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Divieto di licenziamento, termine mobile per le aziende. Come calcolarlo?

Il decreto Agosto ha delineato una nuova disciplina per il divieto dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Allentando le rigidità del Cura Italia, è stato infatti previsto un termine mobile per la sospensione dei licenziamenti, non uguale per tutti i datori di lavoro. Nello specifico, il legislatore ha creato un sistema “a geometria variabile” ove, sempre nel rispetto del termine massimo del 31 dicembre 2020, occorre fare una serie di calcoli per stabilire il giorno esatto entro il quale è possibile licenziare il personale. Quando e come si applica la nuova sospensione dei licenziamenti?

Dopo diversi “tira e molla” tra le associazioni sindacali dei lavoratori e quelle datoriali, il Governo, attraverso l’art. 14 del decreto Agosto (D.L. 14 agosto 2020, n. 104), ha delineato una nuova disciplina correlata alla sospensione dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che, in un certo senso, allenta le rigidità dell’art. 46 del Cura Italia (D.L. n. 18/2020), pur se avendo eliminato una data precisa di riferimento come era avvenuto con il D.L. n. 18 e, poi, con il decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020), ha creato una sorta di recessi “a geometria variabile” ove, per calcolare il giorno esatto entro il quale si può procedere al licenziamento occorre fare una serie di calcoli.

L’Esecutivo, attraverso il bilanciamento tra le esigenze dei lavoratori finalizzate alla salvaguardia occupazionale e quelle dei datori di lavoro tese ad una ristrutturazione per affrontare le nuove richieste dei mercati, ha elaborato due criteri alternativi (fruizione delle integrazioni salariali COVID-19 e esonero contributivo quadrimestrale), con una serie di deroghe, ivi compresi gli accordi aziendali per i “licenziamenti non oppositivi”, probabilmente accompagnati da incentivi all’esodo.

Il commento che segue non può che partire dal dettato normativo.

I primi due commi dell’art. 14 del decreto Agosto affermano che, in linea generale, la preclusione all’avvio delle procedure collettive di riduzione di personale richiamate dagli articoli 4,5 e 24 della legge n. 223/1991 e la sospensione di quelle avviate successivamente al 23 febbraio 2020, riguarda tutti i datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti integrativi salariali COVID-19 previsti dall’art. 1 (9 settimane a partire dal 13 luglio oltre ad altre 9 a determinate condizioni) o che stiano fruendo dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali previsto per 4 mesi in favore di quei datori di lavoro che rinunciano a “godere” degli ammortizzatori sociali (art. 3), con la sola eccezione del cambio di appalto sul quale mi soffermerò più avanti.

Il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo riguarda anche i datori di lavoro che, indipendentemente dalle dimensioni della loro azienda, non hanno fruito integralmente degli ammortizzatori sociali sopra indicati o stanno fruendo dell’esonero contributivo ex art. 3: parimenti, afferma l’Esecutivo, sono sospese le procedure in corso previste dall’art. 7 della legge n. 604/1966. Sulla base di queste disposizioni sono, poi, previste una serie di eccezioni sulle quali mi soffermerò, segnalando anche alcune criticità della disposizione.

Ma, andiamo con ordine.

Le procedure di riduzione collettiva di personale che richiamano gli articoli 4 (rientro dalla Cassa integrazione straordinaria e impossibilità di assicurare la ricollocazione a tutto il personale interessato), 5 (fase finale della procedura con individuazione dei criteri per procedere al licenziamento collettivo) e 24 (imprese con più di 15 dipendenti che intendono effettuare almeno 5 licenziamenti in un arco temporale di 120 giorni, in conseguenza di una riduzione o di trasformazione dell’attività o del lavoro, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive di una stessa provincia) non possono essere iniziate o, se in corso alla data del 23 febbraio, sono sospese. Ciò significa che, mentre quelle terminate prima esplicano tutti i loro effetti, anche dilazionati nel tempo (si pensi, ad esempio, ad un accordo collettivo raggiunto al termine dell’iter procedimentale ove i recessi concordati, magari con un incentivo all’esodo sono posticipati a date successive), quelle in corso, seppur iniziate, vengono “stoppate”.

