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CCNL leader: il ruolo dell’inquadramento previdenziale e dei codici ATECO

Per evitare la deriva verso una contrattazione collettiva votata unicamente alla riduzione del costo del lavoro e all’abbassamento delle tutele, il legislatore ha posto la condizione che i contratti collettivi siano stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ad oggi però manca un sistema legale di misurazione della rappresentatività. L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare n. 1 del 2020, offre delle concrete soluzioni per imprese e professionisti, muovendo da un’analisi dei criteri di inquadramento previdenziale dei datori di lavoro nel cui ambito diventa determinante l’utilizzo del corretto codice ATECO da parte delle aziende.

I contratti collettivi sono espressione della libertà sindacale e prodotto delle relazioni tra rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro. La contrattazione collettiva è, dunque, libera, in ogni settore economico e assolve la funzione di regolare dall’esterno i rapporti di lavoro, quale “cornice” dei contratti individuali di lavoro. La produzione di contratti collettivi, non solo di livello nazionale, ma anche aziendale - compresa quella c.d. di prossimità - è cresciuta enormemente negli ultimi dieci anni. Il fenomeno deve essere letto come fisiologica ricerca di soluzioni negoziali più adatte a regolamentare tempo per tempo i rapporti di lavoro in un contesto in continua evoluzione, caratterizzato da:

- profonde crisi e veloci ripartenze;

- da un confronto competitivo giocato su un mercato di dimensione sovranazionale;

- dalla incomprimibilità del costo del lavoro nazionale.

Il ruolo giocato dalla contrattazione collettiva come fattore di competitività è molto rilevante, soprattutto in relazione alla delega assegnata dal legislatore alle parti sociali per la regolamentazione di molti istituti di flessibilità, come la modulazione dell’orario di lavoro (D.Lgs. n. 66/2003) o la disciplina del contratto a termine, del part time, ecc. (D.Lgs. n. 81/2015).

 

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Rischi di una contrattazione collettiva selvaggia: strumenti di contrasto

Il legislatore per scongiurare il rischio di una pericolosa deriva verso una contrattazione collettiva selvaggia, votata solo alla riduzione del costo del lavoro attraverso un abbassamento delle tutele, ha posto una condizione fondamentale di “qualità” del soggetto sindacale stipulante e due precisi vincoli. La condizione è che i contratti collettivi siano quelli stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali aziendali oppure dalla rappresentanza sindacale unitaria eletta dai lavoratori (art. 51, D.Lgs. n. 81/2015).

Il primo vincolo è rappresentato dalla limitazione all’accesso ai benefici normativi e contributivi - quali le assunzioni agevolate, la detassazione dei premi di risultato, le riduzioni IRAP - ai soli soggetti che applichino “quei contratti collettivi” nazionali e territoriali che siano stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Il secondo vincolo è costituito dall’obbligo di assolvimento della contribuzione sociale su retribuzioni non inferiori a quelle stabilite, appunto, dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale dello specifico settore economico (“categoria”) in cui opera l’azienda. E a questo vincolo è condizionato anche il rilascio dell’attestato di regolarità contributiva, il noto DURC, senza il quale in molti settori non è possibile nemmeno operare (ad esempio nell’edilizia, anche privata, e negli appalti pubblici).

La condizione di qualità e i vincoli sopra richiamati non sono stati tuttavia sufficienti ad arginare il fenomeno della proliferazione dei contratti collettivi, soprattutto di quelli di evidente “dumping”. Ciò anche a causa del fatto che nessun sistema di misurazione della rappresentatività - in mancanza di un metro legale - ha finora consentito di attestare quali siano le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative di un determinato settore economico. Né è facile stabilire il perimetro di un settore economico: ad esempio, l’automotive è un settore autonomo o fa parte dell’industria metalmeccanica?

Ultime indicazioni dell’INL

Nell’attesa che il legislatore intervenga in questa delicata materia, l’Ispettorato del Lavoro ha da tempo imboccato una via pragmatica per cercare di limitare il ricorso a contratti di dumping.

Dopo la circolare n. 3/2018, nella quale ricordava quale fosse la contrattazione collettiva abilitata a regolamentare determinati istituti dei rapporti di lavoro (D.Lgs. n. 81/2015), l’11 marzo scorso l’INL ha emanato una lunga e articolata circolare (circolare n. 1/2020), che affronta l’argomento muovendo da un’analisi dei criteri di inquadramento previdenziale dei datori di lavoro.

L’INL muove dalla considerazione che occorra in primo luogo verificare che l’azienda sia classificata ai fini previdenziali nel corretto comparto (industria, artigianato, commercio, servizi, ecc.). Nel tentativo di mettere ordine nella selva dei contratti collettivi, afferma poi la tesi della necessaria corrispondenza tra inquadramento previdenziale e CCNL applicato, attraverso la cartina di tornasole del codice ATECO, che classifica tutte (o quasi) le attività economiche, cui è associato dall’INPS un codice statistico contributivo (C.S.C.).

Si ricorda ancora che, “secondo quanto esplicitato nella circolare INPS n. 80/2014, il datore di lavoro, nel trasmettere la domanda di iscrizione, ha l’obbligo di comunicare il codice dell’attività̀ economica esercitata in relazione alla posizione aziendale aperta per i dipendenti, desunto dalla tabella ATECO 2007.

Il codice ATECO è strutturato in modo dettagliato in funzione della classificazione statistica di tutte le attività economiche. Alle stesse è attribuito un codice alfanumerico in cui le lettere indicano il macro-settore di attività economica, mentre i numeri, che vanno da due fino a sei cifre rappresentano, con diversi gradi di dettaglio, le articolazioni dei settori stessi.

