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Licenziamenti: offerta di conciliazione anche per il lavoro in nero?

L’offerta di conciliazione del datore di lavoro sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa, intimati ai lavoratori assunti con le “tutele crescenti”, oltre ad essere stata depotenziata ad opera della sentenza della Consulta n. 194/2018, presenta alcune questioni pratiche ancora aperte. Una tra tutte: l’azienda, nel definire la somma da proporre al dipendente per la conciliazione può tenere conto anche dei periodi di attività svolta in nero prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro? Inoltre, una conciliazione che copra anche periodi in nero “assolve” il datore di lavoro dal recupero dei contributi dall’irrogazione delle sanzioni?

La sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018, pur non essendosi direttamente interessata di quanto previsto dall’art. 6 in tema di conciliazione facoltativa sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa intimati ai lavoratori ai quali si applicano le “tutele crescenti”, ha inciso, indirettamente, sulla stessa in quanto la “nuova lettura” dell’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23/2015 rischia di far perdere molto “appeal” all’accordo concernente i datori di lavoro ed i lavoratori dipendenti da imprese dimensionate oltre le 15 unità.

La Consulta ha, infatti, affermato che la disposizione contenuta nel predetto comma 1 che lega l’indennità risarcitoria al solo requisito, seppur importante, della anzianità aziendale risulta inadeguato a fronte di situazioni differenti e, nella sostanza, rimette il giudice al centro della controversia dandogli la possibilità di integrare tale criterio con quelli individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti dell’impresa, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti): il tutto all’interno di un importo compreso tra le 6 e le 36 mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del TFR, secondo la nuova previsione contenuta nell’art. 3 del decreto Dignità (D. L. n. 87/2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 96).

Consulta il dossier Decreto Dignità

Ma, vediamo, ora, come si articola il tentativo di conciliazione facoltativo e perché la sentenza della Corte Costituzionale incide sul “gradimento” della stessa.

Il datore di lavoro, nei 60 giorni successivi al licenziamento, può, di propria iniziativa, offrire al lavoratore in una sede protetta (commissione provinciale di conciliazione – 410 cpc -, sede sindacale – 411 cpc -, organismi di certificazione – Enti bilaterali, Province, se costituite le commissioni, Ispettorati territoriali del Lavoro (che hanno ereditato, dal 1° gennaio 2017, le funzioni delle Direzioni territoriali del Lavoro, Ordini provinciali dei Consulenti del Lavoro – art. 82 del D. Lgs. n. 276/2003) una somma, esente da IRPEF e non assoggettata ad alcuna contribuzione previdenziale, pari ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto strettamente correlata ad ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 3 e non superiore a 27 (sono i nuovi valori previsti dal decreto Dignità per la conciliazione delle imprese con un organico di almeno 16 dipendenti, mentre quelle delle aziende minori sono pari alla metà, con un tetto massimo fissato a sei). Il tutto attraverso la consegna di un assegno circolare.

L’accettazione dell’assegno ha una duplice conseguenza: l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia a qualsiasi impugnativa, pur se già proposta.

Le somme ulteriori pattuite in sede conciliativa a chiusura di ogni possibile pendenza derivante dall’intercorso rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario.

La comunicazione di cessazione, che va spedita on-line al centro per l’impiego attraverso il sistema delle comunicazioni obbligatorie entro i 5 giorni successivi alla cessazione del rapporto, va integrata da una ulteriore comunicazione da inviare sempre allo stesso destinatario entro i 65 giorni successivi alla risoluzione del contratto ove va riportata l’avvenuta o non avvenuta conciliazione.

La mancata comunicazione, che si configura come un appesantimento burocratico di poca utilità per come è stato previsto, è sanzionata con un importo pecuniario compreso tra i 100 ed i 500 euro, onorabile nella misura minima attraverso l’istituto della diffida (art. 14 del D. Lgs. n. 124/2004).

La norma appena descritta sollecita alcune riflessioni.

L’offerta per la conciliazione, che va fatta, a mio avviso, per iscritto, entro il termine perentorio dei 60 giorni (ma l’eventuale accordo può ben “slittare” oltre per alcune considerazioni che effettuerò tra un attimo), è di natura facoltativa. Essa si presentava abbastanza favorevole pure per il lavoratore (ovviamente, con le disposizioni precedenti) prima della sentenza della Consulta, in quanto, anche in considerazione dell’abbattimento dell’IRPEF, poteva ottenere un importo notevolmente vicino a quello che avrebbe potuto ottenere in giudizio (vanno tenute presenti anche le spese legali).

