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Blocco dei licenziamenti e ammortizzatori sociali. Va bene, ma serve una exit-strategy

Durante l’emergenza Covid-19 il divieto di licenziare per motivi economici i propri dipendenti si è fondato sulla natura straordinaria della situazione, accompagnandosi ad un robusto intervento di sostegno all’occupazione, tramite una serie di ammortizzatori sociali. La questione si è riproposta con il decreto Fisco-Lavoro che ha incrementato il limite di spesa per il finanziamento degli ammortizzatori sociali, di modo che anche provvedimenti di cassa integrazione possono essere prolungati fino alla capienza dei fondi stanziati. L’emergenza non può giustificare proroghe all’infinito. E allora ci si deve chiedere in che modo si potrà individuare una exit-strategy per la situazione in atto?

Nell’ambito della legislazione dell’emergenza COVID il divieto di licenziare per motivi economici i propri dipendenti, in forma individuale o collettiva, si è fondato sulla natura straordinaria della situazione, idonea, pur in assenza di una disposizione espressa nella Costituzione, a legittimare sospensioni temporanee e circoscritte della libertà di iniziativa economica delle imprese. Per di più a tale divieto si accompagnava un robusto intervento di sostegno all’occupazione, tramite una serie di ammortizzatori sociali, che di fatto venivano a rendere del tutto tollerabile il blocco così disposto, venendone a trasferire sulle casse statali l’integrale peso economico. Atteso, tuttavia, che il diffondersi della vaccinazione ha determinato il venir meno delle condizioni di straordinaria necessità che avevano indotto il Governo a disporre in via d’urgenza il blocco dei licenziamenti, quando nell’estate scorsa con il decreto Sostegni bis si è trattato di dover prendere posizione in ordine alla questione, il blocco è stato limitato solo ai lavoratori di terziario e artigianato, nonché alle piccole imprese e ai tre comparti industriali più esposti (cioè tessile, abbigliamento e pelletteria, da individuarsi in maniera rigorosa attraverso l’utilizzo dei codici ATECO). Anche in questo caso, peraltro, il blocco dei licenziamenti non costituiva l’esito di un divieto in senso stretto, ma era ancora una volta collegato alla richiesta che queste imprese avessero fatto di accedere alle misure di sostegno al reddito dei propri dipendenti (così l’art. 50 bis, intitolato alle “Misure in materia di tutela del lavoro” inserito nel corpo del D.L. 25 maggio 2021, n. 73 dall'art. 1 della legge di conversione 23 luglio 2021, n. 106). La questione si è ora riproposta, dopo che a norma dell'art. 11, comma 9, del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, non ancora convertito in legge (c.d. decreto “fiscale”), il limite di spesa per il finanziamento degli ammortizzatori sociali è stato incrementato di ulteriori 80 milioni di euro per l'anno 2021, di modo che anche i provvedimenti di cassa integrazione possono essere prolungati di conseguenza, fino a capienza dei fondi stanziati. (ed anzi a mente di un emendamento di recente approvato, gli stanziamenti dovrebbero crescere sino a 100 milioni, al fine di finanziare le domande di accesso ai trattamenti di integrazione salariale collegati all'emergenza epidemiologica, che non hanno trovato capienza). In questo modo, sulla scorta di una legislazione che oramai si è frammentata in una pluralità di ipotesi, fino al 31 dicembre 2021, le imprese potranno ancora utilizzare la cassa Covid (senza contributi addizionali) per un massimo di 13 settimane per le piccole imprese del terziario, commercio e artigianato, e per un massimo di 9 settimane nei comparti tessile, abbigliamento e pelletteria. Condizione imprescindibile per avere accesso a tali fondi è, però, costituita dalla mancata irrogazione anche solo di un licenziamento individuale per ragioni “economiche”, ferma restando, invece, la possibilità di licenziare per mancanze disciplinari (a fronte di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo), ovvero di ricorrere al recesso unilaterale nelle ipotesi nelle quali  si registri o la cessazione dell'attività, o il fallimento, ovvero in caso di accordi collettivi con i sindacati al fine di gestire esodi incentivati e comunque attuati su base volontaria. Il legislatore ci ha abituato ad interventi di “cassa” di durata straordinaria. Malgrado questa tentazione permanente alla proroga dei sussidi al reddito, appare, però, ovvio come l’emergenza non possa valere a giustificare proroghe all’infinito (anche se un ulteriore prolungamento sembra ora annunziato dalla legge di Bilancio 2022, in discussione ora al Senato). Verrà