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Il PNRR e la pandemia aprono la strada per “dematerializzare” l’impresa

La pandemia ha mostrato alle imprese il “lato buono” del lavoro da remoto, in particolare dello smart working. In realtà lo smart working è solo una delle componenti indispensabili per accompagnare le trasformazioni del lavoro disegnate dal PNRR. Perché senza connessione adeguata e competenze digitali non vi può essere vero smart working. Senza gli investimenti nelle infrastrutture digitali e per la modernizzazione della PA non si possono costruire le basi per la sburocratizzazione e la semplificazione dei processi di “dematerializzazione” alla base della rivoluzione digitale, già in atto nelle aziende. Mettiamoci in cammino!

C’era una volta il telelavoro: una modalità di esecuzione della prestazione lavorativa poco amata dall’impresa privata, soprattutto per gli oneri in termini di allestimento di una “sicura” postazione di lavoro, ma nei fatti spesso utilizzata per esternalizzare alcune attività anche in una prospettiva di ottimizzazione degli spazi. Parallelamente, forse grazie alla particolare disciplina che risale al 1999, il settore pubblico – alcuni enti pubblici quali INPS e INAIL e molti enti locali – ne ha fatto negli ultimi venti anni uno strumento di gestione di attività e di processi che potevano essere tranquillamente gestiti da remoto. Anche in questo caso secondo logiche di contenimento di alcuni costi fissi. Poi è arrivato il lavoro agile, una modalità di lavoro per la quale la flessibilità spazio-temporale costituisce – insieme ad autonomia, responsabilità e lavoro per obiettivi - presupposto di efficienza, efficacia e produttività. Perché la fabbrica fordista non esiste più (De Masi, 2020). Perché le scienze organizzative cominciano a parlare di “lavoro da ovunque” (HBR novembre 2020) e di “modello ibrido” (HBR maggio 2021). Perché il lavoro intellettuale – che ha ormai la prevalenza – si nutre della possibilità di gestire in autonomia i tempi di lavoro e di non lavoro, proprio per acquisire maggiore efficacia e produttività. E qui veniamo al nodo della questione. Cosa ci ha insegnato la pandemia? Innanzitutto, che il lavoro da remoto vissuto durante l’emergenza sanitaria è stato una specie di “telelavoro forzato” – come ritengono in molti ormai, che nulla ha a che vedere con la modernizzazione dei processi che accompagna, invece, il lavoro agile (il vero smart working). Ma anche che abbiamo tutti vissuto un momento irripetibile (se non fosse stato anche globalmente tragico) caratterizzato dalla presa di coscienza delle potenzialità strutturali e organizzative del lavoro da remoto quando sia accompagnato da infrastrutture adeguate, dagli strumenti tecnologici-digitali e di collaborazione a distanza adeguati, da una formazione dedicata e da un management accorto e illuminato. In sostanza, quello che abbiamo imparato dalla pandemia è che il lavoro da remoto è possibile, che non viene meno la produttività (anzi le statistiche dicono che quando il lavoro da remoto è ben regolato anche in termini di corretta gestione degli orari di lavoro, di effettivo esercizio del diritto di disconnessione e in termini di chiarezza di comunicazione interna e di obbiettivi è un potente strumento di efficacia e di efficienza produttiva) e che non è necessario il controllo visivo sui collaboratori per essere sicuri che lavorino. Lezione culturale che fino ad oggi era stata di non facile attuazione in Italia – soprattutto tra le PMI – e che oggi diviene non solo possibile ma necessaria, anche per colmare quel divario, proprio in termini di produttività – che pone ancora l’Italia alle ultime posizioni rispetto agli altri Paesi europei. Se si guarda, infatti alla premessa del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) è proprio questo lo scoglio più importante sul quale si dovranno concentrare i maggiori interventi: “dietro la difficoltà dell’economia italiana di tenere il passo con gli altri paesi avanzati europei e di correggere i suoi squilibri sociali ed ambientali, c’è l’andamento della produttività, molto più lento in Italia che nel resto d’Europa. Dal 1999 al 2019, il Pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento. La produttività totale dei fattori, un indicatore che misura il grado di efficienza complessivo di un’economia, è diminuita del 6,2 per cento tra il 2001 e il 2019, a fronte di un generale aumento a livello europeo. Tra le cause del deludente andamento della produttività c’è l’incapacità di cogliere le molte opportunità legate alla rivoluzione digitale. Questo ritardo è dovuto sia alla mancanza di infrastrutture adeguate, sia alla struttura del tessuto produttivo, caratterizzato da una prevalenza di piccole e medie imprese, che sono state spesso lente nell’adottare nuove tecnologie e muoversi verso produzioni a più alto valore aggiunto.” Sulla base di tali premesse, il primo obiettivo indicato nel Piano è proprio incentrato sulla necessità di colmare il gap accumulato dall’Italia sia in termini di processi