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Divieto di delocalizzazioni: una procedura complessa. Con tanti rischi per le imprese

Accompagnare in modo strutturale e programmato i progetti di delocalizzazione delle imprese, per scongiurare la realizzazione, una volta terminata la fase più acuta dell’emergenza sanitaria, di piani di chiusura o di trasferimento di intere aziende. Se questa era la finalità dichiarata già nel 2021 dal legislatore, con l’approvazione della legge di Bilancio 2022 e le norme oggi in vigore, l’obiettivo sembra assai lontano dall’essere raggiunto. Perché? La nuova norma si affianca, duplicandola, alla procedura di licenziamento collettivo e comporta, oltre ad un inutile allungamento di tempi, anche non pochi e complessi adempimenti a carico delle aziende, con un aumento del rischio di contenzioso. Tutto da verificare, in concreto.

Con la legge di Bilancio 2022 sono entrate in vigore anche le nuove disposizioni volute dal Governo per “accompagnare” in modo più strutturale e “programmato” i progetti di delocalizzazione delle imprese. Il tutto, almeno nelle iniziali previsioni, per scongiurare la realizzazione, soprattutto una volta terminata la fase più acuta dell’emergenza sanitaria, di piani di chiusura o di trasferimento di intere aziende con possibili e traumatiche ricadute nei territori interessati dalle chiusure. Ma se questo era l’obiettivo dichiarato - già a partire dall’estate 2021 - ribadito poi nel mese di dicembre, in coincidenza con l’approvazione finale della manovra finanziaria per il 2022, quello che ci si trova davanti oggi, a legge approvata e in vigore, sembra assai lontano dal primo obiettivo, ancorché ispirato dalla finalità di “garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo”. In una manciata di commi del mastodontico articolo 1 della legge n. 234/2021 (c. 224-238) trova oggi collocazione una nuova e articolata procedura che, intervenendo praticamente sulla legge n. 223/1991, ha poco a che vedere con quell’idea iniziale di disincentivare le delocalizzazioni all’estero delle nostre produzioni che era negli obiettivi iniziali, finendo per affiancarsi, duplicandola, alla procedura di licenziamento collettivo ex lege 223/91 e comportando, peraltro, oltre ad un inutile allungamento di tempi, anche non pochi e complessi adempimenti a carico delle aziende, con incremento del rischio di contenzioso dai possibili e devastanti effetti. Vediamo in che modo. A dispetto dei titoli giornalistici, infatti, la nuova normativa - che è stata raccontata come un compromesso fra il Ministero dello Sviluppo Economico e quello del Lavoro - non fa alcuna menzione del tema della delocalizzazione, bensì unicamente quello, del tutto distinto, delle riduzioni di personale tout court, che finisce per essere l’unico vero obiettivo da contrastare da parte della nuova disciplina. Viene previsto che i datori di lavoro che, nell'anno precedente, abbiano occupato con contratto di lavoro subordinato - inclusi gli apprendisti e i dirigenti - mediamente almeno 250 dipendenti, intendano procedere alla chiusura di una sede, di uno stabilimento, di una filiale, o di un ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale (quindi ben prima di una vera e propria delocalizzazione con totale chiusura degli stabilimenti, ma anche semplici ipotesi di chiusure parziali come abitualmente avviene in Italia) con cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50, sono tenuti a seguire una speciale ed articolata procedura che consta di una comunicazione preventiva (almeno 90 gg. prima dell’avvio della procedura di licenziamento collettivo) cui si accompagna la predisposizione di un piano diretto a limitare le ricadute occupazionali ed economiche e un confronto con le rappresentanze sindacali in merito allo sviluppo del piano. Entro 60 gg dalla comunicazione, - ed è questa la novità maggiormente impattante e di difficile attuazione anche per le delicate conseguenze che comporta - il datore di lavoro elabora un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura e lo presenta alle rappresentanze sindacali e contestualmente alle Regioni interessate, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, al Ministero dello sviluppo economico e all'ANPAL. In buona sostanza: una azienda che voglia chiudere una propria area o reparto è tenuta a predisporre preliminarmente un piano al fine di evitare proprio la chiusura e la riduzione del personale?Non è chiaro come una tale previsione potrà essere concretamente applicabile, anche per la estrema difficoltà di attuazione e per la discrezionalità con cui le azioni “messe in campo” con il piano possono essere valutate congrue o meno nella fase di successiva verifica.Non è chiaro, poi, se tale speciale procedura si debba sempre applicare in ogni caso di riduzione di personale in cui siano coinvolte almeno 50 unità globalmente considerate, ovvero unicamente - come a mio avviso preferibile visto il dettato normativo - solo qualora la riduzione di personale sia espressamente correlata e/o collegata alla specifica “chiusura” di un sede, di uno stabilimento, di una filiale, o di un ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale come specificamente previsto, da considerarsi - la chiusura di un reparto o filiale o ufficio - quale presupposto indispensabile per l’applicazione della nuova disciplina. E’ chiaro che, in assenza di precisazioni sul punto - come sarebbe stato opportuno - in ogni caso di riduzione di personale in numero superiore o pari a 50 unità si potrà dare facilmente luogo a contenzioso sindacale circa l’applicazione della nuova normativa, con impatto, in mancanza, sulla validità ed efficacia dei successivi licenziamenti avviati ex lege n. 223/1991. Un chiarimento ministeriale sul punto che escludesse la procedura nei casi di mera riduzione di personale non collegati a chiusure di una sede, di uno stabilimento, di una filiale, o di un ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale, sarebbe assai utile.Entro 30 giorni dalla sua presentazione, il piano dovrà essere discusso con le rappresentanze sindacali, alla presenza dei rappresentanti delle Regioni interessate, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero dello sviluppo economico e dell'ANPAL (prima della conclusione dell'esame del piano e della sua eventuale sottoscrizione il datore di lavoro non può avviare la procedura di licenziamento collettivo di cui alla legge n. 223/1991, né intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo), con un’evidente moltiplicazione dei soggetti interessati che non pare facilitare nè la concretezza, nè la celerità della procedura stessa. Il termine dei 30 gg. dovrebbe essere considerato quello di “chiusura” dell’intera procedura di confronto anche se, non essendo previsto in modo perentorio, non è possibile escludere che possa protrarsi, sia per la complessità del confronto, sia per la molteplicità dei soggetti coinvolti. Il che potrebbe avere impatti non indifferenti per la certezza delle scelte aziendali. Guardando all’intera procedura e avendo in mente le sue finalità, emergono alcune criticità. La prima è la nuova previsione di nullità del licenziamento per violazione di norma imperativa che il legislatore ha voluto introdurre a sostegno del precetto imperativo. Infatti, i licenziamenti collettivi intimati in mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine di 90 giorni sono nulli. Singolare che tale sanzione di nullità sia prevista anche a carico dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo intimati durante il periodo, previsione questa che non appare in alcun modo giustificata (ed a mio avviso in conflitto potenziale con l’art. 41 Cost.) in una norma che si prefigge di limitare le delocalizzazioni, posto che mai queste si sono realizzate con uno o più licenziamenti individuali (da 1 a 4 max). Una previsione che pare, invece, frutto indesiderato della stagione pandemica e del connesso blocco totale dei licenziamenti che si fatica evidentemente ad abbandonare. Non solo, viene poi introdotta una differente ipotesi di annullabilità dei licenziamenti collettivi nel caso in cui durante la fase di confronto con le rappresentanze sindacali venga avviata la procedura prevista dalla legge n. 223/1991. Ipotesi che appare più reale di quanto sembri, come nel caso in cui non vi fosse chiarezza reciproca sui tempi di esaurimento della procedura preventiva, ad esempio quando una delle parti richiedesse un prolungamento del confronto ben oltre il termine dei 30 giorni previsto (peraltro non in via perentoria) e l’altra, invece, vi si opponesse. Il rischio qui di contenzioso sindacale appare davvero dietro l’angolo. Altra criticità per la quale non vi è qui lo spazio per poterne approfondire le implicazioni è l’introduzione del meccanismo di verifica del piano (da parte della struttura per le crisi d'impresa di cui all’art. 1, c. 852, della legge n. 296/2006) e la sanzione del pagamento del contributo di cui all’art. 2, comma 35, della legge 28 giugno 2012, n. 92, aumentato del 50% e a carico della sola impresa per l’ipotesi in cui non si raggiunga un accordo in merito all’attuazione del piano. La nuova procedura - che non trova applicazione ai datori di lavoro che si trovano in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l'insolvenza e che possono accedere alla procedura di composizione negoziata per la soluzione della crisi d'impresa -, finisce per precedere e in caso includere la stessa procedura di licenziamento collettivo, vanificando, peraltro, l’obiettivo dichiarato. Infatti, decorsi infruttuosamente e senza accordo i 90 giorni previsti è possibile procedere poi con la procedura di riduzione di personale vera e propria di cui alla legge n. 223/1991. In questo caso la procedura verrebbe avviata correttamente, saltando la fase prevista per il confronto sindacale e si aprirebbe subito la parte di confronto in sede amministrativa. Viene da chiedersi quale sia la reale finalità. Se l’obiettivo prioritario deve essere quello di evitare il più possibile le ricadute sull’occupazione del territorio, allungare i tempi del confronto potrebbe rivelarsi non particolarmente utile, soprattutto considerando che già oggi nelle procedure di licenziamento collettivo la fase degli accordi è quella dove la rapidità decisionale e la competenza di tutte le parti coinvolte può davvero fare la differenza in termini di efficacia del piano. Piano che, di solito, nel momento in cui viene discusso è già ampiamente delineato, soprattutto in termini di ricollocazione, riqualificazione, riorganizzazione e avvio al pensionamento della forza lavoro coinvolta. Da questo punto di vista, la novità di maggiore rilevanza pratica è costituita dal fatto che i lavoratori interessati dal piano possono beneficiare del trattamento straordinario di integrazione salariale per transizione occupazionale (art. 22-ter del D.Lgs. n. 148/2015) - finanziato peraltro dalla legge di Bilancio fino all’anno 2031 - che dà anche la possibilità di accedere al programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori (GOL, art. 1, c. 324, della legge n. 178/2020). In conclusione, credo che nel suo complesso uno strumento così importante e delicato si sarebbe potuto formulare in modo più semplice e, certamente, in coerenza con le procedure già esistenti. Quando le aziende ricorrono alle procedure di licenziamento collettivo non lo fanno mai per puro capriccio e la fase di confronto sindacale è proprio quella più importante e delicata. Forse si sarebbe potuto intervenire in modo più stringente su questo aspetto, evitando peraltro di complicare ulteriormente le cose con la corsa ad ostacoli che implica la comprensione del meccanismo del pagamento del ticket licenziamento ideato dal legislatore per questa procedura. Segno forse della fretta con cui la norma è stata approvata. Non resta, quindi, che verificare in concreto l’applicazione della nuova procedura e con quali ricadute in termini di effettività nella gestione dei progetti di delocalizzazione delle imprese. E non da ultimo verificare se avrà, invece, un qualche effetto negativo sugli investimenti internazionali di cui il nostro Paese continua ad avere bisogno. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2022/02/05/divieto-delocalizzazioni-procedura-complessa-tanti-rischi-imprese

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