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Trasferire sul Fisco il rischio d’impresa è una strada impervia. Anche per la Cassazione

La crisi economica è una realtà non transitoria, con cui gli imprenditori devono misurarsi. Di essa si deve tenere conto nel momento in cui valuta la condotta attiva od omissiva dell’imprenditore e i suoi rapporti con la crisi dell’impresa. In questa prospettiva di realismo giudiziario, si colloca la sentenza della Cassazione penale n. 19651/2022, che ribadisce l’ovvio: le imposte vanno pagate, ma impone al giudice di merito di valutare la rilevanza della crisi economico-finanziaria e la sua incidenza sul (non) pagamento dei debiti tributari, nonché l’impegno del legale rappresentante della società contribuente per ovviare alla situazione di grave illiquidità creatasi. La strada di trasferire sul Fisco il rischio d’impresa e, con esso, tutte o parte delle perdite, rimane, giustamente, impervia.

Quando, oltre tre anni fa, il codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) ha operato talune “modifiche al codice civile” (con gli artt. 375-384), è passata quasi sotto traccia sia la previsione esplicita di un dovere di contrastare la crisi dell’impresa e la perdita di continuità aziendale, sia la previsione implicita che detta crisi può essere la conseguenza non solo (e non tanto) di una mala gestio imprenditoriale, ma anche di un mutamento del contesto generale nel quale l’imprenditore si trova ad operare, così che la crisi dell’impresa appare strettamente legata a situazioni oggettive esterne non governabili né evitabili dall’imprenditore e - come tali - non a lui addebitabili. L’andamento negativo dell’economia cessa di essere qualcosa di immanente ed astratto e diventa una realtà con la quale anche il diritto (compreso quello penale) deve misurarsi e della quale deve necessariamente tener conto. Con una modifica che non è solo di forma, ma di sostanza, il legislatore del 2019 ha riscritto l’art. 2086 c.c., confermando che l’imprenditore è il capo dell’impresa e il vertice dell’organizzazione attraverso la quale estrinseca la sua iniziativa economica, ma inserendo la previsione esplicita che non solo è responsabile del buon andamento dell’impresa (nel suo interesse), ma che acquisisce una responsabilità sociale circa le modalità di gestione e i risultati economici ed occupazionali che determina: le scelte imprenditoriali devono accompagnarsi con “un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” (esercitata in forma societaria e collettiva); il successo imprenditoriale deve coniugarsi con un profitto rispettoso dei principi di cui all’art. 41 Cost. e all’art. 2087 c.c.; l’insuccesso imprenditoriale deve essere contrastato, tempestivamente rilevato nelle sue prevedibili ricadute sulla vita e vitalità dell’impresa (la continuità aziendale corrisponde ad un evidente interesse sociale per le sue ricadute sui lavoratori, sui fornitori, sugli investitori) e “ammortizzato” con l’“attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”. Il codice civile, che ha sempre avuto pudore nell’evocare le vicende negative (dolose, colpose o incolpevoli) dell’iniziativa imprenditoriale, recepisce in un proprio articolo l’obbligo di conoscere e, ove del caso, di avvalersi degli istituti legislativi pensati nell’ottica della “crisi dell’impresa” e tradizionalmente disciplinata in una normativa extracodicistica (si pensi al R.D. 16 marzo 1942 n. 267, recante la disciplina del fallimento, e alla sua evoluzione fino alla legge delega n. 155/2017 e all’attuale codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza). Sembra quasi che le sorti negative dell’attività imprenditoriale cessino di essere una eventualità comunque eccezionale ed assurgano ad un epilogo quasi fisiologico, certamente prevedibile e potenzialmente da prevenire. Il dovere imprenditoriale di istituire un assetto organizzativo/amministrativo/contabile idoneo ad impedire la crisi e capace di rilevarla sul nascere appare, a ben riflettere, individuare un contenuto indefettibile del modello organizzativo e di gestione (m.o.g.), fuori dal contesto del c.d. sistema 231: il modello anticrisi è doveroso, mentre il m.o.g. ex art. 6 del D.Lgs. n. 231/2001 è facoltativo; quest’ultimo è in funzione di reati presupposto della responsabilità dell’ente da contrastarsi, mentre l’art. 2086 c.c. impegna a contrastare anche illeciti (quelli c.d. fallimentari) che non sono reato presupposto. In altre parole, si aggiunge un altro tassello alla delineazione di un m.o.g. con contenuto obbligatorio sempre più vasto (si pensi all’art. 30 del Testo Unico sulla Sicurezza 2008) e si rafforza la spinta per un modello obbligatorio che ponga con chiarezza l’imprenditore dinanzi a responsabilità che sono connaturali al suo ruolo. La riscrittura dell’art. 2086 c.c. ha anche un significato innovativo laddove non considera solo la crisi d’impresa da incapacità, colpa o dolo dell’imprenditore, ma ricomprende qualsiasi situazione anche esterna produttiva, o potenzialmente produttiva, della perdita della continuità aziendale. La crisi economica è una realtà immanente, e purtroppo non transitoria, con cui gli imprenditori devono misurarsi e sarebbe inaccettabile che di essa non si tenesse conto nel momento in cui si deve valutare la condotta attiva od omissiva dell’imprenditore e i suoi rapporti con la crisi dell’impresa. In questa prospettiva di realismo giudiziario si colloca Cass., Sez. III penale, 24.2-19.5.2022 n. 19651, che ribadisce l’ovvio e cioè che le imposte vanno pagate, ma che impone al giudice di merito di valutare la rilevanza della crisi economico-finanziaria e la sua incidenza sul (non) pagamento dei debiti tributari nonché - ai fini dell’elemento soggettivo - l’impegno del legale rappresentante della società contribuente per ovviare alla situazione di grave illiquidità creatasi. La Suprema Corte non dà per acquisita la prova che la lamentata crisi finanziaria è stata determinata da “insoluti rilevantissimi” altrui (dei “principali clienti”) e che, ad invertire la tendenza, non sono stati sufficienti gli “ingenti esborsi personali” del legale rappresentante e il suo indebitarsi con le banche per ottenere prestiti. Il tema del dissesto incolpevole non può rimanere esterno alla valutazione giudiziaria laddove il fine di evasione è elemento costitutivo del reato tributario. La Suprema Corte si distacca consapevolmente, e cautamente, dalla precedente giurisprudenza che considerava l’inadempimento dei debitori un “ordinario rischio di impresa” inidoneo a giustificare la violazione dell’art. 53 Cost. Non tutte le crisi d’impresa sono uguali; non tutte le crisi di illiquidità sono prevedibili ed evitabili; l’omesso (tempestivo) pagamento non è di per sé indice di condotta penalmente rilevante. Sarà il giudice di rinvio a valutare il materiale probatorio, accertando od escludendo la situazione di forza maggiore nella quale il contribuente si sarebbe trovato e che lo avrebbe determinato a pretermettere la risposta alla pretesa erariale. La crisi economico-finanziaria è oggi conclamata, ma la strada di trasferire sul Fisco il rischio d’impresa e, con esso, tutte o parte delle perdite, rimane, giustamente, impervia. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/impresa/rischi-dimpresa/quotidiano/2022/06/18/trasferire-fisco-rischio-impresa-strada-impervia-cassazione

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