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Lavoro a termine e stagionale: quali sono i costi aziendali in caso di recesso prima della scadenza

Con l’avvio della stagione estiva aumenta l’utilizzo dei contratti a termine per far fronte al fabbisogno di manodopera dei datori di lavoro. A fronte della necessità di assumere lavoratori a termine in alcuni casi può nascere l’esigenza di risolvere anticipatamente il rapporto prima della scadenza, per volontà di una delle due parti contraenti. Fermo restando la possibilità di una risoluzione consensuale, in che modalità è possibile risolvere anticipatamente? In quali casi in capo al datore di lavoro può imputarsi l’obbligo di risarcire il danno al lavoratore per il recesso anticipato?

Il periodo estivo è indubbiamente quello di maggior utilizzo dei contratti a termine e stagionali che, per alcuni settori nevralgici della nostra economia, rappresentano linfa vitale e in alcuni casi l’unica tipologia contrattuale utilizzabile, stante la peculiarità del settore. Il contratto di lavoro a tempo determinato è per sua natura e definizione un contratto che nasce per produrre i suoi effetti per un limitato periodo di tempo, determinato o determinabile. Ma è indubbio che, come qualsiasi rapporto di lavoro, può nascere l’esigenza o la necessità di risolvere anticipatamente il rapporto prima della scadenza, per volontà di una delle due parti contraenti. In tale situazione, la soluzione ideale è la risoluzione consensuale: si tratta di un accordo tra le parti, con il quale viene definita la volontà comune di risolvere il rapporto di lavoro prima della scadenza, esonerandosi l’una con l’altra da qualsiasi ulteriore vincolo. Ma se non si raggiunge un accordo e la volontà di risolvere deriva da una scelta del datore di lavoro o del lavoratore? Fermo restando il raggiungimento del termine concordato, e al di fuori della risoluzione consensuale, in che modalità è possibile risolvere anticipatamente? Recesso durante il periodo di prova Il rapporto di lavoro a tempo determinato, una volta sottoscritto, può risolversi durante il periodo di prova, qualora sia stato apposto al contratto.

