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Great resignation, work life balance, competenze professionali. Verso il nuovo mercato del lavoro

La great resignation rappresenta la punta dell’iceberg dell’evoluzione del nostro mercato del lavoro, che porta ad interrogarsi concretamente sul futuro del lavoro subordinato standard. Perché con la pandemia, si è compresa la necessità di prevedere modelli contrattuali e forme di organizzazione del lavoro dotati di flessibilità, con un miglior assetto del work life balance. Fattori che stanno guidando molte scelte individuali, soprattutto della Generazione Z e dei Millennials, verso l’abbandono del posto fisso, alla ricerca di attività ad altro contenuto tecnico, creativo, specialistico, professionale e in capo a individui legati da contratti di lavoro autonomo o semi-autonomo. Siamo molto vicini al nuovo mercato del lavoro…

Durante questi ultimi mesi è stata diffusa, anche su alcuni quotidiani nazionali, la notizia di un fenomeno iniziato negli Stati Uniti, che sta facendo il suo ingresso anche in Italia, i cui contorni non sono ancora definiti. Si tratta della “Great Resignation”, ossia le “Grandi dimissioni”, termine che è stato subito abbinato alla “Great Recession” del periodo 2008-2011 al fine di identificare un evento particolarmente significativo dal punto di vista economico. Ma cosa sta avvenendo in realtà? Gli studi statistici hanno cominciato a registrare un incremento dell’abbandono del posto fisso - soprattutto nelle multinazionali - che negli Stati Uniti ha toccato ad agosto 2021 i 4 milioni di dimissioni, con un incremento del 19% rispetto allo stesso mese del 2019 (fonte: lavoce.info). Il fenomeno pare essere stato accelerato dalla pandemia e porta ad interrogarsi sulle ragioni di un tale esodo di massa che, in condizioni normali e in un altro momento storico, sarebbe, invece, il segnale di un mercato del lavoro vivo e di una grande offerta di lavoro. Mentre, quello che fa riflettere è proprio il fatto che è dopo il primo anno di pandemia che ha iniziato a registrarsi e da qualche mese è arrivato anche da noi (dati Veneto Lavoro - Agenzia del Lavoro della Regione Veneto pubblicati il 7 novembre 2021), seppure in una dimensione ancora difficile da quantificare. Quindi, in un momento in cui la prudenza e i timori per il futuro dovrebbero frenare maggiormente questo tipo di decisioni. E invece, in controtendenza con quanto si potrebbe immaginare, pare proprio che la pandemia - complice forse anche il timore di perdere la vita o comunque l’accresciuta sensibilità verso la qualità stessa della vita, compresa nella sua dimensione unica ed insostituibile - abbia scatenato il desiderio di una vita diversa, non strettamente dipendente dal lavoro, soprattutto tra i giovani che cercano in generale una migliore qualità della vita e più tempo libero. Infatti, è proprio tra i più giovani - la Generazione Z e i Millennials - che si è registrato il dato più alto di dimissioni, quasi a voler sottolineare che il “lavoro per la vita”, ovvero lo scambio vita/lavoro non è più un parametro per l’affermazione e la crescita individuali, mentre quello che conta oggi, dopo due anni di pandemia, è la possibilità concreta e irrinunciabile di scegliere tipi di lavoro e forme di impiego che assicurino in modo effettivo di “lavorare per vivere” e non di “vivere per lavorare”, con un miglior assetto del work life balance. Dato che è troppo presto per tirare le somme e per dare una interpretazione univoca, questa almeno potrebbe essere la prima più immediata e lineare spiegazione, considerato, peraltro che - sempre stando a quanto è stato riportato - a fronte dell’aumento delle dimissioni vi è stata una impennata nella ricerca di posizioni ad alto contenuto tecnico, ingegneristico e, soprattutto, creativo. Lavori che richiedono alte competenze, ma che offrono proprio ai giovani estrema flessibilità organizzativa, anche in remoto, e compensi relativamente alti. Ma questo avviene oltre oceano. Da noi il fenomeno è ancora embrionale e le ragioni potrebbero essere le più disparate: dalla necessità di seguire da vicino le necessità familiari (che ha determinato nel corso del 2020 un’impennata delle dimissioni da parte della popolazione femminile - dati Fondazione Studi Consulenti del Lavoro di marzo 2021), alla crisi di alcuni settori che in presenza del blocco dei licenziamenti potrebbero avere incentivato - per così dire - le dimissioni, ma anche al desiderio di anticipare il ritiro dal lavoro (anche se il fenomeno almeno a prima vista non pare agganciato ad un aumento delle domande di pensionamento), facendo affidamento sui risparmi in un momento di grande incertezza come quello che stiamo vivendo, fino al desiderio di svincolarsi dalle maglie del lavoro subordinato e dell’orario di lavoro per percorrere nuove strade e iniziare attività di natura artigianale, di tipo imprenditoriale o di tipo professionale. Viene allora da chiedersi se non vi siano ragioni più ampie e se tale fenomeno non sia piuttosto la punta