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Licenziamenti illegittimi del disabile: quando scatta la reintegrazione nel posto di lavoro

Nell’ambito del sistema delle tutele crescenti permangono specifiche ipotesi di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato. Una di queste riguarda i dipendenti portatori di handicap. In tal caso la disciplina reintegratoria trova applicazione quando risulta non dimostrata la m otivazione addotta dal datore di lavoro circa l’impossibilità di mantenere in forza il lavoratore perché divenuto inidoneo (o maggiormente inidoneo) allo svolgimento dell’attività affidata o alla prestazione di lavoro notturno. Quali maggiori tutele può vantare il disabile in caso di licenziamento? E cosa succede se l’azienda non lo reintegra?

Il dibattito relativo all’indennità risarcitoria prevista in caso di licenziamento illegittimo dovuto a giusta causa, giustificato motivo oggettivo o soggettivo, susseguente alla sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale (che ha dichiarato incostituzionale l’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23/2015 nella parte in cui correla l’indennità al solo requisito, seppur importante, dell’anzianità aziendale) non può far dimenticare che, sia pure in modo ridotto rispetto all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970), all’interno dell’art. 2, siano presenti specifiche ipotesi di reintegra. Una di queste riguarda i dipendenti portatori di handicap.

Ma, cosa afferma la disposizione appena richiamata?

La disciplina reintegratoria totale trova applicazione nelle ipotesi in cui, in giudizio, anche attraverso accertamenti affidati a consulenti di ufficio, venga accertato che la motivazione addotta dal datore di lavoro circa l’impossibilità di mantenere l’occupazione in favore di un lavoratore divenuto inidoneo (o maggiormente inidoneo) allo svolgimento dell’attività, risulta non dimostrata. Il Legislatore delegato fa riferimento ad una casistica che comprende, esplicitamente, gli articoli 4, comma 4 e 10, comma 3 della legge n. 68/1999 ma che, attraverso la parola “anche”, sottintende altre ipotesi che fanno, senz’altro riferimento all’art. 42 del D. Lgs. n. 81/2008 (inidoneità alla mansione specifica) ed alla inidoneità alla prestazione di lavoro notturno, secondo la previsione contenuta nel D. Lgs. n. 66/2003.

Per quel che concerne i casi richiamati dalla legge n. 68/1999 ricordo che l’art. 4, comma 4, si occupa dei dipendenti divenuti inabili, in conseguenza di un infortunio od una malattia, con una riduzione della capacità lavorativa pari o superiore al 60%: costoro, in caso di destinazione a mansioni inferiori, hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza, con il mantenimento di eventuali indennità, a differenza della previsione contenuta, in via generale, nell’art. 2103 c. c., comma 5.

Il recesso appare possibile soltanto se non vi sia la possibilità di assegnazione a mansioni equivalenti od inferiori.

L’art. 10, comma 3, concerne l’ipotesi dell’aggravamento dello stato di salute o di significative variazioni alla organizzazione del lavoro intervenute. La disposizione prevede accertamenti sanitari da parte degli organi competenti cosa che non comporta, in alcun modo, la risoluzione del rapporto che, invece, può intervenire allorquando venga accertato che, pur attuando specifici adattamenti nell’organizzazione del lavoro, non è possibile una occupazione proficua. Di recente, la Cassazione ha riconosciuto la legittimità del licenziamento nella ipotesi in cui “lo specifico adattamento nella organizzazione del lavoro” comporti significativi cambiamenti di orario nelle prestazioni svolte da altri dipendenti interessati.

Per completezza di informazione ricordo anche la previsione del comma 4 dell’art. 10: il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo (siamo, peraltro, al di fuori delle ipotesi appena trattate) è annullabile qualora, al momento della cessazione del rapporto, il numero dei restanti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista dall’art. 3 della legge n. 68/1999.

Passo, ora, ad esaminare un’altra ipotesi contenuta nel D. Lgs. n. 81/2008.

La previsione dell’art. 42 trae origine dalle visite mediche obbligatorie del medico competente che abbiano accertato una inidoneità totale (o parziale) del lavoratore alla mansione svolta (art. 41, comma 6). Ebbene, il datore di lavoro è obbligato ad attuare le misure indicate dal medico competente finalizzate anche alla adibizione del lavoratore a mansioni equivalenti od inferiori con la garanzia del trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza: se non ci riesce, pur avendo esaminato varie nuove ipotesi organizzative, può procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fornendo la prova dell’avvenuto tentativo di repechage.

L’ultima ipotesi richiamata riguarda il lavoro notturno che i dipendenti, fatte le eccezioni espressamente previste dalla legge, sono tenuti a prestare a meno che non ne sia stata accertata l’inidoneità attraverso le strutture sanitarie pubbliche. In presenza di apposita certificazione che la certifichi, il datore di lavoro può trasferire il dipendente al lavoro diurno, sempre che sia disponibile un posto per mansioni equivalenti (art. 15, comma 1, del D. Lgs. n. 66/2003). Se ciò non è possibile e se la contrattazione collettiva (art. 15, comma 2) non ha individuato soluzioni alternative al recesso, il rapporto può essere risolto per giustificato motivo oggettivo.

Ma, oltre alla reintegra, cosa spetta al lavoratore portatore di handicap?