Le attività economiche quindi sono raggruppate, dal generale al particolare, in sezioni (codifica: 1 lettera), divisioni (2 cifre), gruppi (3 cifre), classi (4 cifre), categorie (5 cifre) e sottocategorie (6 cifre).

Sulla base del codice ATECO, l’INPS associa a ciascuna attività̀ un codice statistico contributivo, denominato C.S.C. composto da cinque cifre, dove:

- la prima cifra identifica il settore di attività,

- la seconda e terza cifra identificano la classe di attività nella quale opera il datore di lavoro (es: tessile, edilizia, metalmeccanica, ecc.),

- la quarta e la quinta cifra identificano la categoria, ossia la famiglia delle attività di dettaglio esercitate nell’ambito della classe.

In base al C.S.C. sono assegnate all’impresa le aliquote contributive relative all’attività̀ svolta e alle assicurazioni cui è soggetta. Al C.S.C. viene sempre abbinato il codice ISTAT, che descrive nel particolare l’attività̀ aziendale.”

Chiarito il criterio di classificazione ai fini previdenziali del datore di lavoro, l’INL lega l’inquadramento operato dall’INPS all’individuazione del CCNL applicabile, affermando infatti che “l’inquadramento effettuato in base all’attività̀ svolta dall’impresa ha ricadute sulla individuazione del CCNL applicabile ai fini della determinazione della retribuzione da assoggettare a contribuzione (c.d. imponibile minimo) … che, secondo quanto previsto dalla norma interpretativa … , fa riferimento alla “categoria” di attività̀”.

L’INL sottolinea come la categoria di attività dell’impresa rilevi sia ai fini dell’inquadramento aziendale sia ai fini del calcolo della contribuzione obbligatoria sugli importi delle retribuzioni previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale della “categoria” di riferimento dell’impresa. La nozione di “categoria” va intesa quale “settore produttivo in cui opera l’impresa, risultando altrimenti incongruo l’obbligo di applicazione, sia pure ai soli fini contributivi, di una contrattazione collettiva vigente in un settore diverso, stante il rilievo pubblicistico della materia” (Cass. sent. n. 801/2012).

Secondo l’INL, il concetto di categoria-settore produttivo può essere direttamente ricondotto al C.S.C. attribuito all’azienda, con la conseguenza che in sede di verifica ispettiva potranno essere contestate situazioni in cui il datore di lavoro applichi un contratto collettivo non rispondente alla categoria/settore produttivo di appartenenza. Si riafferma dunque la nozione del contratto leader del settore economico di riferimento per l’attività svolta dal datore di lavoro, sia pure ai solo fini dell’individuazione della corretta retribuzione imponibile per l’assolvimento dei contributi (v. Ministero del Lavoro, nota n. 10599/2016).

Gli ostacoli in caso di pluralità di contratti

L’interpretazione amministrativa, tuttavia, inciampa nell’ostacolo, al momento non superabile, della impossibilità tecnico-giuridica di individuare il CCNL da prendere a riferimento ai fini previdenziali nell’ipotesi di sussistenza di una “pluralità̀ di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria” (art. 2, comma 25, L. n. 549/1995). Ciò tenuto anche conto della descritta impossibilità allo stato di “misurare” il grado di rappresentatività delle organizzazioni stipulanti per identificare con certezza il contratto leader. Tale problema pare ancor più insuperabile in presenza di più contratti collettivi stipulati tutti dai sindacati confederali, che si assume siano dotati della maggiore rappresentatività comparativa. L’INL cita ad esempio il caso del CCNL Multiservizi che in molte realtà è preferito a quello della Logistica. Esso afferma che “tale CCNL sia da prendere a riferimento solo qualora l’attività dell’impresa sia effettivamente riferibile ad una pluralità di “categorie” (ad esempio: pulizie e logistica, ovvero logistica e sanificazione). Diversamente, qualora in sede di verifica ispettiva si riscontri che l’applicazione di tale contratto sia finalizzata esclusivamente all’abbattimento del costo del lavoro rispetto a un CCNL comparativamente più̀ rappresentativo riferibile a una “categoria” specifica di servizi sistematicamente prestati dall’azienda (ad esempio, CCNL logistica), si ritiene che quest’ultimo CCNL sia quello di riferimento ai fini previdenziali.”

Il criterio proposto dall’INL non appare per nulla convincente. Se venisse applicato a una concessionaria di auto, con annessa officina di riparazione e manutenzione e separati uffici per la concessione di finanziamenti per l’acquisto di auto, quale sarebbe il contratto di riferimento da assumere ai fini previdenziali? Il CCNL Commercio per prevalenza dei volumi di fatturato derivante dalla vendita delle auto o del numero degli addetti, considerando ancillari le attività dell’autofficina e quelle dei finanziamenti? Oppure dovremmo considerare quali retribuzioni minime imponibili per ciascun gruppo di lavoratori quelle previste dal CCNL Commercio, Industria Metalmeccanica e Credito?

È evidente che la soluzione non può essere trovata in via amministrativa, ma occorre una regolamentazione di legge, ormai invocata da troppo tempo, per dare un quadro normativo certo ai datori di lavoro, agli ispettori e agli enti, in assenza del quale è prevedibile un acceso contenzioso.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/contrattazione-collettiva/quotidiano/2020/10/02/ccnl-leader-ruolo-inquadramento-previdenziale-codici-ateco

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