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Periodo di prova: quale durata nei contratti a termine?

Durata massima del periodo di prova non oltre la soglia dei sei mesi e proporzionalmente correlata anche alle mansioni da svolgere. Sono alcune delle novità introdotte dal decreto Trasparenza. Dall’analisi del provvedimento si pone, tuttavia, il problema della determinazione ridotta del periodo di prova, atteso che il Legislatore delegato non ha ritenuto di dover rinviare alle pattuizioni collettive le determinazioni per i periodi ridotti relativi al patto di prova. Come si deve comportare un datore di lavoro che voglia inserire il patto di prova in un contratto a termine, atteso che il CCNL che applica nella propria azienda, lo correla ad un contratto a tempo indeterminato?

Le modifiche introdotte con l’art. 7 del D.L.vo n. 104/2022 relative, soprattutto (ma non solo) alla durata massima del periodo di prova, offrono lo spunto per un riassunto complessivo dell’istituto. Prima di entrare nel merito delle questioni correlate, da sempre, al patto di prova, ritengo opportuno soffermare l’attenzione sulle nuove disposizioni. Durata massima del periodo di prova Il comma 1 afferma che la durata massima del periodo di prova non può varcare la soglia dei sei mesi: ovviamente, restano valide le previsioni contrattuali che stabiliscono periodi inferiori. Per il nostro ordinamento non è una novità, in quanto esso lo si ricava, da tempo, indirettamente, dall’art. 10 della legge n. 604/1966 il quale afferma che la tutela sul licenziamento illegittimo si applica trascorsi sei mesi dall’assunzione, pur se era stato pattuito tra le parti un periodo superiore di prova. Sono i CCNL a stabilire la durata della prova: in genere per le mansioni più elementari è abbastanza breve, atteso che per la valutazione dell’attitudine del lavoratore è sufficiente un periodo limitato, mentre per quelle a contenuto più alto, essa è più lunga in quanto occorre valutare la prestazione in relazione alla maggiore complessità delle mansioni. Nei contratti a tempo determinato, afferma il comma 2, il periodo di prova deve avere una durata proporzionale correlata anche alle mansioni da svolgere: qui, a mio avviso, sarà necessario un intervento della contrattazione collettiva che, in relazione alle singole mansioni ed alla durata del rapporto, dovrà definire i tempi. Attualmente, infatti, sono pochi i contratti collettivi che prevedono un periodo di prova proporzionalmente ridotto in caso di contratto a tempo determinato. Determinazione del periodo di prova Qui, a partire dal 13 agosto, data di entrata in vigore del D.L.vo n. 104/2022, si pone il problema della determinazione ridotta del periodo di prova, atteso che il Legislatore delegato non ha ritenuto di dover rinviare alle pattuizioni collettive le determinazioni per i periodi ridotti relativi al patto di prova: ma allora, come si deve comportare un datore di lavoro che voglia inserire il patto di prova in un contratto a termine, atteso che il CCNL che applica nella propria azienda, lo correla ad un contratto a tempo indeterminato? Non sussiste, a mio avviso, una regola univoca e scevra da possibili contenziosi in caso di non superamento del periodo di prova: si potrebbe suggerire (ma è soltanto un metodo empirico che presenta, comunque, alcuni “punti deboli”) di dividere il periodo di prova previsto per dodici (quanti sono i mesi dell’anno) e moltiplicare il risultato ottenuto per i mesi di durata del contratto a termine. Il Legislatore delegato chiarisce, sempre al comma 2, che in caso di rinnovo tra le parti di un contratto di lavoro a tempo determinato per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova. La disposizione non lo dice chiaramente, ma la regola sembra attagliarsi anche ai contratti di somministrazione ed a quelli di lavoro intermittente. Si parla di stesse mansioni (che sono quelle già svolte) e non di mansioni riferibili allo stesso livello della categoria legale di inquadramento che il dipendente potrebbe non aver svolto nel rapporto precedente: in tal caso, mi sembra plausibile l’inserimento del periodo di prova. Il comma 3 cita, in costanza con un orientamento dottrinario e giurisprudenziale costante, la sopravvenienza di eventi che non consentono l’espletamento della prova in quanto interruttivi del rapporto come la malattia, l’infortunio, il congedo di maternità o paternità obbligatori che prolungano “ex lege” in misura corrispondente alla durata dell’assenza, la durata del periodo di prova. Di conseguenza, un recesso del datore di lavoro durante il periodo coperto da tali eventi, comporta, se impugnato, la illegittimità dello stesso e la ricostituzione del rapporto ai soli fini dell’espletamento della prova. Quanto appena detto vale soltanto per i datori di lavoro privati, atteso che per quelli pubblici continua ad applicarsi l‘art. 17 del D.P.R. n. 487/1994 il quale stabilisce che la durata del periodo di prova è differenziata in ragione della complessità