Tutto questo, a mio avviso, ha un effetto (positivo per il datore di lavoro) su un problema correlato alla procedura: quello della sospensione degli avviamenti d’obbligo per tutto il tempo in cui la stessa dura (art. 3, comma 5, della legge n. 68/1999) e il periodo normale (al massimo 75 giorni tra la fase sindacale e quella amministrativa) è stato “sospeso” in forza di una norma e non per volontà delle parti. Tale sospensione ha effetto su tutto il territorio nazionale e qualora, alla ripresa, l’iter i concluda con almeno 5 licenziamenti, lo “stop” agli obblighi occupazionali si protrae fino a quando l’ultimo lavoratore licenziato può vantare un diritto di precedenza alla riassunzione (sei mesi da recesso, art. 15, comma 6, della legge n. 264/1949).

Ma, perché ho parlato di “licenziamenti a geometria variabile”?

Perché la data in cui viene meno la sospensione non è uguale per tutti essendo correlata alla fruizione delle ulteriori 18 settimane o, in alternativa, all’esenzione contributiva quadrimestrale per chi rinuncia agli ammortizzatori COVID-19 (a proposito, particolare non secondario: occorrerà chiarire se ciò avverrà in automatico o, come credo e come sempre è avvenuto, attraverso una procedura telematica di richiesta). Tale esonero, però, non è uguale per tutti nel senso che, come ricorda l’art. 3, esso è pari al doppio delle ore di integrazione salariale già fruite nei mesi di maggio e giugno.

Da ciò si potrebbe dedurre, ad esempio, che un’impresa che avesse fatto poche ore di integrazione salariale in questi due mesi (ad esempi, due settimane) potrebbe (ma il condizionale è d’obbligo trattandosi di criteri del tutto nuovi ed un po' inusuali), trascorso un mese dal 17 agosto, procedere a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge n. 604/1966 per una delle causali ivi previste (ragioni inerenti l’attività, o l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento dell’attività produttiva). Se le cose stanno in questi termini è chiaro che, qualora ne ricorrano i presupposti (azienda con più di 15 dipendenti e lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015), non ha senso parlare di sospensione del tentativo obbligatorio ex art. 7 della legge n. 604/1966 che, in questo caso, dovrebbe essere riattivato.

Al di là di questa ipotesi che, comunque, appare residuale, “l’aggancio” alla fruizione delle 18 settimane (di cui le seconde 9, a “prezzo maggiorato” se il fatturato non è calato o è calato in misura inferiore al 20% nel primo semestre del 2020, rispetto a quello dello stesso periodo dell’anno precedente), la sospensione dei licenziamento per giustificato motivo oggettivo ha un termine ultimo, correlato al godimento della integrazione salariale COVID-19, o ai 4 mesi di agevolazione contributiva, che è, per entrambi, il 31 dicembre: ovviamente, se le 18 settimane fossero, senza soluzione di continuità, fruite in maniera continuativa dal 13 luglio, la scadenza sarebbe fissata al 16 novembre.

L’unica eccezione che il Legislatore ammette è quella del cambio di appalto, laddove il personale interessato al recesso, sia riassunto dall’impresa subentrante in virtù di una norma di legge (ad esempio, l’art. 50 del c.d. “codice degli appalti pubblici”), di contratto collettivo (ad esempio, l’art. 4 del CCNL multiservizi) o di clausola inserita nel contratto di appalto. La disposizione, a mio avviso, appare scritta con qualche imprecisione anche perché nei piccoli appalti, non necessariamente, in caso di cambio, si apre una procedura collettiva di riduzione di personale e, inoltre, così come appare dal testo normativo, la legittimità dei recessi si fa dipendere da un comportamento (quello del nuovo appaltatore) che deve riassumere tutto il personale in virtù, ad esempio, di una norma di contratto collettivo. Se non lo fa, i licenziamenti sono illegittimi? Credo di no, anche perché lo stesso potrebbe applicare nello stesso settore (ad esempio, le pulizie) un contratto collettivo (quello del settore artigiano, sottoscritto, ugualmente, da organizzazioni di settore comparativamente più rappresentative sul piano nazionale) che lascia una sorta di “franchigia” sui primi 3 dipendenti, che però è diverso da quello c.d. multiservizi, utilizzato dalle imprese aderenti a Confindustria.