Nelle aziende con oltre 15 dipendenti, non è più così in quanto mentre prima, applicando la “specifica contabilità” stabilita anche dall’art. 8, si sapeva “a priori” il costo del licenziamento in quanto strettamente correlato alla sola anzianità aziendale (e, quindi, la conciliazione ove si prendeva, subito, il 50% della somma dovuta esente da IRPEF e senza spese legali era, sostanzialmente conveniente per il lavoratore che, non andando in giudizio, non “scontava” i tempi di attesa della giustizia attivabile con il rito ordinario –art.11-), ora, invece, la pronuncia della Corte “spinge” il lavoratore al ricorso giudiziale potendo ben ottenere molto più di quanto esigibile con l’atto conciliativo (nella sostanza, da sei a trentasei mensilità). In sede conciliativa, il tetto massimo è rappresentato dalle ventisette mensilità ma, essendo correlato alla sola anzianità aziendale, il tetto massimo è raggiungibile dopo molti anni (una mensilità ogni dodici mesi).

Nelle imprese più piccole poco cambia in quanto il giudice, pur applicando, oltre a quello della anzianità aziendale, i criteri individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 ha, sempre un tetto massimo che non può superare e che resta fissato a sei mensilità.

Fatte queste brevi premesse, torno ad esaminare i vari passaggi dalla procedura conciliativa.

Pensando ad uno “standard” di comunicazione, si può ritenere che l’offerta contenga la cifra disponibile per la conciliazione sul licenziamento e non necessariamente già gli estremi dell’assegno circolare per il quale la norma prevede che sia l’unica modalità di pagamento. Al contempo, appare opportuno pensare che l’offerta datoriale possa essere accompagnata da un termine per l’eventuale accettazione: termine che può essere più o meno lungo entro il quale il lavoratore è chiamato ad aderire (ma la non adesione, perfettamente legittima, potrebbe anche essere tacita).

C’è, poi, un’altra questione da risolvere: l’offerta datoriale, nel silenzio della norma, può essere condizionata anche alla eventuale risoluzione delle pendenze di natura economica riferite all’intercorso rapporto di lavoro? La risposta è positiva, atteso che la stessa offerta di conciliazione è facoltativa e non sembrano emergere controindicazioni espresse.

La seconda riflessione riguarda le modalità dell’offerta del datore di lavoro. E’ soltanto lui che può rivolgersi ad una “sede di conciliazione protetta”, che garantisce la inoppugnabilità dell’accordo, entro i 60 giorni successivi al licenziamento, offrendo al lavoratore una cifra che è la stessa norma a specificare: una annualità (partendo da un minimo di tre, per scoraggiare le assunzioni “usa e getta”, magari incentivate), della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, fino ad un massimo di 27 (per le piccole imprese, le associazioni di tendenza ed i soggetti che non sono imprenditori gli importi sono ridotti della metà ed il tetto massimo è fissato a sei mensilità). L’importo riconosciuto non costituisce reddito IRPEF e sullo stesso non grava alcun onere previdenziale.

Da un punto di vista procedurale si può pensare che l’organo di conciliazione adito convochi le parti fissando il giorno e l’ora dell’incontro al quale le stesse (in particolar modo il lavoratore) possono essere assistite o rappresentate (secondo le usuali regole che disciplinano la delega) da soggetti esterni come rappresentanti di associazioni sindacali o professionisti (la disposizione non mette alcun divieto).

La discussione, alla quale il datore di lavoro si presenta con un assegno circolare con l’importo già prefissato, strettamente correlato all’anzianità di servizio potrebbe non essere del tutto semplice per alcune motivazioni riconducibili ad una serie di questioni:

a) Il conto relativo ai mesi di rapporto di lavoro è stato effettuato comprendendo anche un periodo di attività svolta in nero prima della instaurazione del rapporto di lavoro avvenuta con la comunicazione di assunzione inviata on–line al centro per l’impiego: è plausibile una conciliazione sul licenziamento, che riguardi tutto il rapporto? La risposta positiva si scontra con la circostanza che, ad esempio, l’annualità in nero (cosa molto frequente in alcuni contesti del nostro Paese soprattutto nelle aziende di piccole dimensioni) venga, indirettamente, coperta da uno sgravio IRPEF a carico della fiscalità pubblica. Da ciò si deduce che, anche per non incorrere in controlli “ex post” dell’Agenzia delle Entrate, la somma offerta non può che essere strettamente correlata alla durata del rapporto di lavoro risultante dalle comunicazioni obbligatorie;