un giorno, insomma, in cui, al pari di quanto è avvenuto lo scorso 30 giugno per i circa 4 milioni di lavoratori dipendenti dei comparti edilizia e industria, anche per i settori che oggi sono oggetto di speciale attenzione, verrà a cessare la possibilità di un accesso ai finanziamenti per ammortizzatori sociali, i quali sono rimasti sino ad ora disponibili solo grazie all’intervento europeo che è, però, strettamente correlato al permanere di una situazione di emergenza sanitaria e che mira a finanziare interventi a carattere strutturale. Malgrado la legge di Bilancio 2022 si proponga di porre in essere una riforma di amplissimo respiro, capace di investire, almeno sulla carta, sia la riorganizzazione degli ammortizzatori sociali, sia la riforma dei servizi per la promozione dell’occupazione, sia il reddito di cittadinanza, viene comunque da chiedersi in che modo si potrà individuare una exit-strategy per la situazione in atto, atteso che la scomparsa di molte delle restrizioni alla libertà di circolazione individuale sembra ogni giorno giustificare sempre di meno il mantenimento dello stato di emergenza sanitaria, dichiarato alla fine del gennaio 2020 e che verrà a scadere fra meno di due mesi. A riguardo, innanzitutto, ci si deve augurare che funzioni, in particolare, la nuova misura, al momento prevista dalla legge di Bilancio 2022, di un “accordo di transizione occupazionale”, chiamato, in caso di “cassa” per riorganizzazione o per crisi aziendale, a definire, d’intesa con il sindacato, “le azioni finalizzate alla rioccupazione o all’autoimpiego, quali la formazione e riqualificazione professionale anche ricorrendo ai fondi professionali”. In questi casi, anche ricorrendo ai fondi di cui al Programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori (GOL), recentemente oggetto di intesa fra Stato e Regioni, sarà possibile per i lavoratori beneficiari della “cassa” essere ammessi ad un periodo aggiuntivo di integrazione salariale, fino ad un massimo di 12 mesi (che la legge dichiara “non prorogabili”). In secondo luogo, c’è da sperare che l’accettazione di questo percorso sia effettivamente collegata alla prospettiva di una ricerca attiva di altra occupazione, essendo l’accesso all’accordo condizionato proprio alla circostanza che il lavoratore accetti la sua condizione di lavoratore “in transizione” (e cioè, in “esubero”, per ricorrere ad un altro sinonimo oramai caduto in disuso dopo che se ne è finalmente compreso il significato, che vale ad equiparare ai lavoratori licenziati quanti si trovino in quella sfortunata condizione). Infine, c’è da rilevare come la questione delle proroghe resta in molti casi strettamente collegata alla gestione dei lavoratori senza green pass, posto che, nell’incertezza che sembrerebbe regnare a riguardo, non è stato infrequente che le aziende abbiano fatto ricorso agli ammortizzatori sociali al fine di risolvere le spinose questioni che altrimenti potrebbero sollevarsi nel caso in cui il lavoratore fosse messo nell’alternativa di perdere il lavoro o di vaccinarsi, ovvero di venire al lavoro con il rischio di contagiare colleghi e superiori, ovvero di indurli all’isolamento preventivo nel caso di diffusione della malattia. Si tratta di questione tutt’altro che semplice, ed in relazione alla quale si dovrà con attenzione studiare quanto recentemente previsto dal super green-pass, senza dimenticare tuttavia che, come ha sentenziato la Corte costituzionale, seppure in una sentenza oramai risalente (n. 23 del 1975), non può davvero configurarsi un conflitto fra la libertà personale inviolabile dell’art. 13 e il diritto al lavoro, ove la sola ragione che si opponga sia un rifiuto individuale a sottoporsi (in quel caso a controlli medici) “con conseguenze esclusivamente inerenti al rapporto di lavoro”. In quel caso, a venire in rilievo era il (sicuramente meno invasivo) controllo medico sull’effettiva sussistenza di uno stato di malattia, idoneo a giustificare l’assenza dal lavoro, ma la Corte ebbe a sentenziare al riguardo che la libertà individuale restava comunque salva, poiché in tal modo non si prevedeva “alcun mezzo coattivo per sottoporre il lavoratore a tale controllo e tanto meno la facoltà del datore di lavoro di costringerlo contro la sua volontà”. E a risultato non diverso può giungersi ove si tenga conto che l’art. 32 della Costituzione espressamente qualifica la salute sì, come “diritto del singolo”, ma anche come “interesse della collettività”. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2021/12/04/blocco-licenziamenti-ammortizzatori-sociali-bene-serve-exit-strategy

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