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Contratto a tempo determinato. Il decreto Lavoro “apre” ad una reale flessibilità

Nel decreto Lavoro viene confermata la stipulazione dei contratti a termine e di somministrazione a termine senza obbligo di causali fino a 12 mesi di durata del contratto, mentre per quelli di durata superiore occorre obbligatoriamente inserire delle causali se ed in quanto previste dalla contrattazione collettiva anche di livello aziendale ovvero, in loro assenza liberamente individuate pattiziamente dall’azienda e dai lavoratori in forza di esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti. Un’apertura verso quella maggiore flessibilità che non solo è necessaria, ma è ormai fisiologica per garantire un modo di fare impresa che possa essere coerente con le oscillazioni cicliche dell’economia.

Le modifiche in materia di contratto a tempo determinato scaturite dall’approvazione definitiva del decreto Lavoro - D.L. n. 48/2023 - restituiscono una disciplina che nonostante gli annunci e l’enfasi politica del primo momento, incentrata sull’abolizione delle causali e sull’apertura ad un uso del contratto più coerente con le reali esigenze delle aziende fino a 24 mesi, non introduce poi rilevanti novità. Forse la miglior novità del testo approvato è proprio quella che oggi manca, ossia la scelta di aver eliminato l’obbligo della certificazione della causale in caso di mancata determinazione della stessa da parte della contrattazione collettiva, che era apparsa nelle versioni precedenti, ma che fortunatamente è stata espunta dal testo definitivo. Scelta ragionevole considerato che il meccanismo di controllo e verifica amministrativa delle causali oltre i 12 mesi originariamente previsto per i rinnovi dei contratti (oltre i 12 mesi appunto) avrebbe comportato notevoli aggravi amministrativi, ma anche di costi, rischiando peraltro di allungare notevolmente i tempi tra la fine del primo contratto e l’avvio di quello successivo, con grave disagio per gli stessi lavoratori, come già segnalato nell’Editoriale “Contratto a tempo determinato: un annunciato ritorno alle causali. Con tante difficoltà”, elaborato sulla bozza del decreto del 28 aprile. La disciplina del contratto a tempo determinato che scaturisce oggi dal decreto è, invece, parzialmente agganciata alle agevolazioni - in termini di flessibilità - che erano state introdotte durante la pandemia e successivamente prorogate, nella consapevolezza dell’importanza e del ruolo che la contrattazione collettiva può avere in questo ambito, come già in passato quando era in vigore la legge n. 56/1987.Spariscono, pertanto, dal comma 1 dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015 le difficoltose causali che erano state introdotte dal decreto Dignità - D.L. n. 87/2018, convertito dalla legge n. 96/2018 - per i casi di superamento dell’iniziale periodo di 12 mesi e cioè le esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori, e le esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria, che vengono sostituite dalle nuove lettere a), b) e b-bis) le quali prevedono che il superamento dell’iniziale periodo di 12 mesi - con il medesimo meccanismo già previsto dalla norma, quindi nei casi di proroga, rinnovo o durata iniziale superiore ai 12 mesi - possa avvenire solo in base a: - casi previsti dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015 (quindi, contratti collettivi di ogni livello, purché sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative - nuova lettera a) art. 19, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015); - in assenza di previsioni dei contratti collettivi - e comunque entro il 30 giugno 2024 - per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti (nuova lettera b) art. 19, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015); - per esigenze di natura sostitutiva, come peraltro è sempre stato (nuova lettera b-bis) art. 19, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015). Si tratta, come detto, di un’apertura verso quella maggiore flessibilità che non solo è necessaria - specie in periodi turbolenti come quello che stiamo vivendo anche dopo la pandemia - ma è ormai fisiologica per garantire un modo di fare impresa che possa essere coerente con le oscillazioni cicliche dell’economia. E questo deve poter avvenire senza demonizzare i contratti di natura flessibile, come il contratto a tempo determinato o la somministrazione di lavoro a termine, molto spesso al contrario veicolo per la successiva stabilizzazione del lavoratore. Infatti, in periodo pandemico le necessità - di estrema flessibilità organizzativa - connesse