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Patto di non concorrenza: vantaggi e rischi per il datore di lavoro

Con il patto di non concorrenza il datore di lavoro offre al lavoratore un compenso finalizzato ad evitare che lo stesso svolga, in proprio o alle dipendenze di altri, un’attività in concorrenza al termine del rapporto di lavoro. Il patto di non concorrenza, che può essere sottoscritto anche alla cessazione del contratto, non può pregiudicare l’attività futura del lavoratore, né limitare lo sviluppo della sua professionalità. Una ordinanza della Corte di Cassazione (n. 23723 del 2021) ha ritenuto nulla una clausola inserita nel patto di non concorrenza che consentiva solo al datore di lavoro di rinunciare all’accordo in costanza di rapporto.

Una recentissima ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. n. 23723 del 1° settembre 2021) con la quale è stata ritenuta affetta da nullità una clausola inserita nel patto di non concorrenza finalizzata a consentire al datore di lavoro di rinunciare al patto stesso in costanza di rapporto di lavoro, atteso che, a differenza dell’indirizzo propugnato dai due precedenti gradi di merito, è stata ritenuta irrilevante la volontà, comunque, espressa per iscritto, anni prima della cessazione del rapporto, rappresenta l’occasione per una analisi complessiva dell’istituto del patto di non concorrenza tra l’imprenditore e un proprio dipendente. Finalità dell’accordo Innanzitutto, per quale ragione è opportuno, in determinati casi, stipulare un patto di non concorrenza con un proprio dipendente ma anche con un lavoratore autonomo (si pensi, ad esempio, all’agente)? La risposta è semplice: la complessa e variegata realtà industriale e commerciale ove la concorrenza di altre imprese si fa sempre più forte e tale da “strappare” al datore di lavoro i dipendenti addetti a particolari lavorazioni e progetti o che sono a conoscenza di una serie di situazioni aziendali alquanto delicate, spinge (e in ciò è chiaro il dettato dell’art. 2125, c.c.) l’imprenditore a offrire al proprio lavoratore un determinato compenso finalizzato a non svolgere in proprio o alle dipendenze di altri un’attività in concorrenza, dopo la cessazione del rapporto. Tale accordo, equiparabile a un contratto, può essere sottoscritto prima della instaurazione del rapporto, durante il suo svolgimento o alla cessazione dello stesso. Limitazioni, contenuto e stipula del patto La prima questione che si pone, a mio avviso, è la seguente: in linea teorica, la disciplina del patto (che postula, lo ripeto a scanso di equivoci, il consenso del lavoratore interessato) può riguardare tutti i dipendenti a prescindere dalle mansioni svolte (intellettuali, di progettazione o anche manuali). Ciò che va valutato ed evidenziato è che l’interessato operi in un reparto o un settore dal quale possa derivare un pregiudizio per il datore. La legittimità del patto che, evidentemente, interessa il datore di lavoro, è condizionata da alcune limitazioni, in quanto tale atto non può pregiudicare completamente l’attività futura del soggetto interessato, né limitare lo sviluppo della professionalità. La seconda questione riguarda la stipula del patto, che, a pena di nullità: a) deve essere redatto per iscritto; b) deve stabilire un vincolo contenuto rispetto all’oggetto, all’ambito territoriale ed alla durata; c) deve prevedere un corrispettivo economico in favore del lavoratore. L’elencazione sopra riportata mi consente di affrontare i tre punti che, a mio avviso, sono fondamentali. Forma dell’accordo Sulla forma c’è poco da dire: essa deve essere resa per iscritto, pena la nullità dell’atto. Perimetro del vincolo Il contenuto di quanto enunciato sub b) va ben esplicitato e qui ci soccorrono anche gli orientamenti giurisprudenziali. Cominciamo dall’oggetto: esso può riguardare, indubbiamente, le mansioni svolte dal lavoratore ma anche altre attività dell’impresa con un limite sottolineato più volte dalla Cassazione (Cass., sent. n. 15253 del 3 dicembre 2001 e Cass., sent. n. 7835 del 4 aprile 2006) che non può essere talmente vasto da impedire all’ex dipendente, al termine del suo contratto, di compromettere le proprie potenzialità economiche e la propria professionalità. Alcuni anni or sono, esprimendosi su un caso concreto, la Corte (Cass., sent. n. 24662 del 19 novembre 2014), sostenendo che l’oggetto del patto va delimitato in relazione all’attività svolta dal datore, ha stabilito che non possono rientrare nel divieto attività estranee allo specifico settore in cui opera l’impresa, in quanto non idonee ad integrare concorrenza. Quindi, per riassumere: contemperamento degli interessi datoriali