Art. 2096 c.c.Salvo diversa disposizione, l'assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. L'imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l'esperimento che forma oggetto del patto di prova. Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza l'obbligo di preavviso o d'indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine. Compiuto il periodo di prova, l'assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell'anzianità del prestatore di lavoro.
In attesa dell’entrata in vigore dello schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva UE 2019/1152 che prevede che nei rapporti di lavoro a tempo determinato la durata del periodo di prova deve essere proporzionata alla durata prevista dal contratto e alla natura dell’impiego, è possibile apporre al contratto a termine il patto di prova, sempre in presenza della forma scritta e della preventiva (o almeno contestuale rispetto all'inizio del rapporto) sottoscrizione da parte del lavoratore. Il periodo di prova da apporre al contratto a tempo determinato può essere espressamente previsto dal contratto collettivo; in assenza, la durata della prova dovrà controbilanciare l'interesse datoriale alla corretta valutazione della prestazione resa (e, specularmente, la convenienza del lavoratore a continuare a collaborare con quel datore) con la necessaria proporzionalità tra durata complessiva del contratto a tempo determinato e durata della prova, con la conseguenza che, ai fini della sua validità, sarà necessario che il periodo di prova non abbia la stessa durata del contratto a tempo determinato al quale si riferisce. Recesso per giusta causa
Art. 2119 c.c.Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente.
Al rapporto di lavoro a termine non trova infatti applicazione quanto previsto dall’art. 2118 c.c., ovvero la possibilità di risolvere il rapporto di lavoro da ciascuna delle parti contraenti nel rispetto del periodo di preavviso stabilito dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro. Il legislatore pertanto contempla la possibilità di un unico recesso, ovvero in presenza di una giusta causa ovvero di un fatto di gravità tale da far venir meno il vincolo di fiducia sussistente tra le parti in misura tale da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro. Giusta causa che può riguardare comportamenti o inadempimenti imputabili: - al datore di lavoro (dimissioni per giusta causa) al verificarsi delle quali il lavoratore può recedere immediatamente e ha diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso (e la NASPI) - al lavoratore (licenziamento per giusta causa) che deve avvenire al termine del procedimento disciplinare e che comporta il recesso senza preavviso e senza relativa indennità sostitutiva. Per quanto riguarda le ipotesi al verificarsi delle quali si rientra nella giusta causa, giurisprudenza e contrattazione collettiva (per le ipotesi di licenziamento) hanno identificato alcune fattispecie
Dimissioni per giusta causaLicenziamento per giusta causa
- Mancato pagamento della retribuzione o della contribuzione obbligatoria, prolungato nel tempo - Mancata regolarizzazione del rapporto di lavoro - Mancato rispetto delle norme sulla sicurezza del lavoro - Illegittimo demansionamento - Illegittima decurtazione della retribuzione - Comportamento penalmente rilevante - Mobbing - Molestie - Discriminazioni- Mancata prestazione lavorativa - Assenza ingiustificata prolungata nel tempo - Grave insubordinazione - Ripetuta disobbedienza - Violazione dell’obbligo di fedeltà e diligenza - Fatti penalmente rilevanti (furti, truffe, ingiurie, violenze, lesioni, aggressioni nei confronti del datore e colleghi)
E se non c’è giusta causa? Al di fuori della giusta causa, per quanto riguarda il datore di lavoro, questo non può recedere dal rapporto neanche qualora sussistano ragioni connesse alla produzione o all’organizzazione dell’azienda (GMO) stante l'inapplicabilità dell’art. 3 della l. n. 604/1966.
Art. 3, l. 604/1966Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
Secondo la Cassazione (10 febbraio 2009, n. 3276) “qualora il datore di lavoro proceda ad una riorganizzazione del proprio assetto produttivo, non può avvalersi di tale fatto per risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato”. Una situazione simile la si ritrova anche per quanto riguarda il lavoratore. Fermo restando che non è possibile “rapire” il lavoratore e che nella prassi si ammettono le dimissioni, è da tenere presente che una risoluzione anticipata rispetto al termine può costituire comunque un inadempimento contrattuale che, come tale, può dare adito ad una richiesta risarcitoria nei confronti del lavoratore inadempiente. Il lavoratore, infatti, recedendo anticipatamente rispetto alla scadenza concordata, va a violare l’interesse del datore di lavoro che, con la sua assunzione, faceva affidamento su una determinata durata della relazione contrattuale. Quali conseguenze in caso di licenziamento GMO o di dimissioni? Fermo restando la validità e legittimità del contratto a tempo determinato, l’aspetto sanzionatorio in capo al datore di lavoro concerne l’obbligo di risarcire il danno al lavoratore che viene quantificato con le retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito alla data del licenziamento alla scadenza naturale del rapporto. La giurisprudenza individua nelle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se il datore non avesse posto fine al rapporto, un parametro idoneo a risarcire sia il danno emergente sia il lucro cessante. Qualora invece il recesso derivi da una dimissione del lavoratore, tale criterio non è applicabile ma alcuni tribunali hanno adottato il criterio dell’equità, definendo come quantum che si valorizza, richiamando l’art. 2118 c.c., sul valore dell’indennità sostitutiva del preavviso. Il tutto fermo restando l’onere della prova a carico del datore di provare il danno subito dall’inadempimento.
Risarcimento danno per il lavoratoreRetribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito alla data del licenziamento alla scadenza naturale del rapporto
Risarcimento danno per il datore di lavoroOnere della prova a carico del datore - riconoscimento dell’indennità sostitutiva del preavviso
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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2022/06/27/lavoro-termine-stagionale-costi-aziendali-recesso-prima-scadenza

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