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Cesare Damiano: restituire al lavoro il peso sociale che gli spetta

Le riforme che hanno rivisto profondamente il diritto del lavoro negli ultimi anni non si sono rilevate sufficienti per affrontare la crisi che stiamo vivendo. “E’ mancato un disegno riformatore coerente. Si è pensato di mettere mano al mercato del lavoro ritoccandone il solo Diritto, in assenza di politiche industriali, di una considerazione complessiva dell’evoluzione del mondo della produzione, delle politiche necessarie per l’occupazione. Ma ora ci sono le grandi riforme avviate dall’Unione europea. E aggiungo, siamo in un’economia sociale di mercato. Tutte queste riforme avranno fallito se non si restituirà al valore sociale del sistema economico il peso che gli spetta. Su questo voglio dirmi cauto, ma fiducioso”. Cesare Damiano anticipa, nell’intervista a IPSOA Quotidiano, i temi che verranno trattati nel corso della Tavola Rotonda del 9° Forum One LAVORO, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrina Per il Lavoro.

Si parla di ripartenza. È un termine molto usato dai membri del Governo, che sono pronti a scommettere sulla validità delle proposte per un recupero del gap perso in questi 15 mesi di emergenza, prima sanitaria e poi economica. Lei ritiene che le proposte formulate dal Governo contengano tutte le risposte che gli operatori del mercato del lavoro si attendono, oppure manca ancora qualcosa?In generale, il Governo sta facendo un buon lavoro. C’è un giusto approccio di dialogo sociale nella sua azione. Ovviamente, si può fare sempre qualcosa in più. Specie su un terreno complesso come quello del mercato del lavoro. C’è, ad esempio, una questione salariale che è necessario rendere evidente ed è, direi, da affrontare con urgenza. Anche perché è un cuneo che si infila proprio nell’ingranaggio del mercato del lavoro, laddove questo incrocia le necessità occupazionali legate alla ripartenza. Si discute in modo polemico del Reddito di cittadinanza che “convincerebbe” i lavoratori a “restare a casa” anziché accettare un impiego, per esempio, nel settore turistico e nella ristorazione. Le cose stanno per davvero così? Cominciamo a fare alcune distinzioni. In primo luogo, distinguiamo la Cassa integrazione dal Reddito di cittadinanza. La Cig riguarda lavoratori occupati in attesa di rientrare in attività. Infatti, la principale caratteristica della Cassa integrazione è quella di mantenere il rapporto di lavoro. Il Reddito di cittadinanza, invece, va a persone disoccupate. Ebbene, molti imprenditori del settore del turismo, attualmente in forte ripresa, lamentano casi di rifiuto delle offerte di lavoro da parte di queste persone. E quindi, perché mai ci si chiede, questi disoccupati dovrebbero accettare un lavoro da 800-1.000 euro al mese quando ne percepiscono 780 senza fare nulla? Il problema è che retribuzioni di quel genere nei contratti di lavoro non esistono. Queste riguardano attività saltuarie o pagate in nero. La proposta che faccio, “ciò che manca”, è partire dalle paghe reali stabilite nei contratti di lavoro. Prendiamo ad esempio quello del settore del turismo. Considerando paga base e contingenza, i minimi sono: guardarobiere clienti, addetto stiratura e lavanderia, guardiano notturno, euro 1.366,84 lordi mensili (6° livello); guardia giurata, barista, cameriere e cassiere da bar, euro 1.444,22 lordi mensili (5° livello); pizzaiolo, gelatiere, cameriere, barman e gastronomo, 1.542,69 euro lordi mensili (4° livello). L’orario settimanale è di 40 ore distribuito su 5 giornate e mezzo. Perciò, propongo: se un imprenditore assume full-time un lavoratore con reddito di cittadinanza e garantisce lo stipendio contrattuale, gli sia riconosciuta oltre ai benefici già previsti dalla legge, anche la facoltà di utilizzare una quota di reddito di cittadinanza (30-40%) come ulteriore sconto per l’assunzione trasparente e a tempo pieno. Insomma, ritengo essenziale che il Governo, con la collaborazione delle parti sociali, promuova, anche con misure di utilità per le imprese, la piena legalità nei rapporti di lavoro. Nessuno ci deve rimettere. Ma senza legalità non c’è vantaggio per alcuno.

