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Costo del lavoro: perché è anche un problema di efficienza della Pubblica Amministrazione

Quando si parla di “costo del lavoro” il pensiero va alla retribuzione, ai contributi previdenziali, ai costi per la sicurezza che il datore di lavoro sostiene. Non si considerano invece i costi indiretti che le aziende affrontano a causa dell’inefficienza della Pubblica Amministrazione. Si tratta della oscura formulazione delle norme, della loro incerta interpretabilità e della mancata emanazione di decreti attuativi, punto su cui peraltro il Governo ha avviato un nuovo metodo operativo, illustrato nel corso del Consiglio dei Ministri del 10 giugno scorso. Del tema si parlerà nel corso del 9° Forum One LAVORO, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrina Per il Lavoro, in live streaming il 22 giugno 2021.

Quando si parla di costo del lavoro pensiamo immediatamente agli aspetti riguardanti la retribuzione, i contributi, i costi per la sicurezza. Purtroppo, a questi vanno aggiunti i costi indiretti che le aziende si trovano ad affrontare per l’inefficienza della pubblica amministrazione. Tre sono gli aspetti critici che dovrebbero essere affrontati per ridurre al minimo questa spesa indesiderata e che non porta benefici né alle aziende e né, tantomeno, ai lavoratori, anche per il solo fatto che dilatando questi costi l'azienda è meno propensa ad assumere.