dell’iceberg di una evoluzione del nostro mercato del lavoro che porta ad interrogarsi concretamente sul futuro del lavoro subordinato standard, ossia a tempo indeterminato e a tempo pieno. L’interrogativo è allo studio da alcuni anni. Già da tempo, infatti, tra le prospettive di evoluzione dell’organizzazione del lavoro, si pone con sempre maggiore chiarezza la necessità di una valutazione attenta e critica della tradizionale contrapposizione giuridica tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, interessato da tempo da una preoccupante deriva verso l’applicazione a tutte le forme di lavoro autonomo etero-organizzato, delle regole proprie del rapporto di lavoro subordinato. Si tratta degli effetti più evidenti di quell’approdo interpretativo della Corte di cassazione intervenuto poco prima del Covid-19 (decisione 24 gennaio 2020, n. 1663) ed espresso con riguardo specifico alla posizione dei riders, il quale ha portato la maggior parte degli interpreti ad interrogarsi sul futuro e sulla sopravvivenza delle collaborazioni coordinate e continuative, per effetto dell’affermazione - implicita nella decisione, ma poi fatta propria anche dall’Ispettorato del lavoro, dalla Procura della Repubblica e dall’INPS - del primato del lavoro subordinato su ogni forma di collaborazione autonoma e, in modo specifico, sulle collaborazioni coordinate e continuative, ossia etero-organizzate (vedi anche il mio Editoriale di marzo 2020 Lavoro autonomo con le tutele del subordinato: cosa comporterà per le aziende). Al di là del merito della vicenda portata all’esame dei giudici (sicuramente toccati nel caso specifico dal lato diciamo cosi “sociale”, ossia dalla necessità di tutelare una categoria professionale considerata debole), quello che desta le maggiori preoccupazioni è l’operazione interpretativa posta alla base della decisione, fondata essenzialmente sulla necessità di spostare in modo significativo i principi di qualificazione del rapporto di lavoro autonomo verso la pedissequa applicazione delle regole proprie del rapporto di lavoro subordinato, quale che sia il rapporto di lavoro oggetto di analisi. E ciò senza tenere nella dovuta considerazione che nell’attuale società “dei servizi” e nel mondo delle imprese esistono ormai molte tipologie di prestatori di lavoro e che, molte di tali figure si collocano ormai, anche per scelta, al confine tra autonomia e subordinazione, rendendo sempre più difficile definire una linea di demarcazione netta ed assoluta fra le due categorie. Sarebbe, pertanto, assai riduttivo risolvere tutto con la lente del lavoro subordinato, senza l’adeguata valutazione dell’importanza e dell’evoluzione del contesto in cui molte delle attività professionali autonome vanno oggi a collocarsi. Tra l’altro, senza tenere conto delle sollecitazioni cui è soggetto già da tempo tutto il settore terziario nei suoi ambiti più importanti, da quello della consulenza, a quello della logistica a quello del retail. Sollecitazioni che suggeriscono l’opportunità di una presa di coscienza diretta in merito all’impossibilità di interpretare i nuovi modelli contrattuali e professionali con le sole lenti del lavoro subordinato classico (ossia attraverso il semplice scambio negoziale retribuzione versus ore lavoro), senza alcun aggancio al rendimento che da quelle ore di lavoro il committente-azienda invece si attende. Peraltro, con la pandemia, nel giro di pochi mesi si è compresa l’importanza non solo della flessibilità nella gestione di molte attività economiche (quelle che hanno di fatto garantito gli approvvigionamenti durante i mesi più duri, dalle attività di logistica e di consegna a quelle di food delivery), ma anche della rilevanza del lavorare per obiettivi, improvvisamente liberati dalla gabbia del controllo spazio-temporale, delle potenzialità del lavoro attraverso piattaforma (al di là dei riders) e, quindi, della necessità di prevedere modelli contrattuali e forme di organizzazione del lavoro dotati di quella flessibilità e rendimento ormai necessari per accompagnare in modo più adeguato sia il lungo cammino verso l’uscita dall’emergenza sanitaria, sia la transizione economica segnata dall’ingresso massiccio della tecnologia in tutti gli ambiti e in tutti i settori del lavoro. Fattori che probabilmente stanno guidando molte scelte individuali e che porteranno in un futuro abbastanza prossimo - come ci dicono anche i più importanti studi sociologici - verso la sempre più massiccia affermazione della società della conoscenza in cui la maggior parte delle attività sarà ad altro contenuto tecnico, creativo, specialistico, professionale e in capo a individui legati da contratti di lavoro autonomo o semi-autonomo, pronti a lavorare per la maggior parte del loro tempo da remoto con piena disponibilità del proprio tempo. Molti giovani lo stanno già facendo. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2022/01/22/great-resignation-work-life-balance-competenze-professionali-mercato-lavoro

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