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Sanzioni disciplinari: quando e come il datore di lavoro deve applicarle

In merito alla fase finale del procedimento disciplinare, le generiche indicazioni dello Statuto dei lavoratori sollevano alcune questioni di ordine pratico. Facciamo un esempio. Per le sanzioni più gravi rispetto al rimprovero verbale, il datore di lavoro è tenuto ad irrogare il provvedimento disciplinare non prima che siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione (per iscritto) al lavoratore. La materiale esecuzione della sanzione, invece, può essere successiva: entro quali termini? La legge non lo prevede. Cosa è consigliabile che faccia il datore di lavoro?

Con il comma 5 dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970) si entra nella fase finale del procedimento disciplinare, ben definito dalla Cassazione come " fattispecie complessa integrata da più atti giuridici successivi..... posti in legale sequenza ".

La scarna dizione contenuta nella norma ha posto alcuni problemi che si possono così sintetizzare:

1) applicazione anticipata della sanzione;

2) termine entro cui il datore di lavoro può applicare la sanzione;

3) irrogazione della sanzione prima della scadenza del termine (venti giorni) utile per la richiesta del collegio di conciliazione ed arbitrato;

4) motivazione del provvedimento disciplinare;

5) nullità del provvedimento disciplinare per vizio procedurale e sua eventuale rinnovazione.

La disposizione stabilisce unicamente che le sanzioni più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicate prima che siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione per iscritto degli addebiti. E' appena il caso di ricordare come avendo quest'ultima natura recettizia il termine decorra dal momento in cui il dipendente ha avuto cognizione della volontà sanzionatoria del proprio datore. Recentemente, la Cassazione ha avuto modo di sottolineare come una eventuale consegna a mano del provvedimento, rifiutata dall’interessato, per essere valida, deve essere accompagnata dalla lettura della lettera di adozione (o, almeno, del tentativo) alla presenza di testimoni (Cass. 14 marzo 2019 n. 7306).

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In dottrina ed in giurisprudenza si è, da subito, fatta una chiara distinzione tra applicazione ed esecuzione della sanzione: per applicazione si intende la formale irrogazione del provvedimento e non la materiale esecuzione che può essere successiva.

La questione prospettata sub 1) riguarda l'eventuale possibilità che l'imprenditore, esaurita velocemente la fase del contraddittorio, proceda ad applicare la sanzione (il momento va, comunque, tenuto distinto da quello della materiale esecuzione) prima che sia scaduto il termine di 5 giorni. Il termine ha natura perentoria e deve essere considerato come un lasso di tempo tutto a disposizione del dipendente per produrre ed integrare per iscritto, od oralmente, le proprie giustificazioni.

II termine svolge anche un'altra funzione: assicura un periodo temporale necessario per far decantare la situazione e per far adottare una soluzione più meditata, non condizionata (per quanto possibile) dalla impulsività.

In giurisprudenza non si è avuto un atteggiamento uniforme, tanto è vero che è dovuta intervenire, in passato, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass. S.U., 26 aprile 1994, n. 3965) per dirimere il contrasto. Essa ha affermato che il termine di 5 giorni ha la funzione esclusiva di assicurare al lavoratore il tempo necessario per approntare la propria linea difensiva, per cui, ove ciò sia avvenuto, il provvedimento disciplinare può essere immediatamente adottato, senza che sia necessario attendere il decorso del tempo previsto dal comma 5.

Una questione che, talora, si presenta nel corso dell'esame degli atti relativi al provvedimento disciplinare, è rappresentato dalla circostanza che sovente, irrogando la sanzione, si adoperi un'espressione diversa (ma equivalente) rispetto a quella adoperata dal contratto collettivo.

E' stata invocata, chiedendo l'annullamento per vizio procedurale, la tipicità della sanzione: le decisioni arbitrali hanno ritenuto che tale principio non escluda che una sanzione prevista nel CCNL (ad esempio, biasimo scritto) possa essere legittimamente applicata da parte di un imprenditore che ha adottato una espressione lessicale diversa (ammonizione scritta, deplorazione, diffida), in quanto tipicità della sanzione non significa " carattere sacramentale " delle formule utilizzate per irrogarla, purchè sia stato rispettato I'iter procedurale di garanzia.