Ma, cosa succede se, ad esempio, un datore di lavoro non dovesse ricorrere né alla integrazione salariale COVID-19 per le 18 settimane (neanche parzialmente) o, in alternativa non dovesse richiedere l’esonero contributivo per un massimo di 4 mesi, e decidesse di ristrutturare una propria unità produttiva magari risolvendo il rapporto di lavoro con un numero di dipendenti inferiore a 4 (non 5, perché altrimenti scatterebbe la procedura collettiva di riduzione di personale che resta preclusa)? E’ un tema “minato e controverso ma, a mio avviso, non utilizzando, neanche parzialmente, alcuna delle due condizioni che fanno scattare il divieto di licenziamento, i recessi, attuati per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge n. 604/1966, sono fuori dall’ambito di applicazione della sospensione. Ovviamente, un ricorso successivo ad una integrazione salariale COVID-19 anche per un brevissimo periodo, farebbe scattare la illegittimità degli stessi.

Il blocco totale dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di cui parla il comma 2, riferendosi anche ai piccoli datori di lavoro (che, non necessariamente, debbono essere imprenditori) e che scatta in presenza delle condizioni indicate al comma 1, subisce alcune deroghe sulle quali è opportuno soffermarsi:

a) Cessazione definitiva dell’attività, con messa in liquidazione della società senza alcuna continuazione (o, come si dice in “gergo commerciale” con riconsegna della licenza): ciò significa che una cessazione parziale come, ad esempio, la chiusura di una unità produttiva di per sé non porta alla sospensione del blocco. Se dalla cessazione dell’attività si configura un passaggio di azienda o ramo di essa tale da rientrare all’interno della previsione dell’art. 2112 c.c., scatta la normativa di tutela per il personale prevista da tale norma;

b) Accordo collettivo aziendale: è questa una ipotesi nella quale è possibile procedere ad una riduzione di personale se raggiunto con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, con un incentivo alla risoluzione del rapporto per i dipendenti che aderiscono ai quali viene riconosciuto il diritto alla NASPI. In tale previsione possono rientrare, in mancanza di una procedura di riduzione di personale che non può essere “aperta” o se “aperta” non può essere conclusa, gli accordi di ricollocazione dei lavoratori eccedentari durante o al termine di un periodo di integrazione salariale straordinaria per riorganizzazione o crisi aziendale secondo la previsione contenuta nell’art. 24-bis del D.L.vo n. 148/2015 che prevede, tra le altre cose, un “bonus” esente da IRPEF fino ad un massimo di 9 mensilità per l’incentivo all’esodo. Anche i “licenziamenti non oppositivi” di cui parla per i contratti di solidarietà difensivi l’art. 4, comma 4, del D.M. n. 94033/2016 potrebbero trovare spazi all’interno di questa previsione pur urtando, a tale ipotesi, l’attivazione di una procedura di licenziamento collettivo che, però, appare vietata dalla norma. Qui, a mio avviso, in sede di conversione del provvedimento, si dovrebbe intervenire per attutire la rigidità della disposizione. Anche l’accordo sindacale per la c.d. “isopensione” (commi da 1 a 7-ter dell’art. 4 della legge n. 92/2012) ha, a mio avvio, il titolo per rientrare in tale previsione, pur se la disposizione (ma non mi sembra che, in questo caso, traspaia la obbligatorietà) parli anche di accordi sindacali all’interno delle procedure collettive di riduzione di personale ex lege n. 223/1991 o di accordi di riduzione di personale dirigente sottoscritti, in quest’ultimo caso, da un rappresentante di una associazione stipulante il contratto collettivo di categoria. A mio avviso, andrebbe chiarito, in sede di conversione che, laddove la norma parla di accordi con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, ci si intende riferire anche alle loro articolazioni territoriali o aziendali (in pratica, la previsione dell’art. 51 del D.L.vo n. 81/2015), in quanto solo in questo modo la disposizione acquisterebbe fluidità nella sua applicazione. L’accordo sindacale “quadro”, per essere, effettivamente, conclusivo dovrebbe, poi (anche se la norma non lo dice), essere definito per ogni singolo dipendente interessato con un accordo “in sede protetta” ex artt. 410 e 411 cpc: nel testo si potrà parlare anche di risoluzione consensuale, atteso che la nuova disposizione riconosce la NASPI come nel caso della procedura prevista dall’art. 7 della legge n. 604/1966: è appena il caso di sottolineare che, fatte salve indicazioni diverse da parte dell’Istituto, il datore di lavoro dovrà corrispondere il contributo di ingresso correlato all’anzianità aziendale;

c) Fallimento senza alcun esercizio provvisorio dell’attività, con cessazione totale della stessa: si tratta di una situazione equiparabile alla cessazione dell’attività di impresa a cui si è fatto cenno pocanzi. Ovviamente, nel caso in cui sia stato disposto l’esercizio provvisorio dell’attività da parte di un ramo dell’azienda, restano esclusi i settori non compresi nel fallimento. La norma parla di fallimento ma ritengo che le stesse regole possano applicarsi ad altre procedure concorsuali come, ad esempio, il concordato preventivo senza continuazione dell’attività.

