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Lavoro a tempo determinato: cosa serve realmente a professionisti e imprese

La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato è stato oggetto di numerose evoluzioni e profondi cambiamenti nel corso degli ultimi venti anni, oscillanti tra normative più o meno restrittive. Al di là delle mutevoli intenzioni del legislatore, emerge il persistente bisogno delle aziende di essere dotati di strumenti flessibili per gestire i rapporti di lavoro, sia in periodi di difficoltà come quello attuale sia nel futuro. Il tema sarà al centro dei dibattiti della XII edizione del Festival del Lavoro, promossa dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro e organizzata dalla Fondazione Studi, che si svolgerà dal 28 al 29 aprile 2021.

Nell’ultimo ventennio la normativa sul lavoro a tempo determinato è stata oggetto di grande interesse da parte dei legislatori che si sono succeduti. Facendo un piccolo excursus, sul fronte europeo, la direttiva 99/70/CE aveva imposto ai Paesi membri l’adeguamento delle normative interne al fine del raggiungimento dei seguenti obiettivi: · stabilire dei requisiti minimi in materia di lavoro a tempo determinato, al fine di garantire la parità di trattamento dei lavoratori e impedire abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro similari; · prevedere delle sanzioni per le violazioni dei requisiti fissati; · prevedere clausole speciali per limitare gli oneri amministrativi in cui potrebbero incorrere le piccole e medie imprese causa dell'applicazione di questi nuovi standard. Il tema sarà al centro dei dibattiti della dodicesima edizione del Festival del Lavoro, promossa dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti del lavoro e organizzata dalla Fondazione Studi, che si svolgerà dal 28 al 29 aprile 2021. Introduzione delle causali Il D.Lgs. n. 368/2001, in recepimento della Direttiva comunitaria, ed al fine di rispettare quanto prescritto, ha però fatto un qualcosa di più: ha aggiunto delle causali; causali in parte già note con la legge n. 230/1962, stabilendo che “è consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro”, quest’ultimo passaggio introdotto con modifica dal DL 112/2008. Tale vincolo ha portato un forte disagio, non solo per le aziende ma anche per i lavoratori, ed ha dato vita a innumerevoli contenziosi, per la difficile applicazione. Una fra tante, la Cass. n. 7417/2020 che ha infatti dichiarato che “il D.lgs. 368/2001 impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonché l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa”. Elasticità della legge Fornero Fino ad arrivare alla legge Fornero, la legge n. 92/2012, che fa un passo indietro in termini di rigidità, dando quell’elasticità che il D.Lgs. n. 368 non ero riuscito a gestire, nonostante rientrasse all’interno di un periodo storico di grande riforma del diritto e del mercato del lavoro, partita con la legge Treu, la legge n. 196/1997, per arrivare al D.Lgs. n. 276/2003 convertito in legge n. 30/2003, la cd. legge Biagi. La legge Fornero ha inserito il tempo determinato “acausale” per i primi 12 mesi, ed è stata l’apripista per poi l’apertura totale da parte della legge n. 78/2014 che ha liberalizzato al massimo il contratto a tempo determinato, eliminando le causali per la durata complessiva di 36 mesi. Con la legge n. 78/2014 la riforma è stata anche concettuale: si è passati dal contratto a tempo determinato caratterizzato dall’elemento qualitativo e giustificatorio (le causali), all’elemento quantitativo, con l’inserimento delle percentuali di massimo utilizzo e la sommatoria con i contatti di somministrazione a tempo determinato. Il messaggio per le aziende era pertanto: “cara azienda, sei libera nello stipulare un contratto a tempo determinato, con un soggetto ben preciso, per un massimo di 36 ma, non puoi “abusarne”, hai un limite numerico che corrisponde al 20%...”. Le novità del decreto Dignità Il D.Lgs. n. 81/2015 ha proseguito l’indirizzo della legge n. 78/2014, confermando la libertà massima dell’utilizzo del tempo determinato, fino all’arrivo del “famigerato” decreto Dignità, il DL 87/2018, convertito nella legge n. 96/2018. Tale decreto ha completamente ricambiato le carte in tavola, mantenendo una forma di elasticità per i primi 12 mesi, ma anche questa in realtà molto vincolata, considerando che si parla di un primo contratto, eventualmente prorogabile entro la durata complessiva dei 12 mesi, libertà che però si perde nel momento in cui si parla di rinnovo del contratto, anche se dopo uno precedente di breve durata. Perché abbiamo perso la vera elasticità? Perché sono state reinserite le causali, ancora di più difficile applicazione delle precedenti, e ridotto la durata massima da 36 a 24 mesi. Oggi, il testo normativo recita che: “il contratto può avere una durata superiore (..a 12 mesi), ma comunque non eccedente i 24 mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria.” Tutto questo ha fatto riportare indietro la normativa di 50 anni, restringendo brutalmente le possibilità per le aziende. Le causali così come impostate, a parte naturalmente il motivo sostitutivo, sono di difficilissima, per non dire impossibile, applicazione. Considerazioni conclusive È vero che il rapporto comune deve essere il tempo indeterminato, ma è anche vero che alle aziende bisogna dare degli strumenti per avere un’elasticità, sia in periodi di difficoltà, come quello che stiamo vivendo da un anno a questa parte, sia per il futuro. Futuro sicuramente oggi incerto ma che necessita di flessibilità. Per consentire alle aziende di ripartire non si può pensare di ingessarle con assunzioni a tempo indeterminato, perché è questa l’unica strada qualora si volesse assumere ad esempio un lavoratore, oggi disoccupato, che era già stato in forza presso l’azienda, e che quindi conosce già le dinamiche interne. Sarebbe il perfetto incontro tra domanda e offerta: da un lato l’azienda, che ha necessità di forza lavoro, ma che però non ha, e/o non può dare, garanzie sul futuro; dall’altro lato un soggetto, disoccupato, che ha necessità di lavorare. Il tempo determinato non deve essere necessariamente percepito come lo strumento per le aziende per aggirare il sistema e non voler stabilizzare i lavoratori. L’azienda che assume a tempo determinato un soggetto, magari anche per 36 mesi (riferendoci alla precedente normativa), lo inserisce nell’organizzazione aziendale, spende energie per formarlo, farlo crescere, per quale motivo non dovrebbe confermarlo in servizio? Salvo naturalmente motivazioni oggettive quali, ad esempio, la variazione delle necessità aziendali che non consentono il sostenimento dei costi o altre situazioni concrete, da valutare chiaramente caso per caso.; è tutto interesse del datore di lavoro “trattenere” in azienda una risorsa valida. Nulla vieta creare anche una sorta di sistema incentivante, stabilendo degli esoneri contributivi o incentivi di tipo economico, che decrescono all’aumentare della durata del tempo determinato, precedente alla stabilizzazione. Ma abbiamo visto che gli incentivi finora attuati hanno sì stimolato le assunzioni, in una prima fase, ma non ne ha beneficiato la stabilizzazione. La parola chiave per il futuro pertanto non può essere altro che flessibilità, che deve poter essere garantita con una nuova riforma della normativa del contratto a tempo determinato oggi completamente lontana dalla realtà del mondo odierno.

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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2021/04/27/lavoro-tempo-determinato-serve-professionisti-imprese

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