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Contratti di prossimità: perché le imprese non possono (devono) farne a meno

Chi si occupa di amministrazione del personale non può sottovalutare la centralità della contrattazione di secondo livello. I contratti di prossimità assicurano, infatti, la “qualità” dei contratti di lavoro, l'adozione di forme concertate di partecipazione dei lavoratori, l’emersione del lavoro irregolare, politiche retributive incentivanti e una efficiente gestione delle crisi aziendali e occupazionali. Meraviglia allora che questi contratti non vengano utilizzati uniformemente in tutto il territorio nazionale e sia dalle piccole che dalle medie e grandi imprese. E’ solo una delle zone d’ombra che emergono dal primo rapporto sulla contrattazione di secondo livello della CGIL. Qual è l'obiettivo per il futuro?

Il monitoraggio dei contratti di prossimità o di secondo livello consente di misurare l’effettiva capacità, attraverso le relazioni industriali, di ammodernare la contrattazione collettiva per contribuire alla crescita dei salari, al miglioramento della competitività attraverso l’incremento della produttività delle imprese. E in tale ottica, l’accordo confederale del 2018 tra Confindustria e CGIL, CISL, UIL ne rappresenta il congegno concreto avendo come obiettivo (tra gli altri) il rafforzamento dell’occupabilità delle lavoratrici e dei lavoratori e la creazione di posti di lavoro qualificati.

Nell’accordo confederale sono ben chiarite …”le linee guida di una riforma dei contenuti e delle modalità delle relazioni industriali e degli assetti della contrattazione collettiva, per definire principi di indirizzo su alcune questioni di comune interesse, che è volontà condivisa mettere al centro del prosieguo del confronto, al fine di addivenire a ulteriori concrete intese”.

La CGIL nazionale ha pubblicato recentemente il primo rapporto sulla contrattazione di secondo livello (gennaio 2019) in concomitanza con quello del CNEL, organo di rilievo costituzionale. Enti di ricerca pubblici (INAPP e ANPAL) e privati (Adapt) hanno anch’essi avviato una propria attività di monitoraggio, come pure alcuni dipartimenti universitari, nelle facoltà di diritto di Bari o Brescia, per citarne solo alcuni.

Anche le parti sociali si sono dotate di propri osservatori e archivi, a livello nazionale confederale, su cui spicca da qualche anno il lavoro svolto per la CISL dall’OCSEL, quello della UIL. Ricordiamo inoltre che sono attivi osservatori regionali in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna.

Il “secondo livello” tratta il lavoro nella sua concreta condizione, di come viene organizzato, delle condizioni nelle quali si svolge, di quanto viene valorizzato e remunerato. Il “secondo livello” è quello nel quale la dignità del lavoro e delle persone assume connotati sempre più soggettivi ed è, dunque, il terreno sul quale il sindacato è chiamato a costruire i nessi di coerenza tra le tutele generali acquisite dalla contrattazione collettiva e la storia quotidiana delle donne e degli uomini vissuta sul luogo del lavoro.

Chi si occupa di organizzazione del lavoro, se pienamente consapevole della propria funzione, non può considerare la contrattazione di secondo livello un optional, ma il vero cuore della propria missione.

I contratti di prossimità sono previsti dall'articolo 8 della legge n. 148/2011. Si tratta di contratti aziendali finalizzati alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività. Con essi è prevista la possibilità di derogare a disposizioni di legge o a regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro per determinate materie.

Sono quindi le relazioni adattive di prossimità lo strumento con cui le parti possono condividere gli obiettivi aziendali, organizzare insieme la vera formazione per migliorare continuamente abilità e competenze, aggiustare le tipologie contrattuali in relazione alle concrete circostanze produttive, definire le modalità di lavoro agile, garantire la migliore resa delle nuove tecnologie, distribuire i risultati attraverso incrementi retributivi o benefit flessibilmente tarati sui bisogni dei singoli lavoratori e dei loro nuclei familiari.

In tutti i Paesi europei questa è la tendenza delle relazioni industriali. L’Italia ha una legislazione di sostegno ai contratti di prossimità dal 2011, consolidata poi dall’articolo 51 del decreto 81 del 2015.

Il report di gennaio 2019 della CGIL considera un ciclo temporale di tre anni compreso tra il 2015 e il 2017, sulla base dell’anno di stipula del contratto.

Rispetto alla dimensione geografica, le regioni del Nord sono le più prolifiche dal punto di vista contrattuale: in particolare spiccano Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte; segue il centro trascinato da Toscana e Lazio e infine il Sud il cui apporto è nel complesso più limitato.

Consistente la presenza di aziende “multiterritoriali”, ovvero attive in più regioni o sul piano nazionale.

