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Adeguatezza della retribuzione: il dibattito è sempre aperto

Rileggendo l’art. 36 della Costituzione, non si hanno dubbi circa il fondamento dell’azione legislativa in materia retributiva. Per quanto nel recente passato la discussione si sia concentrata sul tema del salario minimo, la prospettiva di osservazione deve oggi basarsi anche sull’effettività del principio di adeguatezza della retribuzione. Sarebbe auspicabile che le parti sociali mostrassero un maggiore interesse al tema delle differenze salariali su base territoriale, orientandosi verso l’introduzione, a livello nazionale, di elementi perequativi attraverso cui rendere possibile un adeguamento delle retribuzioni al costo della vita che caratterizza le differenti aree del Paese. Se la contrattazione collettiva dovesse mantenersi sorda rispetto a simili istanze, l’unica via sarebbe un intervento del Legislatore, che potrebbe valutare un’azione fondata sulla leva dei vantaggi fiscali su base territoriale legati all’erogazione dei fringe benefit. Il tutto per conferire un maggiore grado di effettività alla garanzia costituzionale del salario adeguato!

“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. Rileggendo l’art. 36 della Costituzione, non si hanno dubbi circa il fondamento dell’azione legislativa in materia retributiva. Per quanto nel recente passato la discussione si sia concentrata sul tema del salario minimo legale (ed anche chi scrive ha avuto modo di esprimere le proprie valutazioni in materia), la prospettiva di osservazione deve oggi essere diversa e muovere nel senso dell’inserimento nel dibattito della questione dell’effettività del principio di adeguatezza della retribuzione, prima ancora che delle fonti per la determinazione della stessa. Sotto tale profilo, occorre prendere atto della circostanza per cui all’interno del Paese esistono evidenti differenze nel costo della vita, stimate in un differenziale che può raggiungere il 30%. Ciò impone di calare la riflessione sul potere d’acquisto delle retribuzioni e non (o, comunque, non solo) sul relativo livello minimo tabellare. Eppure, al netto di alcuni esempi isolati, la contrattazione collettiva non è ancora intervenuta diffusamente sul punto, anche in nome di un “presunto” principio di parità di trattamento, pur pacificamente inoperante in ambito privatistico e, per di più, estraneo al dettato costituzionale. È poi noto che l’articolo 36 Cost., nell’assenza di norme che determinassero la “giusta retribuzione”, è stato il terreno di molteplici interpretazioni giurisprudenziali e che la disposizione in parola è servita ad ovviare alla mancata attuazione dell’art. 39 Cost., la quale avrebbe, invece, reso i livelli retributivi fissati dai contratti collettivi vincolanti per l’intera categoria merceologica assoggettata alla disciplina pattizia. Nel corso del tempo, la giurisprudenza si è quindi dovuta adoperare per rendere effettiva la garanzia costituzionale, riconoscendo che i - o, meglio, gli eredi dei - “concordati di tariffa” potessero fungere da parametro utile per la quantificazione della retribuzione adeguata ai sensi dell’art. 36 Cost. (ex plurimis, Cass. 9 aprile 1996, n. 7383, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, 481; vedi, in dottrina, M. Biasi, Il contrasto al “lavoro povero” e i nodi tecnici del salario minimo legale, in Lav. Dir. Eur., 2021, 1). Ciò, si badi, non ha mai comportato un “appiattimento” sul contenuto economico del contratto collettivo: secondo l’orientamento dominante, infatti, al giudice sarebbe consentito, con onere di apposita motivazione, discostarsi nel caso concreto dai “minimi” fissati dai contratti collettivi. Tale scostamento, il più delle volte “al ribasso”, è stato giustificato attraverso il rimando alle condizioni economiche del datore di lavoro, ovvero al costo della vita del luogo in cui viene resa la prestazione nel singolo caso (Cass. 15 novembre 2001, n. 14211; in dottrina, vedi G. Ricci, Il diritto alla retribuzione adeguata, Torino, 2012, 48; M.C. Cataudella “La retribuzione nel tempo della crisi tra principi costituzionali ed esigenze del mercato, Torino, 2013). A tal proposito, merita di essere richiamato un importante arresto di legittimità ove, quale parametro per la determinazione della retribuzione ci si è riferiti proprio al potere d’acquisto del salario. In particolare, secondo la Cassazione “ai fini della determinazione della giusta retribuzione a norma dell'art. 36 Cost. nei confronti di lavoratore dipendente … residente in zona depressa, con potere di acquisto della moneta accertato come superiore alla media nazionale, il giudice del merito può discostarsi dai minimi salariali stabiliti dal contratto collettivo, non direttamente applicabile al rapporto, ma assunto con valore parametrico, a una triplice condizione: che utilizzi dati statistici ufficiali, o generalmente riconosciuti, sul potere di acquisto della moneta e non la propria scienza privata; che consideri l'effetto già di per sè riduttivo della retribuzione contrattuale insito nel principio del minimo costituzionale; che l'eventuale riduzione operata non leda il calcolo legale della contingenza stabilita dalla legge 26 febbraio 1986 n. 38.” (Cass. 26 luglio 2001, n. 10260). Non si vede perché, alla luce del vincolo finalistico posto dall’art. 36 Cost., non si possa pensare ad un’apertura verso un adeguamento anche “al rialzo” della retribuzione. Del resto, si sono di recente registrati alcuni pronunciamenti di merito nei quali si è considerato il livello retributivo fissato dalla contrattazione collettiva insufficiente a realizzare la garanzia costituzionale (Trib. Milano 25 febbraio 2020; Trib. Torino 9 agosto 2019; Trib. Milano 30 giugno 2016). A fronte di questo, sarebbe invero auspicabile che le parti sociali mostrassero un maggiore interesse verso il tema delle differenze salariali, orientandosi verso l’introduzione, a livello nazionale (come peraltro talora accade già), di elementi perequativi attraverso i quali rendere possibile un adeguamento al diverso costo della vita che caratterizza le differenti aree del Paese.Non si tratterebbe, si badi, di un ritorno alle “gabbie salariali”, le quali risalgono ad una stagione ormai passata, bensì di un intervento volto a garantire una retribuzione trasversalmente adeguata, nonché, di fatto, “comparabile”, sul piano sostanziale e non meramente formale. Laddove la contrattazione collettiva - e, in parte, la stessa giurisprudenza - dovesse mantenersi “sorda” rispetto a simili istanze, l’unica via sarebbe un intervento del Legislatore, che, senza necessariamente passare per l’introduzione del minimum wage, potrebbe valutare un’azione fondata sulla leva dei vantaggi fiscali su base territoriale legati all’erogazione dei fringe benefit. Ciò potrebbe conferire un maggiore grado di effettività alla garanzia costituzionale del salario adeguato, che, va ricordato, è qualcosa di diverso ed ulteriore rispetto al mero salario sufficiente. Attraverso tale lente andrebbero forse rilette certe prese di posizione recenti da parte di alcuni esponenti del Governo, animate più che da un’ipotetica volontà di mettere in crisi i consolidati assetti contrattuali, dal condivisibile proposito di portare all’attenzione generale (e, soprattutto, di cercare una soluzione ad) un problema ormai sotto gli occhi di tutti. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/02/25/adeguatezza-retribuzione-dibattito-aperto

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