Il giudice dispone un risarcimento del danno non inferiore alle 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto che comprende il periodo intercorrente tra la data del licenziamento ed il giorno della effettiva reintegra, dedotto soltanto l’eventuale “aliunde perceptum” per altra attività, nel frattempo, svolta, (a mio avviso, ci rientra anche il trattamento di NASpI), con il pagamento per il medesimo periodo dei contributi previdenziali ed assicurativi.

Il rapporto di lavoro si intende risolto se il lavoratore non riprende servizio nei 30 giorni successivi all’invito del datore di lavoro a meno che non sia stato esercitato il diritto all’”opting out”. Tale diritto si sostanzia nella facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione, una indennità pari a quindici mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto: la richiesta determina la risoluzione del rapporto e la somma non viene assoggettata ad alcun contributo previdenziale. Dal giorno della richiesta, economica, sostitutiva della reintegra, non matura più l’indennità risarcitoria. La richiesta va presentata entro il termine perentorio di 30 giorni dal deposito della pronuncia giudiziale o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione del deposito.

La perentorietà del termine sta a significare che, se l’”opting out” non viene esercitato entro il periodo considerato dalla legge, esso decade.

Ma cosa si intende per ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto?

Qui, l’ovvia correlazione è rappresentata da ciò che afferma l’art. 2120 c.c. il quale stabilisce che nella retribuzione da accantonare annualmente vanno computate tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, comprese quelle in natura ed escluse quelle che trovano la loro ragione nel rimborso spese.

Quindi, retribuzione mensile oltre al rateo delle mensilità aggiuntive ed ai “elementi non occasionali”.

Una breve riflessione va riservata agli elementi non occasionali della retribuzione utili ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto: vanno computati quelli collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione (Cass., 19 febbraio 2009; Cass., 3 novembre 2008, n. 11002) o in dipendenza con le mansioni stabilmente svolte (Cass., 14 giugno 2005, n. 24875). Da ciò discende che ai fini del calcolo è sufficiente che il lavoratore ne abbia goduto in via normale, pur non essendo lo stesso definitivo. Vanno esclusi soltanto gli elementi sporadici ed occasionali, collegati a situazioni aziendali fortuite ed imprevedibili. Per i beni in natura (ad esempio, l’alloggio) occorre fare riferimento al valore normale del bene e non all’eventuale valore convenzionale fissato ai fini fiscali o contributivi.

A mero titolo esemplificativo e non esaustivo, si riportano alcune voci relative alla computabilità:

a) lavoro straordinario: ci rientra se prestato con frequenza in relazione alla particolare organizzazione del lavoro o, anche, allorquando viene forfetizzato;

b) indennità per lavoro notturno, festivo o a turni: ci rientra se essa è espressione della normale programmazione aziendale;

c) alloggio: ci rientra se c’è una effettiva connessione tra l’attribuzione e la posizione lavorativa (Cass., 12 aprile 1995, n. 4197);

d) premi di fedeltà: ci rientrano se la liberalità originaria si è trasformata in un vincolo obbligatorio (Cass., 29 febbraio 2008, n. 5427);

e) indennità di trasferta: ci rientra se costituisce una stabile componente della retribuzione (Cass., 24 febbraio 1993, n. 2255);

f) indennità per i trasfertisti: ci rientra se il disagio derivante dall’attività fuori sede viene retribuito in modo strutturale come voce della retribuzione ordinaria (Cass., 20 dicembre 2005, n. 28162);

g) indennità per lavoratori impegnati all’estero: ci rientrano in quanto viene compensata la maggiore gravosità ed il disagio ambientale (Cass., 19 febbraio 2004, n. 3278);

h) indennità di cassa se corrisposta in maniera continuativa (Cass., 7 giugno 1968 n. 1739);

i) indennità di cuffia (Cass., 10 maggio 1980, n. 3089);

l) indennità sostitutiva del preavviso pur non essendo il corrispettivo di una prestazione di lavoro (Cass., 22 febbraio 1993, n. 2114).

Riprendendo la domanda sul significato di ultima retribuzione di riferimento utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto, ritengo che la risposta non possa che far riferimento alla retribuzione annuale accantonata per il calcolo del TFR (comprensiva dei ratei delle mensilità aggiuntive), divisa per i mesi dell’anno, senza alcun reale riferimento alla retribuzione dell’ultimo mese sulla quale, in alcune realtà aziendali che hanno punte stagionali o attività caratterizzate da saltuarietà, potrebbero interferire elementi transitori.

Oltre al pagamento delle retribuzioni il lavoratore può chiedere un risarcimento del danno, attivabile con un’azione giudiziaria diversa, in quanto si ritiene leso nella propria professionalità.

Non è possibile, invece, alcuna forma di esecuzione specifica, atteso che la Cassazione, con sentenza n. 9965 del 18 giugno 2012 ha affermato che “l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato non è suscettibile di esecuzione specifica, in quanto l’esecuzione in forma specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile, mentre la reintegrazione nel posto di lavoro comporta non soltanto la riammissione del lavoratore nell’azienda (e cioè un comportamento riconducibile ad un semplice “pati”) ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo – funzionale, consistente, fra l’altro, nell’impartire al dipendente le opportune direttive, nell’ambito di una reciproca ed infungibile collaborazione, secondo gli orientamenti già espressi dalla Suprema Corte nelle sentenze n. 9125/1990 e n. 112/1988”.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/04/03/licenziamenti-illegittimi-disabile-scatta-reintegrazione-posto-lavoro

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