delle prestazioni professionali richieste, definite dalla contrattazione collettiva. Per il resto, nulla è cambiato rispetto alla normativa che regola la materia: il patto di prova che è una condizione che può essere apposta al contratto, deve risultare, a pena di nullità, da atto scritto (art. 2096 c.c.), antecedente l’inizio della prestazione lavorativa dedotta in contratto, non può avere un contenuto generico ma deve essere specifico ed attinente alle mansioni da svolgere: una eventuale adibizione a mansioni diverse comporta la nullità del patto. Il superamento del periodo di prova comporta, come ricorda, l’ultimo comma dell’art. 2096 c.c., il consolidamento del rapporto. Esso può riguardare anche i lavoratori disabili assunti a copertura dell’obbligo di legge: anzi, proprio per favorire l’ingresso nell’organizzazione produttiva, l’art. 11 della legge n. 68/1999 prevede la possibilità di un periodo più lungo di prova rispetto a quello definito dal contratto collettivo. Ovviamente, la prova non può essere, secondo l’insegnamento della giurisprudenza, “capziosa” ma deve tenere conto dell’handicap del lavoratore: di conseguenza, ai fini sua della validità, l’eventuale valutazione negativa del datore di lavoro non può discendere dal raffronto con una prestazione lavorativa di un altro dipendente “normo-dotato”. In passato, sotto la vigenza della legge n. 482/1968 (ma il ragionamento può ben attagliarsi anche alla normativa che fa riferimento alla legge n. 68/1999), la Cassazione affermò l’obbligo di motivare per iscritto il recesso, alfine di consentire al giudice la possibilità di valutare la correttezza dell’operato datoriale e di verificare che il patto di prova non sia stato utilizzato per eludere la disciplina sul collocamento obbligatorio (Cass., 16 gennaio 1984, n. 362). Recesso Il recesso di entrambe le parti può avvenire in qualsiasi momento, a meno che nel patto non sia inserita una durata minima necessaria, cosa che comporta l’impossibilità di esercitare il recesso prima della scadenza minima indicata. Il datore di lavoro può procedere al licenziamento, senza preavviso e senza applicazione delle norme di tutela previste dalla legge n. 604/1966 e dal D.L.vo n. 23/2015. Il potere datoriale è, indubbiamente, discrezionale, nel senso che può valutare come crede sia l’attitudine professionale che la capacità del lavoratore: esso, tuttavia, non può essere arbitrario, nel senso che il lavoratore può impugnare il provvedimento, adducendo e provando in giudizio il motivo illecito o il fatto che la prova non è stata adeguatamente esperita o è stata svolta per mansioni diverse da quelle inserite nella lettera di assunzione. Ovviamente, in caso di recesso il lavoratore ha diritto a tutte le competenze maturate per la sua prestazione, ivi comprese le ferie retribuite maturate, se non godute. Ma, in conclusione, quali possono essere le conseguenze di un recesso datoriale non valido? Il lavoratore non ha diritto alle tutele previste dalla legge, atteso che la illegittimità del recesso non comporta la ricostituzione del rapporto di lavoro. Esso ha diritto a proseguire la prova per il periodo restante, con la facoltà riconosciuta al ricorrente di chiedere il risarcimento del danno. Mancato superamento del periodo di prova Da ultimo, invece, alcune considerazioni relative al mancato superamento del periodo di prova per un lavoratore assunto con contratto a tempo indeterminato (il discorso, quindi, non vale per la prova nel contratto a tempo determinato). Secondo un indirizzo amministrativo dell’INPS (v. circolari n. 4/2018 e n. 56/2021), laddove una norma di legge prevede un beneficio per chi assume a tempo indeterminato un soggetto al primo rapporto a tempo indeterminato (v. legge n. 205/2017 e legge n. 178/2020), se il lavoratore risulta essere stato licenziato durante o al termine del periodo di prova, durante un precedente rapporto con contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro non ha diritto allo sgravio contributivo. Personalmente, ritengo che tale interpretazione di prassi, ormai consolidata, sia frutto di un esame formalistico e rigido della normativa, in quanto non si possono mettere sullo stesso piano un contratto a tempo indeterminato che ha avuto il proprio svolgimento e che, poi, si è risolto per dimissioni o licenziamento (la cosa non importa), con un altro che, seppur a tempo indeterminato, è durato pochi giorni e che è stato risolto dal datore d lavoro per mancato superamento del periodo di prova sulla base di una valutazione personale e discrezionale, magari per “svicolare” da un avviamento obbligatorio. Questo lavoratore avrà maggiori difficoltà a trovare una occupazione stabile, proprio perché alcuni incentivi sono legati al non aver avuto mai un rapporto a tempo indeterminato, cosa che non lo favorisce in alcun modo. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2022/09/05/periodo-prova-durata-contratti-termine

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