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Licenziamenti collettivi illegittimi: quando e a cosa deve fare attenzione il datore di lavoro

Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 il datore di lavoro non può più pre “quantificare” il costo del licenziamento (anche se collettivo) in caso di dichiarazione di illegittimità perché, caduto il criterio unico legato all’anzianità aziendale, il giudice può discrezionalmente deciderne l’importo, considerando altri fattori e avendo come limite massimo solo il tetto delle 36 mensilità. Unica eccezione il lavoratore disabile, assunto con contratto a tutele crescenti e avviato obbligatoriamente (o riconosciuto portatore di handicap durante il rapporto di lavoro) con una invalidità pari o superiore al 60% delle proprie capacità. Quali sono gli effetti della sentenza della Consulta sui licenziamenti collettivi?

La sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23/2015 laddove collega l’indennità risarcitoria per un licenziamento illegittimo avvenuto per giusta causa, giustificato motivo soggettivo od oggettivo al solo requisito dell’anzianità aziendale, estende i propri effetti anche ai licenziamenti collettivi dei lavoratori assunti con “le tutele crescenti”.

Infatti, con poche righe contenute nell’art. 10 il Legislatore allarga la disciplina prevista per i licenziamenti individuali per motivi economici a quelli collettivi che sono sempre motivati da ragioni economiche, atteso che, secondo la procedura individuata dagli articoli 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991, traggono la propria origine da situazioni di crisi, di ridimensionamento o da processi di ristrutturazione o di riorganizzazione.

Vediamo, in che modo, la sentenza della Consulta impatta sulle disposizioni appena richiamate.

In caso di licenziamento effettuato al termine della procedura senza l’osservanza della forma scritta (ed in questo caso non c’è alcuna novità), il regime sanzionatorio applicabile è quello dell’art. 2: reintegra; indennità risarcitoria calcolata sulla retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione, dedotto l’eventuale ”aliunde perceptum” ed, in ogni caso, non inferiore a 5 mensilità; pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per l’intero periodo; possibilità per il solo lavoratore di optare, entro trenta giorni dalla sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se precedente, per una indennità risarcitoria pari a quindici mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del computo del TFR.

Se, invece, il licenziamento è affetto da vizi procedurali (il richiamo è al comma 12 dell’art. 4 della legge n. 223/1991) o la scelta del lavoratore risulta errata in base ai criteri di scelta previsti dall’accordo sindacale o dalla legge (art. 5, comma 1), trova applicazione quanto previsto dall’art. 3, comma 1, come rivisto dalla sentenza della Consulta: estinzione del rapporto alla data del licenziamento; indennità risarcitoria, non assoggettata a contribuzione, pari a due mesi per ogni anno di servizio, con una base di partenza di sei e, comunque, con un tetto massimo fissato a 36 mensilità, secondo quanto previsto dal D.L. n. 87/2018 all’art. 3, comma 1-bis. Tale criterio, seppur importante, osserva la Corte, non può essere esaustivo ed il giudice di merito lo può integrare, con motivazione con quelli già individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti dell’azienda, contesto socio-economico, comportamento tenuto dalle parti).

La conseguenza di tale pronuncia è una soltanto: non c’è più per il datore di lavoro la possibilità di “quantificare” il costo del licenziamento in caso di dichiarazione di illegittimità, potendo il giudice integrare la “somma certa” legata alla anzianità aziendale con quella ulteriore scaturente dalle altre voci appena richiamate, avendo quale limite massimo il solo tetto delle 36 mensilità.

Rispetto a quanto appena detto c’è una piccola, possibile, eccezione che riguarda un lavoratore “neo assunto” disabile avviato obbligatoriamente o riconosciuto quale portatore di handicap durante il rapporto di lavoro con una invalidità pari o superiore al 60% delle proprie capacità L’art. 10, comma 4, della legge n. 68/1999 afferma, infatti, che è annullabile il licenziamento adottato al termine di una procedura collettiva di riduzione di personale se lo stesso va ad intaccare la quota di riserva obbligatoria prevista dall’art. 3 della predetta legge e composta dal numero dei rimanenti disabili in forza.

Per i “vecchi assunti” nulla cambia relativamente alle sanzioni correlate alle violazioni dei criteri che possono così essere riassunte:

Mancanza della forma scritta

Reintegrazione oltre ad una indennità risarcitoria, non inferiore a cinque mensilità, commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegra, dedotto quanto eventualmente percepito con altra attività lavorativa, ed il pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. Il lavoratore, in luogo della reintegra, può optare, entro trenta giorni dalla comunicazione della sentenza o, se antecedente, dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, per una ulteriore indennità sostitutiva, non soggetta ad alcuna contribuzione, pari a quindici mensilità sempre calcolate sull’ultima retribuzione globale di fatto.

Inosservanza di comunicazione preventiva dell’intenzione di ridurre il personale, di consultazione sindacale e di comunicazione dell’elenco dei lavoratori licenziati

Risoluzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento, con la corresponsione di una indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Il giudice, con motivazione, tiene conto dell’anzianità di servizio (criterio preponderante) e del numero degli occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, delle iniziative assunte dal lavoratore finalizzate alla ricerca di una nuova occupazione e del comportamento complessivo delle parti nell’ambito della procedura.

