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Reperibilità del lavoratore: in quali casi rientra nell’orario di lavoro

La reperibilità del lavoratore rappresenta un’obbligazione relativa alla possibile chiamata del datore di lavoro, che può esaurirsi senza o con l’effettiva prestazione di servizio. Il turno di reperibilità deve essere ricompreso all’interno dell’orario lavorativo solo allorquando il lavoratore sia effettivamente chiamato ad effettuare la prestazione lavorativa. Vi sono tuttavia delle ipotesi “intermedie”, tra la reperibilità attiva a quella passiva, che, secondo la Corte di Giustizia, rientrano nell’orario di lavoro, in quanto vincolano eccessivamente il lavoratore, con un’intensità tale da incidere significativamente ed oggettivamente sulla sua facoltà di gestire liberamente il tempo. Se ne parlerà durante la XIII edizione del Festival del Lavoro, organizzato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro e dalla sua Fondazione Studi, che si svolgerà a Bologna dal 23 al 25 giugno 2022.

La reperibilità costituisce un’obbligazione di attesa della eventuale chiamata del datore di lavoro e può esaurirsi nel mero rispetto di detto obbligo, senza che a tale disponibilità segua un’effettiva prestazione di servizio (cosiddetta reperibilità passiva), o può dare luogo alla prestazione lavorativa, nei casi in cui si verifichi la effettiva chiamata, a seguito della quale il dipendente raggiunga il posto di lavoro (cosiddetta reperibilità attiva). Reperibilità e indennità per il lavoratore La reperibilità deve essere espressamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale, e, per consolidato orientamento giurisprudenziale, costituisce una obbligazione strumentale ed accessoria, qualitativamente diversa da quella lavorativa, che, pur comportando una limitazione della sfera individuale del lavoratore, non impedisce il recupero delle energie psicofisiche. Ne discende come il turno di reperibilità vada ricompreso all’interno dell’orario lavorativo solo allorquando il lavoratore sia effettivamente chiamato ad effettuare la prestazione lavorativa (id est nell’ipotesi innanzi enucleata di reperibilità attiva; ex multis Cass. Cav. Sent. n. 27477/2008). In siffatta ipotesi sorge il diritto del lavoratore alla percezione della “indennità di reperibilità”, il cui ammontare è determinato dal CCNL ovvero da accordi aziendali. Per converso, se il lavoratore non viene chiamato a rendere l’attività lavorativa, il turno di reperibilità non viene considerato orario di lavoro ma viene qualificato come “periodo di riposo” ed al prestatore di lavoro non spetta alcun emolumento ultroneo (Cass. Civ. Sent. n. 11727/2013). Casi particolari Vi sono, tuttavia, fattispecie concrete non sussumibili nel concetto astratto di “reperibilità passiva” né in quello di “reperibilità attiva”: trattasi di casi in cui, pur non essendo intervenuta l’effettiva chiamata del datore di lavoro, la reperibilità abbia arginato - in misura apprezzabile - la libertà del lavoratore di dedicarsi ai propri interessi, limitandolo nella gestione del tempo di attesa. Su tali ipotesi “intermedie” - che si pongono a metà strada tra la reperibilità attiva a quella passiva - si è espressa la giurisprudenza della Corte di Giustizia (grande sezione 9 marzo 2021, in causa C-344/2019; 9 marzo 2021, in causa C-107/2019; sezione V, 11 novembre 2022 in causa C-214/2020) secondo cui rientrano nell’orario di lavoro, in ossequio alla direttiva 2003/88, anche quei servizi di reperibilità che vincolano eccessivamente il lavoratore, con un intensità tale da incidere significativamente ed oggettivamente sulla sua facoltà di gestire liberamente il tempo. La compressione della libertà del lavoratore va valutata tenendo conto di diversi paramenti, quali: il tempo concesso al prestatore per riprendere l’attività lavorativa; la frequenza media degli interventi che il lavoratore sarà effettivamente chiamato a gestire durante il periodo di guardia; eventuali agevolazioni accordate al lavoratore in detto periodo. Precipuo rilievo assume una recente fattispecie esaminata dalla Corte di Cassazione (ordinanza n. 16582 del 23 maggio 2022), inerente a dei lavoratori comunali preposti al servizio di protezione civile. La contrattazione collettiva imponeva loro, in caso di chiamata durante il regime di guardia, di raggiungere il posto di lavoro in 30 minuti, senza concedere, ad esempio, un veicolo di servizio con il quale poter beneficiare di diritti in deroga al Codice della Strada o di diritti di precedenza. Si trattava, oltretutto, di condizioni imposte in aree frequentemente soggette a richiami e connotate da interventi di durata media significativa. Nella specie, il servizio di reperibilità era reso dai dipendenti nell’intervallo tra le prestazioni lavorative, ininterrottamente per una o due settimane al mese. Siffatta turnazione si appalesava irragionevole, per la gravosità della prestazione e perché, in caso di chiamata, poteva determinare il mancato rispetto del riposo giornaliero o il superamento dei limiti del lavoro straordinario, in spregio alle norme di legge e della contrattazione collettiva (che, preme rimembrare, non possono mai essere derogate in peius dal datore di lavoro). Inoltre, il contratto collettivo nazionale applicabile ai rapporti di specie prevedeva il diritto del dipendente al riposo compensativo nell’ipotesi di reperibilità cadente nella giornata di domenica (o, comunque, nel giorno di riposo settimanale). Nemmeno siffatta previsione era stata rispettata dal datore di lavoro, che ancorava il riposo compensativo ad una domanda di fruizione del riposo proveniente dal dipendente. Per tutte le ragioni sopra addotte, il datore di lavoro veniva condannato al risarcimento dei danni per le ore di reperibilità superiori alle 12 ore giornaliere, per il superamento delle sei giornate di reperibilità in un mese nonché per la mancata fruizione del riposo compensativo dopo i turni di reperibilità prestati nella giornata di riposo settimanale. Venivano respinte le domande dei lavoratori tese al conseguimento dell’indennità di disagio e di disponibilità, non spettanti, ai sensi della contrattazione collettiva, per i servizi di protezione civile. Diritto UE Pertanto, in ipotesi come quella in esame, non ci può esimere dall’esame del diritto comunitario (oltre che delle norme di legge e dei contratti collettivi applicabili). Ed invero, le norme europee ribadiscono il dovere del datore di lavoro di tutelare la sicurezza e la salute dei dipendenti. Un tale obbligo grava sul datore di lavoro anche nelle ipotesi in cui il periodo di reperibilità, per le modalità con cui è disciplinato, rispetta le condizioni per essere qualificato come periodo di riposo. Continuano, pertanto, a susseguirsi pronunce inerenti al complesso tema della reperibilità, alla sua riconducibilità nella nozione di orario di lavoro ed al diritto indisponibile dei lavoratori di fruire dei riposi giornalieri nonché di salvaguardia della loro salute psico-fisica, pregiudicata, talvolta, dall’eccessiva onerosità dei turni di reperibilità.

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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2022/06/10/reperibilita-lavoratore-casi-rientra-orario-lavoro

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