizzato dal CCNL come passibile di una sanzione meramente conservativa, ma in fin dei conti questa ipotesi non è, o non dovrebbe essere, frequentissima.

C’è poi un caso nel quale il D.Lgs. n. 23/2015 ha raggiunto (non so quanto volutamente) il massimo della protezione: quello del licenziamento ingiustificato del lavoratore inidoneo o disabile, che è sanzionato come se fosse discriminatorio, e non con la tutela reintegratoria attenuata come nell’art. 18.

La differenza più forte tra i due regimi resta, quindi, quella in punto di licenziamento economico ingiustificato, per il quale il d.lgs. n. 23/2015 accorda esclusivamente la tutela indennitaria, superando l’alternativa tra reintegrazione e indennità, ancora presente nell’art. 18 (ed anch’essa oggetto di una censura di legittimità costituzionale a proposito della discrezionalità – il tanto discusso “può” – lasciata al giudice nel disporre o no la reintegrazione sebbene in presenza di un motivo oggettivo manifestamente insussistente).

Ciò detto, è altresì noto come il meccanismo della tutela indennitaria, che fatto salvo quanto sopra resta indubbiamente centrale nella logica del D.Lgs. n. 23/2015, sia stato fatto oggetto di un formidabile uno-due che ne ha stravolto la natura. Ha cominciato il Decreto Dignità, incrementando da 4 a 6 e da 24 a 36 mensilità il minimo e il massimo dell’indennità risarcitoria prevista. Ma il colpo del k.o. l’ha inferto la già evocata Corte cost. n. 194/2018, che ha dichiarato illegittimo il meccanismo di calcolo automatico dell’indennità, già previsto nell’importo di due mensilità per anno di servizio, fermi il minimo e il massimo già detti.

Affidando così al giudice il potere di determinazione della suddetta indennità, sulla scorta di una serie di criteri tra i quali rientra tuttora l’anzianità di servizio, ma anche, tra gli altri, il comportamento e la condizione delle parti, le dimensioni dell’impresa, nonché la gravità del vizio riscontrato nel licenziamento, la Corte ha apposto virtualmente la parola fine sul concetto stesso di “tutela crescente”, per come era stato prefigurato in un’ottica rivolta alla calcolabilità preventiva del costo potenziale del licenziamento, reimmettendo incertezza nel meccanismo.

E che incertezza, visto che la forchetta tra 6 e 36 mensilità è particolarmente (ed a mio avviso eccessivamente) ampia, e che le 36 mensilità, che una volta sarebbero spettate soltanto a lavoratori con 18 anni di servizio, potrebbero essere ora accordate dal giudice, in presenza di particolari circostanze, anche a soggetti con anzianità assai più bassa. Ed è da sottolineare che si tratta di un importo massimo più elevato di quello dell’art. 18 (24 mensilità), nonché alquanto fuori standard nel contesto europeo.   

Eppure il Comitato europeo dei diritti sociali (talora menzionato come Comitato economico e sociale), un organismo del Consiglio di Europa che presiede alla corretta applicazione della Carta sociale europea, ha affermato, accogliendo un reclamo proposto dalla CGIL, che anche nella versione attuale la disciplina del D.Lgs. n. 23/2015 non sarebbe in linea con la Carta (v. la decisione adottata in data 11 settembre 2019). In particolare, se ben si è inteso il tortuoso periodare del provvedimento, non sarebbe legittima la previsione stessa di un massimale economico, in quanto precluderebbe al lavoratore di agire per il risarcimento del danno effettivamente patito.

La decisione, salutata da taluni come una conferma dell’inaccettabilità del Jobs Act, mi sembra piuttosto   – fermo che il Jobs Act delle origini, come detto, non esiste più – un concentrato di affermazioni aprioristiche (come si fa a dire, ad es., che il massimale non va bene quale che ne sia l’importo?), nonché discretamente prive di contatto con la realtà pratica. Una realtà nella quale, in particolare sin dalla legge n. 108/1990 che per la prima volta dette un prezzo al posto di lavoro (e il prezzo fu di 15 mensilità, non di 24 o 36, sia pure in aggiunta ai danni pregressi), l’eventuale reintegrazione è quasi sempre una posta negoziale (una posta importante, naturalmente) da convertire in denaro nella trattativa col datore di lavoro.

Al di là di ciò, il nodo che anche questa decisione rivela quanto sia, nella coscienza giuridica comune, tuttora irrisolto, è quello di quale sia una tutela adeguata contro il licenziamento illegittimo. Si è sempre detto (e lo ha confermato anche la pronuncia n. 198/2014) che una tutela reintegratoria non è costituzionalmente imposta, e che è praticabile, dunque, anche una tutela per equivalente o economica: quella che, del resto, è sempre esistita, e con importi decisamente bassi, nelle piccole imprese.

Tuttavia, quando si va al dunque, non si riesce mai a mettersi d’accordo su quale possa essere una monetizzazione soddisfacente rispetto alle finalità, dissuasive e risarcitorie a un tempo, di questa normativa. Ciò sino al punto di evocare principi come quello della necessaria integralità del risarcimento del danno patrimoniale da licenziamento illegittimo, che a mia conoscenza non trovano applicazione pressoché in alcun ordinamento, e che se presi sul serio sarebbero incompatibili con qualunque meccanismo di compensation, quand’anche contemplante importi elevati.

Sull’altro fronte, chi sostiene il ritorno all’art. 18 di solito non si spinge ad invocare il “vecchio 18”, cioè quello precedente alla Riforma Fornero, che non distingueva tra vizi del licenziamento e che garantiva un risarcimento pieno al lavoratore (come accade, tuttora, nel licenziamento discriminatorio o comunque nullo), ma sembra accontentarsi della versione attuale. Che però, nel 2012, fu bollata in modo aspramente negativo, quasi come sarebbe accaduto tre anni dopo col contratto a tutele crescenti, e che comunque prevede anch’essa, tra le altre cose, una tutela indennitaria, oltretutto più ridotta nel massimo, come notato, di quella dell’odierno D.Lgs. n. 23/2015.

In conclusione, alla domanda “che cosa resta oggi del Jobs Act?” si può rispondere che resta una disciplina ormai quasi priva di connessione con la propria logica originaria, salvo che per la conferma della nuova (ma tutt’altro che incontrastata) prevalenza di un regime basato sulla monetizzazione della perdita del posto di lavoro, che peraltro era stata la Riforma Fornero a introdurre per la prima volta rompendo il tabù della tutela reale.

Ma residua un’incertezza su almeno due punti, che occorrerebbe invece affrontare di petto ove mai si riuscisse a riordinare il sistema attorno a un unico regime sanzionatorio: sulla base di quali criteri scandire l’alternativa tra tutela reintegratoria e indennitaria (un possibile modello essendo proprio quello dell’art. 18), e come quantificare la tutela indennitaria. La persistente irresoluzione di questi aspetti non è, d’altronde, che la spia del fatto che il tiro alla fune fra tutela reale ed economica – un’inopportuna guerra tra due mondi - sta tuttora continuando, con il risultato di ingenerare uno stallo che ostacola un ridisegno del sistema orientato a un pragmatico compromesso tra i diversi interessi in gioco.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/03/07/licenziamento-resta-jobs-act

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