Il comma 2 dell’art. 14 sospende anche tutte le procedure in corso concernenti il tentativo obbligatorio di conciliazione relativo ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo previsto dall’art. 7 della legge n. 604/1966 e che chiama in causa sia l’Ispettorato territoriale del Lavoro che la commissione provinciale di conciliazione istituita presso lo stesso organo ex art. 410 cpc. La procedura che prevede tempi cadenzati e ristretti per le ipotesi di recesso per g.m.o. nelle aziende che occupano più di 15 dipendenti, riguarda unicamente i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del D.L.vo n. 23/2015. La sospensione sta a significare che:

a) L’iter, se in corso, viene obbligatoriamente “stoppato” ed i termini precisi e puntuali stabiliti (penso, ad esempio, ai tempi prefissati per il tentativo di conciliazione): essi riprenderanno a decorrere dal momento in cui la norma verrà meno. Ovviamente, ciò chiamerà, in causa, anche l’Ispettorato territoriale del Lavoro, competente per territorio, che dovrà, sollecitamente, far proseguire l’iter, magari (per non compiere pratiche burocratiche inutili) accertandosi presso le parti (“rectius” il datore di lavoro che ha aperto la procedura) se sussiste ancora l’interesse a proseguire;

b) Se giunge all’Ufficio una richiesta ex art. 7 della legge n. 604/1966, l’Ispettorato dovrà dire, sollecitamente, che non è possibile attivare l’iter fino a quando non terminerà la sospensione che, come detto, è “a geometria variabile” e, comunque, dovrà verificare che siano venute meno le cause “impedienti”.

Ma, se al di fuori dei casi ammessi e di quelli ipotizzati pocanzi (azienda che non chiede i nuovi ammortizzatori COVID-19 o, in alternativa, l’agevolazione contributiva totale temporanea), il datore di lavoro procede a licenziare per giustificato motivo oggettivo, cosa succede?

Il recesso è nullo in quanto attivato in violazione di una norma di legge ma il lavoratore ha diritto, comunque, se dovuta, all’indennità di disoccupazione. Infatti, l’INPS con messaggio n. 2261 del 1° giugno 2020 ha affermato, su parere conforme dell’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro che, essendo il licenziamento un atto unilaterale ricettizio, il lavoratore ha diritto alla NASPI che verrà corrisposta nelle forme dovute, con l’avvertenza che in caso di ricorso giudiziale con reintegra, “ab initio” nel posto di lavoro (ciò può avvenire anche con un accordo extragiudiziale), l’Istituto si riserva d ripetere gli importi corrisposti.

Ma, è possibile effettuare una conciliazione su un licenziamento nullo?

Sotto l’aspetto normativo la risposta ce la fornisce l’art. 6, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015, laddove parlando della conciliazione facoltativa da espletare “in sede protetta”, stabilisce che la conciliazione ad accettazione del licenziamento è possibile “in caso di licenziamento dei lavoratori di cui all’art. 1 (quadri, impiegati ed operai) alfine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge”: ora, leggendo gli articoli 2 e 3 del predetto Decreto Legislativo ci si accorge che i licenziamenti richiamati dal Legislatore delegato sono sia quelli nulli (art. 2) che quelli ove viene prevista una indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo (art. 3).

Può, in questa fase, avere un ruolo l’Ispettorato territoriale del Lavoro, attraverso i propri organi di vigilanza?

E’ escluso che, a fronte di un licenziamento nullo possa disporre la reintegrazione nel posto (questo è un compito che spetta al giudice e ciò emerge, chiaramente, dalla lettura dell’art. 18 della legge n. 300/1970), né possa attivare una disposizione ex art. 14 del D.L.vo n. 124/2004: può, tuttavia, ricordare al lavoratore interessato quali diritti può esercitare ma può, soprattutto, segnalare all’INPS la irregolarità riscontrata, soprattutto se il datore di lavoro sta fruendo delle agevolazioni contributive previste dall’art. 3 del D.L. n. 104/2020, potendo mettersi in evidenza anche il mancato rispetto del comma 1175 dell’art. 1, della legge n. 296/2006 che subordina, tra le altre cose, il riconoscimento dei benefici contributivi al rispetto “degli altri obblighi di legge”.