b) Il ruolo dell’organo collegiale (commissione provinciale di conciliazione, organismo sindacale, commissione di certificazione) è, puramente, notarile, finalizzato a prendere atto dell’offerta datoriale che presuppone, a monte, un mero calcolo matematico delle annualità da corrispondere (come sembra apparire da una lettura della norma), oppure c’è un minimo di spazio per verificare l’essenza della conciliazione? Nulla ha detto, finora, il Ministero del Lavoro ma, a mio avviso, l’organo collegiale non potrà sottrarsi, quantomeno, ad una verifica degli importi che, quale base di calcolo, avranno la retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, ricordando al lavoratore che con la sottoscrizione dell’accordo e l’accettazione dell’assegno circolare, viene meno qualsiasi rivendicazione relativa alla impugnazione del licenziamento. Se gli importi non sono corretti l’organo collegiale di conciliazione lo deve esplicitare;

c) Il “quantum” dell’assegno circolare è, sostanzialmente, determinato dal Legislatore delegato: ma, cosa succede, se il datore di lavoro, anche per venire incontro ad alcune richieste “taciute” relative all’intercorso rapporto di lavoro o, anche, inserendo l’“anzianità convenzionale”, intendesse alzare la somma, lasciando, comunque, quale motivazione soltanto quella del licenziamento? A mio avviso, questo può accadere, ma la somma aggiuntiva non può essere esente da IRPEF, atteso che tale “bonomia” non può ricadere sulla fiscalità pubblica;

d) L’oggetto della convocazione ex art. 6 avanti all’organo collegiale ha, come motivazione soltanto quella della necessità di eliminare o ridurre il contenzioso giudiziale in materia di licenziamenti. Però, gli organi collegiali sopra indicati hanno la potestà di chiudere anche le eventuali controversie relative a rivendicazioni economiche: quindi l’accordo, magari “a latere” di quello principale, può riguardare anche gli aspetti economici. Per far ciò, tuttavia, occorre che il lavoratore abbia piena conoscenza di quanto gli viene offerto a tale titolo, che sappia della inoppugnabilità della transazione e che, soprattutto, se ha necessità di verificare i conteggi, gli venga concesso dall’organo collegiale un tempo tecnico di verifica che potrà fare, ad esempio, con la propria organizzazione sindacale. Il Legislatore delegato, anche a scanso di ogni possibile equivoco, ha precisato che su queste somme non c’è l’esenzione IRPEF, ma si applica il normale regime fiscale;

e) Una conciliazione relativa alla “voce” licenziamento che copra anche periodi in nero, ha effetti anche sugli eventuali controlli degli organi di vigilanza? La risposta è negativa (anzi, aver “coperto” delle annualità in nero è una ammissione di colpa), atteso che, nei limiti della prescrizione, gli stessi possono procedere al recupero dei contributi ed alla irrogazione delle sanzioni per lavoro nero e per altre situazioni scaturenti dall’intercorso rapporto di lavoro, come affermato sia dalla Cassazione con le sentenze n.17485 del 28 luglio 2009 e n. 6663 del 9 maggio 2002 e dall’INPS con la circolare n. 263/1997. In particolare, la Suprema Corte con la prima delle decisioni sopra menzionate ha affermato che sulle somme corrisposte dal datore di lavoro a titolo di transazione, l’INPS è abilitato ad azionare il credito contributivo, nei limiti della prescrizione, provando, con qualsiasi mezzo, le eventuali somme corrisposte a tale titolo, assoggettabili a contribuzione;

f) Che valore possono assumere, ai fini del giudizio, il verbale di mancato accordo o, anche, il verbale di assenza per mancata presenza del lavoratore? Nessun valore è la risposta, atteso che la conciliazione è facoltativa e, stando al nuovo impianto normativo che traspare dal Decreto Legislativo, a meno che non ci si trovi in presenza di un licenziamento nullo, discriminatorio, inefficace o disciplinare per un fatto rilevatosi totalmente insussistente, il giudice di merito è tenuto a confermare il recesso al giorno della interruzione del rapporto, con la liquidazione dell’indennità risarcitoria secondo la previsione della sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale;

g) Può il lavoratore licenziato che ha sottoscritto la rinuncia al licenziamento, ottenere, ricorrendo le condizioni previste, il trattamento di NASpI? La risposta è positiva, in quanto il D. Lgs. n. 22/2015 prevede all’art. 3 che lo stesso spetti a chi ha perso involontariamente la propria occupazione (e tale è il caso in esame in quanto il licenziamento, a prescindere dalla successiva rinuncia ad impugnare, è sempre un atto unilaterale del datore), a chi si è dimesso per giusta causa ed a chi ha sottoscritto una risoluzione consensuale ex art. 7 della legge n. 604/1966. Il diritto alla NASpI è stato confermato dall’interpello n. 13/2015 del Ministero del Lavoro.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/04/11/licenziamenti-offerta-conciliazione-lavoro-nero

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