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In questi ultimi vent'anni si sono susseguite numerose riforme che hanno rivisto profondamente il diritto del lavoro. Ritiene che queste riforme siano sufficienti per affrontare la crisi che stiamo vivendo?In una parola, “no”. In realtà, ciò che è mancato è un disegno riformatore coerente. Nel complesso, si è pensato proprio di mettere mano al mercato del lavoro ritoccandone il solo Diritto. Ciò, in assenza - quasi interamente a parte gli interventi di Industria 4.0 - di politiche industriali, di una considerazione complessiva dell’evoluzione del mondo della produzione, delle politiche necessarie per l’occupazione. E senza considerazione per la Costituzione. Prova ne siano le ormai numerose sentenze della Corte costituzionale - e perfino della Corte Europea di Giustizia - relative alla regolazione dei licenziamenti illegittimi, sia nella legge Fornero che nel complesso di provvedimenti noto come Jobs Act, il pilastro del quale, il contratto a tutele crescenti è stato, di fatto, cancellato dalla Consulta. Ma, davanti a noi - e a rendere ancor più complessa e urgente la situazione - ci sono anche le conseguenze della pandemia, intervenuta, non dimentichiamolo su un tessuto produttivo già in crisi dal 2019. Dunque, c’è l’evidente necessità di riforma degli ammortizzatori sociali così come del sistema di collocamento. E ci sono le grandi riforme avviate dall’Unione Europea. C’è l’obiettivo della neutralità climatica, la digitalizzazione dell’economia, una gigantesca ristrutturazione del sistema industriale e dei servizi, della Pubblica Amministrazione, della Giustizia, dell’Istruzione e della Formazione. Anni di implementazione di imponenti riforme strutturali. Dunque, oggi esiste un approccio vasto a un insieme di questioni che dimostra anche che interventi parziali, come il semplice ritocco del Diritto del lavoro, sono sbagliati in sé. Tutte le politiche che coinvolgono l’universo produttivo devono tenersi logicamente e organicamente tra loro. E aggiungo, in conclusione: siamo in un’economia sociale di mercato. Lo siamo, vorrei dire, dal punto di vista costituzionale come Paese e anche come Unione Europea. I decenni del dominio del neoliberismo, del trionfo delle ricette della scuola di Chicago, hanno lasciato al palo l’aspetto sociale. Tutte queste riforme avranno fallito se non si restituirà al valore sociale del sistema economico il peso che gli spetta. Su questo voglio dirmi cauto, ma fiducioso. Perché la pandemia ci ha restituito il senso, la necessità di costruire una società coesa. Un altro termine molto usato dal Governo è: “semplificazione”. Ma quando si è cercato di semplificare le regole e le procedure ci si è, quasi sempre, scontrati con la burocrazia della pubblica amministrazione. Da questo punto di vista quale può essere l’antidoto?Intanto, io userei la parola burocrazia con cautela. Perché sono le scelte politiche che fanno l’efficienza dello Stato e la qualità delle procedure. Ad esempio, il blocco del turnover: quanti danni ha fatto il mancato avvicendamento generazionale negli uffici delle Amministrazioni Pubbliche? Quanti danni ha fatto il tenere “in frigorifero” gli idonei dei concorsi pubblici e la contemporanea e continua riduzione del personale e delle risorse? Fortunatamente, l’implementazione delle riforme del piano Next Generation Europe ci porterà, c’è da sperare, nella giusta direzione sia dal punto di vista del ringiovanimento che della formazione del personale e della digitalizzazione, anche nel senso dell’integrazione, delle procedure: finalmente (ce lo auguriamo) vedremo le Amministrazioni “parlare” tra loro per via digitale, con grande vantaggio per i cittadini così come per le imprese. Ma ci sono anche altre scelte politiche da tenere ben in conto quando si parla di “semplificazione”. Pensiamo alla questione strettamente attuale del Codice degli Appalti. Fortunatamente è stata cancellata la norma che reintroduceva il “massimo ribasso”. Questa è stata una giusta scelta politica. Coerente con la lotta contro la concorrenza sleale tra imprese, contro il lavoro nero e contro l’aumento degli infortuni sul lavoro. Così come è stato positivo il miglioramento della normativa dei subappalti dopo un positivo confronto con le parti sociali. Rimane però il problema sollevato dai sindacati con lo sciopero dei lavoratori del settore elettrico, del gas e dell’acqua che sarà attuato il prossimo 30 giugno. Si tratta dell’articolo 177 proprio del Codice degli Appalti che obbliga le aziende concessionarie a esternalizzare l’80% di tutte le attività oggetto di concessione. La cosa più grave è che questo avverrebbe anche nel caso in cui le attività siano svolte direttamente dal personale di quelle stesse aziende, destrutturando in questo modo un servizio fondamentale per il Paese e mettendo a rischio decine di migliaia di posti di lavoro regolari, trasparenti ed efficacemente contrattualizzati. Ecco: questa non è semplificazione ma, semmai, l’opposto. Un vero disordine contrattuale che, auspico, alla fine scomparirà dall’orizzonte. La transizione dalla crisi alla ripartenza deve avere, quindi, anche una forte connotazione qualitativa e sociale, non soltanto quantitativa.
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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2021/06/22/cesare-damiano-restituire-lavoro-peso-sociale-spetta

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