L’art. 14 termina con un’altra disposizione che, nella sostanza, corregge, parzialmente, quella già in vigore con il decreto Rilancio (D.L. n. 34): tutti i datori di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti in forza, possono revocare i licenziamenti effettuati, nell’anno in corso, per giustificato motivo oggettivo a condizione di far richiesta di integrazione salariale COVID-19, a partire dalla data di efficacia dei recessi. La disposizione deroga al comma 10 dell’art. 18 della legge n. 300/1970 ma non comporta alcun onere o sanzione a carico dei datori di lavoro, atteso che i rapporti vengono ripristinati senza soluzione di continuità.

Che dire di tale norma? Essa ha una natura “tutioristica” nei confronti del lavoratore e tende a recuperare quei rapporti che, in caso di giudizio, verrebbero ricostituiti dal giudice in quanto nulli per violazione di legge.

I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo non esauriscono la vasta gamma dei recessi che, comunque, restano possibili in questo periodo, in quanto non “toccati” dalla sospensione. Essi sono:

a) i licenziamenti per giusta causa che, comunque, obbligano il datore alle procedure di garanzia previste dall’art. 7 della legge n. 300/1970: su questo punto la Corte Costituzionale con la sentenza n. 204 del 30 novembre 1982 è stata molto chiara;

b) i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, ivi compresi quelli di natura disciplinare, anch’essi soggetti all’iter procedimentale del citato art. 7;

c) i licenziamenti per raggiungimento del limite massimo di età per la fruizione della pensione di vecchiaia, atteso che per la prosecuzione fino ai 70 anni occorre un accordo tra le parti in quanto il diritto alla prosecuzione non è un diritto potestativo del lavoratore, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 17589 del 4 settembre 2015;

d) i licenziamenti determinati da superamento del periodo di comporto, atteso che la procedura è “assimilabile” al giustificato motivo oggettivo ma non è giustificato motivo oggettivo;

e) i licenziamenti durante o al termine del periodo di prova sottoscritto dalle parti prima della costituzione del rapporto, con l’indicazione sia della durata che delle mansioni da svolgere;

f) i licenziamenti dei dirigenti sulla base della c.d. “giustificatezza”, frutto della elaborazione della contrattazione collettiva: si tratta di un criterio di valutazione più forte rispetto al giustificato motivo oggettivo che si applica agli altri lavoratori subordinati;

g) i licenziamenti dei lavoratori domestici che sono “ad nutum”;

h) i licenziamenti dei lavoratori dello spettacolo a tempo indeterminato (cosa rara), laddove nel contratto di scrittura artistica sia prevista la c.d. “clausola di protesta”, cosa che consente la risoluzione del rapporto allorquando il lavoratore sia ritenuto non idoneo alla parte;

i) la risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo a seguito di recesso ex art. 2118 c.c.: qui, non appare ravvisabile il giustificato motivo oggettivo. Ovviamente, occorre tener presente quanto affermato dall’art. 2, comma 4, del D.L.vo n. 148/2015 in base al quale il periodo formativo dell’apprendistato professionalizzante è prorogato per un periodo uguale a quello in cui il giovane ha fruito della integrazione salariale. Tale disposizione era stata, in un certo senso, ripetuta dal comma 1-bis dell’art. 93 per i lavoratori in apprendistato di primo e di terzo livello (art. 43 e 45 del D.L.vo n. 81/2015), ma essa non c’è più in quanto abrogata dall’art. 8 del decreto Agosto (D.L. n. 104/2020).

Probabilmente, resta fuori da tale elencazione il licenziamento per inidoneità psico-fisica ove diverse scuole di pensiero lo fanno rientrare nel giustificato motivo oggettivo, mentre altre lo tengono fuori invocando le specifiche disposizioni contenute nell’art. 42 del D.L.vo n. 81/2008 o all’interno della legge n. 68/1999 (articoli 4 e 10). Anche l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha, di recente, espresso la propria opinione sposando la tesi della sospensione del licenziamento per tale motivazione.

Vale, infine, la pena di ricordare come l’art. 83, comma 3, del decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) stabilisca che l’inidoneità alla mansione accertata a causa del COVID-19, per i lavoratori maggiormente esposti al rischio del contagio, in ragione dell’età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità, non può giustificare il recesso del datore dal contratto di lavoro.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/08/27/divieto-licenziamento-termine-mobile-aziende-calcolarlo

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