con quelli del lavoratore che, in futuro, deve essere messo in grado di operare anche arricchendo la propria professionalità. C’è, poi, la questione del luogo che, oggi, con la possibilità di attività “da remoto” sempre maggiori, va valutata, indubbiamente, in maniera diversa rispetto al passato: la valutazione non può che essere strettamente correlata all’oggetto e alla professionalità dell’interessato. Se l’ambito territoriale dell’impresa è molto ampio, proprio per salvaguardare le possibilità future del lavoratore, occorre introdurre una limitazione riferita soltanto ad alcune zone, proprio per salvaguardare le concrete possibilità di lavoro del dipendente, dopo la cessazione del rapporto: è forte il rischio, infatti, che la individuazione geografica di una zona molto ampia possa portare, in caso di contenzioso, a sancire la nullità del patto. La terza questione riguarda la durata che, ovviamente, non può andare oltre certi limiti: al massimo, sono tre anni (cinque per i dirigenti), decorrenti dalla cessazione del rapporto di lavoro (art. 2125, comma 2, c.c.). L’apposizione di un termine finale superiore si ha come non apposto e ricondotto al limite massimo previsto dalla norma. Corrispettivo economico Passo, ora, ad esaminare le questioni legate al corrispettivo. La norma non detta indicazioni particolari ma la giurisprudenza ha avuto modo di sottolineare come lo stesso debba essere congruo, in relazione sia alle condizioni imposte al lavoratore che, in ragione dei limiti derivanti dal patto. Su questo punto mi sento di consigliare l’inserimento di una clausola di rivalutazione del patto allorquando il compenso diventi, dopo un lungo lasso di tempo dalla sottoscrizione, incongruo: tutto questo per evitare, possibili rivendicazioni dell’interessato relative alla eccessiva onerosità sopravvenuta. In ogni caso, la congruità va vista, in concreto, in relazione alla durata del patto, all’ambito territoriale sul quale opera, alla retribuzione ed al livello professionale del dipendente. Nulla afferma, inoltre, l’art. 2125, c.c., circa le modalità di erogazione del corrispettivo che, quindi, può ben avvenire durante lo svolgimento dell’attività o anche dopo la cessazione del rapporto. Se questo viene erogato mensilmente o, comunque, durante la prestazione lavorativa risulta imponibile sotto l’aspetto contributivo, atteso che va valutato in aggiunta alla normale retribuzione, cosa che non accade se viene corrisposto dopo la cessazione del contratto, in quanto, nel caso di specie, riguarderebbe una obbligazione successiva alla fine del rapporto e non una obbligazione da lavoro. Ovviamente, la corresponsione continua durante lo svolgimento del rapporto fa sì che le somme concorrano anche alla determinazione del trattamento di fine rapporto. Scioglimento del patto Il patto di non concorrenza può essere sciolto soltanto con il consenso di entrambe le parti: sono quindi da ritenere nulle clausole che affidino la possibilità di risoluzione al solo datore di lavoro. In tale quadro interpretativo si inserisce l’ordinanza della Cassazione n. 23723 del 1° settembre 2021 con la quale si afferma il principio secondo cui la rinuncia al patto dopo cinque anni dalla sua sottoscrizione da parte dell’imprenditore, pur nella continuità del rapporto (complessivamente, nel caso di specie, durò 11 anni), non trova alcuna giustificazione, atteso che le reciproche obbligazioni sono state “codificate e cristallizzate” al momento della stipula e non possono cessare in un momento successivo, atteso che gli effetti sono già operativi e non possono essere condizionati da una risoluzione unilaterale riconducibile, insindacabilmente, alla volontà del datore di lavoro. Violazione del patto di non concorrenza Ma cosa succede se il patto di non concorrenza viene violato? In questo caso occorre distinguere: a) se è il datore di lavoro a violarlo, l’altra parte può agire in giudizio per ottenere il corrispettivo e per risolvere il patto; b) se è il lavoratore a violare il patto, il datore può chiedere la ripetizione di quanto già erogato e, ricorrendone le condizioni, avanzare richiesta di risarcimento del danno (che va dimostrato). Qualora, il datore ritenga che sussista un pericolo immediato può, in forza di quanto scritto nel patto, chiedere al Tribunale un provvedimento di urgenza ex art. 700, c.p.c., finalizzato a bloccare l’attività. Copyright © - Riproduzione riservata

Corte di Cassazione, ordinanza 01/09/2021, n. 23723

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/rapporto-di-lavoro/quotidiano/2021/09/17/patto-non-concorrenza-vantaggi-rischi-datore-lavoro

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