Il Rapporto si concentra sulle 11 aree tematiche principali e sui relativi istituti e norme specifiche.

In generale l’area più ricorrente è quella del trattamento economico, con particolare riferimento all’istituto del premio di risultato (Pdr), con la possibilità di detassare l’importo erogato grazie alla legge di Stabilità 2016 e alle successive leggi finanziarie. Di fatto oltre tre quarti degli accordi sul premio analizzati contiene un riferimento alla detassazione. Ma con evidenti differenze qualitative e quantitative. Il premio di risultato è presente più diffusamente negli accordi delle imprese del Nord, in quelle manifatturiere e in quelle di più grandi dimensioni. L’entità media del premio massimo erogabile – per gli accordi analizzati si attesta intorno ai 1.400 euro – mostra ugualmente differenze territoriali, dimensionali e di settore – a vantaggio di imprese multiterritoriali, più grandi e del terziario. Con questo si intreccia la diversa articolazione dei criteri per la determinazione degli obiettivi da conseguire: di fatto la leva principale sembra essere quella dei parametri improntati a redditività, produttività e presenza, mentre più limitati sono fattori quali la partecipazione dei lavoratori, l’efficienza e l’innovazione.

La tendenza alla differenziazione degli approcci si ripropone anche nella possibilità di convertire il premio in welfare, che in alcuni casi (specie nelle grandi aziende) si realizza in un’ampia scelta di beni, servizi e prestazioni, ma nella maggioranza dei casi si concentra su “equivalenti” salariali (buoni acquisto, “carrelli della spesa”).

L’implementazione del Pdr si lega spesso al welfare integrativo, ovvero declinato come welfare aziendale e welfare di natura contrattuale (+ 4,4% nel corso degli anni fino a coinvolgere oltre un quarto degli accordi nel 2017).

Nel complesso, il welfare della contrattazione ha un profilo multidimensionale e appare: per alcuni aspetti associato alle norme sulla detassazione del premio di risultato, ma anche erogato in continuità con specifiche “tradizioni” aziendali o grazie alle prestazioni offerte dalla bilateralità; diseguale nella sua diffusione (sia in quantità sia in qualità, specie in relazione alla dimensione dell’impresa); differenziato nelle funzioni che assolve (input nel benessere organizzativo e dei lavoratori, o fattore puramente “parasalariale”); associato o meno a un “ambiente contrattuale” coerente con le affermazioni di principio che di solito ne accompagnano l’introduzione (ad esempio legandosi – o meno – a interventi di innovazione organizzativa, a misure di conciliazione vita-lavoro e a norme migliorative della disciplina di permessi, congedi e aspettative). Non risultano esperienze di integrazione con il welfare pubblico, o in generale di orientamento dell’offerta, se non nella possibilità di integrare mediante la dote di welfare i versamenti ai fondi previdenziali contrattuali.

Dal rapporto emerge più urgente l’obiettivo generalizzato della conciliazione dei tempi, in particolar modo a fronte della presenza femminile e, in ogni caso, quale condizione per favorire l’occupazione femminile. Il Rapporto, a questo proposito, offre alla riflessione alcune esperienze che se, da un lato, evidenziano i limiti ancora presenti, dall’altro dimostrano che è possibile ottenere risultati significativi.

L’obiettivo principale- a parer di chi scrive- deve essere una prassi consolidata di socializzazione e diffusione degli accordi perché la resistenza alla socializzazione che traspare negli accordi siglati è la dimostrazione di una certa mancata vocazione alla collegialità del lavoro, al suo carattere intercategoriale, intersindacale, interistituzionale. La socializzazione delle esperienze e dei risultati acquisiti attraverso questi accordi rappresenta una preziosa condizione per una crescita collettiva di interi gruppi dirigenti nell’esercitare con equilibrio la funzione maggiore, nel coordinamento e nell’indirizzo generale poiché Il T.U. del 2014 e l’accordo interconfederale del marzo 2018 ne sono un’attestazione.

È ad ogni modo evidente che, ancora oggi, permangono delle "zone d'ombra". Il rapporto individua una profonda frattura - soprattutto a livello territoriale (Nord, Centro e Sud) e di dimensioni d'impresa - per quel che riguarda la distribuzione dei contratti di prossimità. L'obiettivo più importante per il futuro resta quindi quello di promuovere la contrattazione decentrata nelle micro, piccole e medie imprese - contesto in cui il dialogo tra le parti sociali è spesso più complesso o, in taluni casi, assente - con particolare attenzione alle realtà del Centro e del Sud Italia.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/contrattazione-collettiva/quotidiano/2019/03/02/contratti-prossimita-imprese-non-possono-devono-farne

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