all’emergenza sanitaria avevano indotto ad inserire nel testo dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015 una nuova ipotesi di causale, oltre a quelle di cui al decreto Dignità, così consentendo il superamento dei 12 mesi di durata per specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all'art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015. Previsione, quest’ultima, consentita a decorrere dal 25 luglio 2021, ma per effetto di diverse proroghe con valenza fino al 30 settembre 2022 (art. 41-bis del D.L. n. 73/2021, convertito in legge n. 106/2021 - decreto Sostegni bis). Dopo il 30 settembre 2022 la possibilità del ricorso al contratto a tempo determinato per durate superiori ai 12 mesi era tornata ad essere facoltizzata dalle sole esigenze definite alle lett. a) e b) del citato comma 1 dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015, come introdotte dal decreto Dignità. Il D.L. n. 48/2023 interviene proprio sulla possibilità di garantire continuità a questa importante funzione dei contratti collettivi. Di fatto, resterà libera - come già oggi del resto - la stipulazione dei contratti a termine e di somministrazione a termine senza obbligo di causali fino a 12 mesi di durata del contratto, mentre per quelli di durata superiore - anche per effetto di proroghe e rinnovi, salvi i casi di sostituzione di personale e contratti stagionali come già era prima - occorrerà obbligatoriamente inserire delle causali se ed in quanto previste dalla contrattazione collettiva anche di livello aziendale ovvero, in loro assenza - ed è qui la vera novità rispetto al decreto Dignità del 2018 - liberamente individuate pattiziamente dall’azienda e dai lavoratori in forza di “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”. Il tutto, però, in forza di una disciplina “temporanea” in vigore solo fino al 30 aprile 2024, che dovrebbe fungere da spartiacque per un ulteriore intervento normativo - si spera definitivo - di riassetto della disciplina. Sembra di essere tornati al “causalone” di cui al D.Lgs. n. 368/2001 ma, contemporaneamente, - ed è questa la novità rispetto a tale normativa - si restituisce anche alla contrattazione collettiva un ruolo rilevante nella scelta di quelle che sono le reali necessità dei diversi settori. Purché tale delega venga bene esercitata e raccolta dalle parti sociali (del che è lecito dubitare nell’attuale periodo storico). Ed in tal caso - cioè da subito in attesa che la contrattazione collettiva faccia semmai il proprio corso - saranno le parti (azienda e lavoratore) a poter liberamente prevedere ed inserire nei contratti le causali/esigenze che possano giustificare l’apposizione del termine al contratto. Quanto poi alla posizione delle parti - la vera novità del decreto - al di là della scelta lessicale di mettere sullo stesso piano le due parti del rapporto contrattuale di lavoro (lavoratore e datore di lavoro), appare chiaro che spetterà come sempre alle aziende individuare prima e inserire in contratto poi, le causali/esigenze che potranno giustificare l’assunzione a termine dei lavoratori oltre i 12 mesi di durata iniziale, lasciando così di fatto alle aziende l’importante e delicata responsabilità di individuare ipotesi di assunzione a termine che possano reggere poi al vaglio e alla verifica del Giudice del lavoro, in caso di possibile contenzioso. Contenzioso che reputo, per esperienza ormai consolidata in tanti anni, altamente probabile in ogni caso di cessazione di un rapporto a termine non seguita poi da una stabilizzazione. Diversamente da quanto avviene nella somministrazione a termine che, una volta cessata la missione, sconta il benefico e potenziale riavvio del lavoratore da parte della APL in missione presso altra azienda utilizzatrice. Vedremo se al fine di poter proseguire il rapporto a termine oltre i “primi” 12 mesi di durata, le aziende si cimenteranno concretamente nel compito di individuare le causali/esigenze da inserire nei contratti ovvero se tale meccanismo non finirà, scoraggiandole, col provocare anch’esso come per il decreto Dignità un involontario turn over di personale allo scadere dei primi 12 mesi di contratto e la stipulazione di contratti con sempre nuovo e differente personale. Resta, tuttavia, che le esigenze di flessibilità delle imprese permangono sempre, a prescindere dalle norme che cercano, senza fortuna, di trasformarle in necessità strutturali. Copyright © - Riproduzione riservata

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/quotidiano/2023/06/03/contratto-tempo-determinato-decreto-lavoro-apre-reale-flessibilita

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