Violazione dei criteri di scelta (art. 5, comma 1, della legge n. 223/1991)

Reintegra nel posto di lavoro oltre ad una indennità risarcitoria commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegra (ma, in ogni caso, non superiore a dodici mensilità), dedotto quanto percepito in altra attività svolta durante il periodo di estromissione ma, dedotto anche quanto avrebbe potuto percepire cercando con diligenza una nuova occupazione. In alternativa alla reintegra, anche in questo caso il lavoratore può optare, negli stessi termini sopra evidenziati, per una indennità sostitutiva pari a quindici mensilità. Per i dirigenti, ai quali dall’ottobre del 2014 trova applicazione la procedura in caso di licenziamenti collettivi, la violazione dei criteri di scelta è punita, secondo la previsione contenuta nell’art. 16 della legge n. 161/2014, con una indennità risarcitoria (ritoccabile “in alto” o “in basso” dalla contrattazione collettiva) compresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Alcune considerazioni si rendono, a mio avviso, necessarie.

La prima è che la disposizione contenuta nel comma 1 dell’art. 3, pur nella lettura susseguente alla sentenza della Corte Costituzionale, appare conforme ai principi ispiratori della delega, atteso che nella stessa si parla al plurale di indennità per i licenziamenti determinati da motivi economici e quelli collettivi, traendo origine da situazioni di crisi o di disagio strutturale o di mercato dell’impresa, sono “veramente” economici.

La seconda è che il Legislatore delegato non è affatto intervenuto sulla procedura collettiva di riduzione di personale che resta del tutto invariata (pur se il ticket di ingresso alla NASpI risulta raddoppiato a partire dal 2018 ed è, comunque, correlato al fatto che si raggiunga o meno l’accordo al termine della stessa – una o tre volte per ogni lavoratore interessato-), sia per i contenuti che per i soggetti titolari, che per i tempi relativi alle varie fasi di incontro e di discussione tra le parti (da ultimo, come accennato, di passaggio, in precedenza, ricordo che per effetto dell’art. 16 della legge n. 161/2014 anche il personale con qualifica dirigenziale entra nella base di calcolo per la individuazione dei limiti dimensionali per attivare la procedura che, se riguarda anche i dirigenti, deve vedere coinvolta anche l’associazione sindacale che li rappresenta). Il D. Lgs. n. 23/2015 è intervenuto sulle conseguenze delle violazioni a procedura conclusa, stabilendo, come nel caso dei licenziamenti individuali, una reintegra con l’indennità risarcitoria laddove il recesso collettivo ha le caratteristiche della discriminazione (licenziamento dei lavoratori disabili e delle donne in spregio alle percentuali legali) e negli altri casi un indennizzo monetario (ora, possibile di notevole aumento) in presenza di un mero vizio procedurale o riferito ai criteri di scelta.

La terza considerazione riguarda la compresenza nel medio – lungo periodo di modalità risolutive delle controversie legate alla violazione dei criteri di scelta che sono diverse: in alcune situazioni si possono ravvisare forti difficoltà applicative soprattutto, laddove, anche per inasprimenti delle posizioni sindacali, si arrivi ad un mancato accordo al termine della procedura che, è bene ricordarlo, “sponsorizza” l’accordo sindacale il quale, nella sostanza, la valida e la conferma sia sul piano formale che su quello sostanziale (si pensi, ai criteri di scelta che prevalgono su quelli legali, all’aumento degli importi da pagare per il c.d. ticket di ingresso alla NASpI (da una a tre volte a seconda che sia stato raggiunto o meno l’accordo sindacale, come previsto dall’art. 2, comma 35 della legge n. 92/2012, con raddoppio, a partire dal 1° gennaio 2018 dell’importo base – 500,79 euro ogni dodici mesi di anzianità - dovuto per i licenziamenti individuali).

La quarta considerazione è, forse, secondaria ma va esplicitata e riguarda la differenza riguardo al numero delle mensilità riconosciute ad un dirigente (in virtù dell’art. 16 della legge n. 161/2014) e di un lavoratore assunto in vigenza delle nuove norme: il primo, anche se assunto da poco, può ottenere una indennità risarcitoria (ovviamente, basata sulla sua retribuzione) compresa tra il minimo (dodici mesi) ed il massimo (ventiquattro mesi), il secondo, una indennità pari a due mensilità per ogni anno di servizio (con una base di partenza di sei) fino a trentasei, rispetto alle quali, ora, il giudice ha il potere di fissare importi ben superiori a quelli derivanti dalla mera anzianità aziendale.

La quinta considerazione concerne le comunicazioni che, entro i sette giorni dalla conclusione della procedura (art. 4, comma 9, della legge n. 223/1991) i datori di lavoro debbono effettuare sia alle organizzazioni sindacali che alla Agenzia Regionale che alla commissione tripartita con la specifica dei criteri di scelta seguiti per la individuazione dei lavoratori eccedentari. Se tale onere, che riguarda i licenziamenti collettivi sia dei vecchi assunti che dei nuovi, ha un significato verso le organizzazioni sindacali (come forma di tutela delle regole seguite), forse, oggi, con la fine della mobilità a partire dal 1° gennaio 2017, non ha più senso verso gli organi amministrativi della Regione, atteso che gli stessi non hanno più l’incombenza di procedere alla iscrizione nelle liste di mobilità. Il Legislatore, prevedendo con la legge n. 92/2012 una serie di abrogazioni, ha lasciato inalterato l’art. 4, comma 9: di conseguenza i datori di lavoro, a mio avviso, dovranno continuare a “notiziare” anche tali strutture (pena eventuali vizi che potrebbero inficiare l’iter), pur se ciò sembra restare un inutile orpello burocratico.

Da ultimo due parole, per quegli accordi aziendali che hanno riconosciuto le tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300/1970 anche ai lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015: essi, nati sul presupposto della vecchia disposizione, conservano la propria validità essendo il loro contenuto “ben più tutelante” per i dipendenti rispetto a quello, seppur profondamente rivisto dalla Corte Costituzionale, ipotizzato dal D. Lgs. 23/2015.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/rapporto-di-lavoro/quotidiano/2019/04/09/licenziamenti-collettivi-illegittimi-attenzione-datore-lavoro

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