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1. Formulazione delle norme Il primo riguarda la formulazione delle norme che, negli ultimi anni, ha subìto una digressione di non poco conto. Sto parlando del modo con il quale vengono scritte le leggi. Nel 2009, il legislatore, con la legge n. 69/2009, introdusse, all’interno della legge n. 400 del 1988, l’articolo 13-bis, dal titolo: “Chiarezza dei testi normativi”. Secondo questa disposizione, è compito del Governo provvedere a che: · ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; · ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo ovvero la materia alla quale le disposizioni fanno riferimento o il principio, contenuto nelle norme cui si rinvia, che esse intendono richiamare. La disposizione, così formulata, costituisce la base per i princìpi generali per la produzione normativa e non può essere derogata, modificata o abrogata se non in modo esplicito. Ad oggi ci troviamo a leggere normative che, calate nel contesto lavorativo, sono di difficile applicazione. In definitiva, manca un previo confronto con tutte le parti sociali per verificarne l'efficacia allo stato pratico. 2. Alta interpretabilità delle norme La seconda criticità, collegata alla prima, attiene all’alta interpretabilità delle norme che porta a non avere ben chiare, da parte di chi deve attuare quelle disposizioni, le modalità applicative. Ciò è dovuto alla mancanza di interventi interpretativi da parte dei soggetti preposti a ciò. Per quanto riguarda la materia lavoro, il legislatore ha disposto, con l’articolo 9 del decreto legislativo n. 124/2004, il “Diritto di interpello” che obbliga il Ministero del lavoro a rispondere a quesiti «di ordine generale sull'applicazione delle normative di competenza del Ministero del lavoro», provenienti da organismi associativi, organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro e i consigli nazionali degli ordini professionali. Se nei primi anni di vigenza della disposizione, la cosa ha funzionato, dando vita ad una media di 40 interpelli l’anno, da quando l’Ispettorato del lavoro è “uscito” dal Ministero del lavoro, vi è stata una riduzione impressionante di interpelli, fino ad arrivare ad un solo interpello risposto nel 2020. Ricordo che anche l’Agenzia delle Entrate ha una simile disposizione dal 2012. E proprio in considerazione di questa similitudine, vi rappresento gli interpelli che i due enti hanno pubblicato negli ultimi tre anni:
ANNOMinistero del LavoroAgenzia delle Entrate
20187166
20196504
20201643
Leggendo questa tabella, vien da pensare che la normativa sul lavoro è molto più chiara di quella in materia fiscale e che non necessita di chiarimenti ed interpretazioni. E invece, a mio avviso, di qualche chiarimento qua e là, su come applicare la legislazione in materia di lavoro ci vorrebbe. 3. Mancata emanazione di decreti attuativi La terza criticità è la dimenticanza, da parte del Ministero del lavoro, nell’emanare i decreti applicativi previsti da alcune disposizioni di legge. Ciò va a rendere inapplicabile le disposizioni stesse. Logicamente non sto parlando di una costante, ma di alcuni casi eclatanti. Lo stesso Governo Draghi si è reso conto di questo problema, che non riguarda solo il Dicastero del lavoro, ed ha evidenziato, nel seduta del 10 giugno scorso, “l’importanza di una più celere adozione dei provvedimenti attuativi ai quali le norme di legge rinviano”. In particolare, nel Consiglio dei Ministri del 10 giugno è stato illustrato un nuovo metodo operativo consistente nell’assegnazione, ad ogni Amministrazione, di obiettivi da perseguire, con target specifici di decreti da adottare, a partire già dai mesi di giugno e luglio 2021. I criteri operativi individueranno, per ciascun Ministero, il recupero dei decreti arretrati, al fine di darne esecuzione nel più breve tempo possibile. Per quanto riguarda il Ministero del Lavoro, due esempi su tutti, il decreto richiesto dalla normativa sul lavoro intermittente per identificare le attività cd. discontinue o di semplice attesa o custodia e il decreto, richiesto dal TU sui contratti di lavoro (decreto legislativo 81/2015) per individuare le attività stagionali che sono escluse da alcuni istituti del contratto a tempo determinato. Nel primo caso, ci troviamo di fronte ad una reiterazione di inadempimento. Infatti, già il Decreto Legislativo n. 276/2003 (cd. Riforma Biagi), istitutore del contratto intermittente, aveva prescritto, con l’articolo 40, che fosse il Ministro del lavoro ad individuare, con un proprio decreto, i casi in cui fosse ammissibile il ricorso al lavoro intermittente. Dopo un anno dalla vigenza della Riforma Biagi, il Ministero aveva pubblicato un Decreto (D.M. 23 ottobre 2004) evidenziando che «è ammessa la stipulazione di contratti di lavoro intermittente con riferimento alle tipologie di attività indicate nella tabella allegata al Regio decreto n. 2657/1923.». Con il Jobs Act, il contratto intermittente è stato riscritto (artt. 13 e ss., del decreto legislativo n. 81/2015), disponendo nuovamente che fosse il Ministero del lavoro ad individuale i casi di utilizzo del lavoro intermittente. Nel 2016, in risposta ad un quesito di Federalberghi che evidenziava ancora la mancanza del decreto attuativo, lo stesso Ministero rispondeva (interpello n. 10/2016) seraficamente che «Il Decreto in questione, emanato in forza della previgente normativa, è il D.M. 23 ottobre 2004...». In pratica, ad oggi, le attività discontinue solo esclusivamente quelle previste 98 anni fa con il Regio Decreto del 1923, ed il Ministero del lavoro, in 18 anni, non è riuscito a trovare il tempo per attualizzarle, rendendo quasi inapplicabile il contratto intermittente qualora non sia già disciplinato dal contratto collettivo in essere presso l’azienda. Nel secondo caso, il legislatore, sempre all’interno del decreto legislativo 81 del 2015, aveva richiesto al Ministero del lavoro di adottare un decreto (articolo 21, comma 2) che individuasse le attività stagionali, che avrebbero dovuto essere escluse da alcune regole e limiti imposti per i contratti a tempo determinato. La disposizione si conclude con la seguente frase: «…Fino all'adozione del decreto di cui al secondo periodo continuano a trovare applicazione le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525.». Sono passati 6 anni dal decreto legislativo 81/2015 e ancora oggi, per valutare le attività stagionali dobbiamo prendere in considerazione il DPR del 1963, con attività stagionali di 58 anni fa, non attinenti alla realtà odierna. Ciò va sicuramente a gravare sul costo del lavoro, in quanto l'azienda ha due alternative: assumere i lavoratori con un contratto ordinario a tempo determinato, il che porta ad applicare le consuete regole ivi previste senza alcuna esclusione; ovvero, deve accordarsi con i sindacati per stipulare un accordo aziendale che disciplini le attività stagionali, il che, se da un lato rappresenta la soluzione migliore in quanto il datore di lavoro individua in maniera puntuale le attività stagionali presenti nel proprio sito produttivo, dall'altro non permette l'esclusione di quei contratti dalla contribuzione maggiorata dell’1,40% e della contribuzione aggiuntiva, ad ogni rinnovo, dello 0,50%, previsti dalla Legge 92/2012. Considerazioni finali Se si riuscisse a limitare queste tre criticità: • Norme non coerenti al contesto • Altamente interpretabili • Decreti attuativi non realizzati il costo del lavoro ne beneficerebbe e con esso l’occupazione.
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Le considerazioni contenute nel presente contributo sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenzaCopyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2021/06/15/costo-lavoro-problema-efficienza-pubblica-amministrazione

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