di digitalizzazione sia in termini di infrastrutture dedicate. Si tratta di uno dei passaggi più importanti - sul quale, tra l’altro si concentra anche la destinazione della maggior parte delle risorse – nella consapevolezza dell’importanza di questo fattore per il futuro della nostra economia e del nostro paese. Con investimenti che dovranno pertanto accompagnare la transizione digitale, la modernizzazione della Pubblica Amministrazione, il potenziamento delle infrastrutture di comunicazione e il rilancio del sistema produttivo attraverso il miglioramento della competitività delle filiere industriali agevolando l’internazionalizzazione delle imprese. E’ sempre il PNRR che ci offre indicazioni in merito agli obiettivi principali che ci attendono: “Nonostante i recenti miglioramenti, l'Italia è ancora in ritardo in termini di adozione digitale e innovazione tecnologica, come evidenziato dall’ultimo aggiornamento dell’indice DESI, che vede in nostro Paese al 24° posto fra i 27 Stati membri dell’UE. Il Governo intende recuperare il terreno perduto e rendere l'Italia uno dei primi Paesi a raggiungere gli obiettivi recentemente illustrati dalla Commissione Europea nella Comunicazione "2030 Digital Compass” per creare una società completamente digitale”. Pertanto, i temi del digitale e dell'innovazione permeano il PNRR lungo una serie di priorità tra cui si collocano, ad esempio: - la necessità di offrire una connettività omogenea ad alta velocità in tutto il paese; - la trasformazione digitale della Pubblica Amministrazione (PA) accelerando la piena interoperabilità tra enti pubblici e le loro basi informative; - il rafforzamento della "cittadinanza digitale" attraverso iniziative dedicate volte a migliorare le competenze digitali di base perché la trasformazione digitale ha un ruolo determinante anche per dare nuovo impulso alla competitività del sistema produttivo. Verrebbe allora da chiedersi: cosa c’entra questo con lo smart working? In realtà, sono tutti presupposti indispensabili per accompagnare le trasformazioni del lavoro che la pandemia ha accelerato e che diverranno il vero e proprio motore per lo sviluppo di quelle nuove modalità di organizzazione del lavoro di cui lo smart working è solo una delle componenti indispensabili. Senza connessione adeguata, senza le competenze digitali indispensabili per gestire la collaborazione e la comunicazione da remoto non vi può essere vero smart working. Senza gli investimenti nelle infrastrutture digitali e nella modernizzazione della Pubblica Amministrazione non si possono costruire le basi per accompagnare in logica di sburocratizzazione e di semplificazione le importanti trasformazioni che molte aziende stanno già affrontando, anche in una logica di “dematerializzazione”. Il che non vuol dire necessariamente riduzione dei costi ma, soprattutto, efficientamento dei processi secondo una logica di migliore produttività. E se la maggior parte delle aziende in questo anno e mezzo, anche le più scettiche, ha sperimentato i lati positivi del lavoro da remoto, soprattutto in termini di produttività, ha anche dovuto fronteggiare non poche difficoltà strutturali e organizzative per poter gestire le difficoltà di connessione da parte dei propri collaboratori, il sovraccarico della rete (specie durante la DAD dei familiari), l’impossibilità di accedere a servizi e sportelli virtuali che avrebbero potuto accelerare molti processi. Il lavoro agile vissuto durante l’emergenza sanitaria ci ha offerto l’occasione di valutare quali sono i suoi vantaggi e quali le grandiose opportunità per la gestione di molte attività, non solo di servizio ma anche produttive. Ma ci ha anche dato modo di verificare concretamente che la risoluzione di alcune difficoltà di fondo è divenuta requisito indispensabile per poter proseguire lungo una strada che è appena cominciata: si pensi agli obiettivi di rilancio culturale e turistico dei piccoli centri, all’opportunità di poter svolgere la propria attività lavorativa fuori dalle grandi aree urbane, a quante difficoltà di connessione hanno avuto proprio i piccoli centri durante i mesi di pandemia, a quanto siano mancati servizi dedicati e decentrati da parte della Pubblica Amministrazione per poter ragionare concretamente in termini di effettiva “dematerializzazione” di molte attività (anche solo per garantirne la sopravvivenza). Gli obiettivi del PNRR fanno parte di una più ampia Strategia Nazionale per le Competenze Digitali volta a promuovere un diffuso miglioramento delle competenze della forza lavoro esistente e futura su temi digitali e tecnologici. Essenziali già oggi per poter gestire il lavoro da remoto e per trattenere i nostri giovani, ma fondamentali per il futuro per rendere attrattivo il nostro Paese per gli investitori e perché no, anche per chi vorrà poter lavorare per le multinazionali restando comodamente in Italia. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2021/08/21/pnrr-pandemia-aprono-strada-dematerializzare-impresa

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