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Rifiuto del lavoratore di vaccinarsi: cosa deve fare il datore di lavoro

Avviata la campagna vaccinale contro il Covid-19. Tra qualche mese i datori di lavoro potranno chiedere ai dipendenti che si vaccinino per tutelare la salute nei luoghi di lavoro e per necessità dei clienti/committenti. Qualora il lavoratore dovesse rifiutarsi, l’azienda deve chiedere che lo stesso venga sottoposto a visita presso il medico competente, al fine di verificare la fondatezza medico-scientifica del diniego, come nel caso di lavoratori affetti da allergia ai farmaci o in stato di gravidanza allergici o in caso di lavoratori “fragili”. Cosa è tenuto a fare il datore di lavoro in tali ipotesi? Come invece gestire il rifiuto dettato da motivazioni personali?

Tra qualche mese il vaccino sarà accessibile a tutta la popolazione e i datori di lavoro, per esigenze interne o piuttosto per necessità dei propri clienti/committenti, si troveranno a richiedere, ai lavoratori, l’effettuazione del vaccino, che potrà essere addirittura considerato un plus per la scelta del proprio fornitore (pensate a ditte che forniscono servizi di pulizia o mensa all’interno di altre aziende).

In attesa di una sorta di passaporto vaccinale, il datore di lavoro dovrà adoperarsi per rendere Covid-free la propria azienda e con essa i propri lavoratori, ciò anche per una più facile ripresa della completa attività lavorativa e per evitare blocchi alla produzione dovuti ai contagi che si potranno ancora verificare al proprio interno.

Ad oggi, l’azienda non potrebbe imporre il vaccino adducendo quanto previsto dall’articolo 32 della Costituzione, in quanto manca l’obbligatorietà, per legge, alla sua somministrazione. Infatti, il secondo comma dell’articolo 32, dispone che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

Contra leggi Sul vaccino per i lavoratori contro il Covid-19 si applichi la legge!

Partendo da questo presupposto è il caso di valutare la gradualità degli interventi che il datore di lavoro può introdurre, qualora vi sia un diniego al vaccino da parte del prestatore di lavoro.

Prima di entrare nel merito dei passaggi necessari, ritengo di escludere dalla trattazione le strutture sanitarie e le RSA (Residenza sanitaria assistenziale), per le quali, a mio avviso, vige un principio di obbligatorietà all'effettuazione del vaccino da parte di quei lavoratori che operano a stretto contatto con i pazienti, in base a quanto previsto dall’articolo 2087 del codice civile e dall’articolo 279 del Testo Unico sulla Salute e Sicurezza (Decreto Legislativo 81/2008). In particolare, l’articolo 2087 c.c. dispone, a carico dell’imprenditore, “l’obbligo di tutelare l’integrità psicofisica dei dipendenti mediante l’adozione ed il mantenimento in efficienza dei presidi antinfortunistici atti a preservare i lavoratori dai rischi connessi alla loro attività.”. Inoltre, l’articolo 279 del TU sulla Salute e Sicurezza prescrive, in capo al datore di lavoro, “la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione” ovvero “l’allontanamento temporaneo del lavoratore”.

Per quanto riguarda le altre attività lavorative, ritengo, comunque, che la richiesta della previa esecuzione del vaccino all’effettuazione della prestazione lavorativa, potrà essere considerata legittima soltanto dopo aver verificato i seguenti fattori:

a) tipologia dell'attività svolta, ad esempio, per coloro che svolgono attività che prevedono un contatto con i cibi.

b) persone frequentate dal lavoratore durante la prestazione lavorativa (colleghi e/o clienti), attraverso una interazione che non permette il rispetto del c.d. distanziamento sociale.

c) ambiente di lavoro che, anche in questo caso, potrebbe essere inidoneo al distanziamento minimo, previsto, insieme agli altri dispositivi di protezione individuale, per ridurre il rischio di contagio.

Qualora il lavoratore risponda negativamente alla richiesta del proprio datore di lavoro, quest'ultimo dovrebbe inviarlo a visita presso il medico competente, al fine di verificare il motivo del diniego. Motivo che potrebbe essere legittimo, in quanto non dipendente dalla volontà del lavoratore stesso (esempio cd. no vax), ma potrebbe essere dovuto ad una patologia incompatibile con la somministrazione del vaccino, quale, ad esempio, la presenza di una allergia ai farmaci o uno stato di gravidanza.

Soprattutto nel secondo caso, allorquando il rifiuto alla vaccinazione sia supportato da una motivazione medico-scientifica e l’ostacolo all’assolvimento della prestazione lavorativa non sia imputabile al prestatore di lavoro, il datore di lavoro si dovrà attivare per trovare strade alternative che non siano di intralcio alla limitazione dei contagi e lo potrà fare ricorrendo a questa gradualità di interventi:

1. verificare la possibilità che la prestazione lavorativa possa avvenire da remoto (smart working);

2. spostare il lavoratore ad altre attività, compatibili con i fattori sopra evidenziati (rispetto del distanziamento con altri soggetti) e con la professionalità posseduta,

3. spostare il lavoratore ad altre mansioni, anche inferiori, rispetto a quelle possedute; sempre verificando la professionalità in capo al lavoratore,

4. trasferire il lavoratore ad un’altra unità produttiva o cantiere ove siano rispettati i fattori sopra evidenziati,

5. sospendere il lavoratore dall'attività lavorativa.

Su quest’ultimo punto, sarebbe auspicabile che il legislatore intervenga e assimili i lavoratori impossibilitati a fare il vaccino, in virtù di una problematica di natura fisica (es. allergici), ai lavoratori “fragili” (cd. immunodepressi) previsti dal comma 2, dell’articolo 26, del Decreto-legge n. 18/2020, per i quali il periodo di assenza dal servizio è equiparato al ricovero ospedaliero.

Viceversa, qualora il diniego al vaccino, da parte del lavoratore, sia dovuto ad una valutazione personale e non scientifica (c.d. “no vax”), la sospensione dall'attività lavorativa e dalla retribuzione potrebbe essere la soluzione primaria, in quanto il datore di lavoro non è obbligato a conciliare le pretese personali del lavoratore, che non siano supportate da evidenze medico-scientifiche, dall’esigenza aziendale di ridurre i contagi.

Lo stesso articolo 20, del Testo Unico sulla Salute e Sicurezza (Decreto Legislativo 81/2008), stabilisce che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro.”.

Ma fin quanto il lavoratore potrà essere sospeso dall’attività lavorativa in presenza? A mio avviso, fino alla immunità di gruppo (cd. immunità di gregge) e cioè quel fenomeno per cui, una volta raggiunto un livello di copertura vaccinale, considerato sufficiente all’interno della popolazione, si potranno considerare al sicuro anche le persone non vaccinate.

In una intervista, dello scorso 17 gennaio, Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, ha dichiarato che “riusciremo ad avere questa immunità di comunità quando riusciremo a vaccinare il 70% dei residenti” (fonte AGI).

Il dato va comunque in controtendenza con una dichiarazione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), la quale ha affermato che “mai nella storia della salute pubblica l'immunità di gregge è stata utilizzata come strategia per rispondere a un'epidemia, per non parlare di una pandemia. È scientificamente ed eticamente problematico.”

Le considerazioni contenute nel presente contributo sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2021/01/27/rifiuto-lavoratore-vaccinarsi-datore-lavoro

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