La risposta al secondo problema l'hanno, in parte, offerta alcuni contratti collettivi che hanno condizionato l'esercizio del potere dell'imprenditore ad un termine breve e perentorio (ad esempio, 5 o 6 giorni) dalla presentazione delle giustificazioni, pena l'accoglimento per "facta concludentia" delle stesse. La natura perentoria delle disposizioni contrattuali ha fatto sì che sia a livello di lodi arbitrali che di decisioni di diritto e di merito, i provvedimenti adottati oltre il termine perentorio previsto dal contratto collettivo ed impugnati fossero annullati per vizio procedurale. E' evidente come, qualora siano stati concessi al lavoratore "termini a difesa" più lunghi di quelli previsti dalla norma legislativa, il termine per l'applicazione della sanzione si sposti avanti per un uguale periodo.

Una carenza che si riscontra nel dettato normativo è che non è fissato alcun termine per l'esecuzione. Personalmente si ritiene che, una volta applicato il provvedimento, esso possa essere procrastinato "ad libitum": occorre far riferimento a regole di buon senso in quanto la sanzione non può rimanere sospesa come una " spada di Damocle "sulla testa del dipendente oltre un tempo ragionevole, comunque correlato alla struttura ed alle esigenze aziendali.

Il computo dei giorni richiesto dall'iter procedurale va fatto sui normali giorni di calendario e non tenendo conto dei soli giorni lavorativi, secondo le modalità fissate dall'art. 2963 c.c., per il quale non si conta il giorno iniziale e quello finale, se scadente in un giorno festivo, è prorogato al giorno seguente non festivo

Si pone, a questo punto, il problema relativo alla circostanza che, una volta completato l'iter disciplinare, il datore di lavoro possa procedere alla materiale esecuzione del provvedimento senza attendere il decorso dei 20 giorni concesso dalla norma per il ricorso al collegio di conciliazione ed arbitrato, cosa che ne provoca la temporanea sospensione.

Da più parti si è sostenuto che non si può mettere il lavoratore nelle condizioni di ricorrere con il provvedimento già scontato, in quanto se così fosse verrebbe palesemente violata la norma, con la conseguente insignificante funzionalità dell'effetto sospensivo; pertanto, il provvedimento così irrogato sarebbe affetto da nullità procedurale.

Per contro, la stessa Corte di Cassazione, già da tempo (Cass.; 19 ottobre 1983, n. 6133), supportata anche da parte della dottrina e da giudici di merito, ha sostenuto che, una volta applicata la sanzione, l'iter disciplinare è completo e l'imprenditore non ha alcun obbligo di attendere il decorso dei 20 giorni prima di procedere alla naturale irrogazione: il principio invocato è che la legge non prevede assolutamente che occorra attendere questo termine per l'esecuzione.

C'è un obbligo che grava sul datore di lavoro: una volta venuto a conoscenza che il dipendente ha iniziato la procedura arbitrale si deve attivare immediatamente perchè non si verifichino gli effetti sanzionatori non ancora maturati (ad esempio, se si tratta di sospensione ed alcuni giorni non sono stati ancora scontati, il lavoratore deve essere invitato a riprendere servizio, se sì tratta di multa non si deve procedere alla trattenuta in busta paga, ecc.). Se la decisione arbitrale sarà quella di "assolvere" in tutto o in parte il dipendente, l'imprenditore dovrà ripetere le somme dovute per le giornate di sospensione ingiustamente "scontate". Tra le due tesi prospettate, la seconda appare quella praticabile, in quanto più consona allo svolgimento di un rapporto di lavoro non legato soltanto ad aspetti formalistici.

Un ulteriore problema riguarda, nel silenzio della norma, l'eventuale obbligo di motivazione delle sanzioni disciplinari: esso non è di secondaria importanza se si pensa, ad esempio, alla stessa normativa sui licenziamenti che postula sempre (sia pure, in taluni casi, a richiesta, come nelle imprese sottodimensionate alle sedici unità) un motivo. La questione non è tanto se il provvedimento debba, di per sè, essere motivato (cosa scontata) ma se le ragioni che hanno portato alla adozione della sanzione debbano esser esplicitate direttamente nella lettera di comminazione o indicate "per relationem" facendo riferimento alla precedente corrispondenza contestativa. E,' come si vede, un problema di carattere rituale che ha avuto dalla Corte di Cassazione (Cass., 5 maggio 1987, n. 4170; Cass., 20 marzo 1991, n. 2963) una precisa soluzione: è sufficiente fare esplicito richiamo agli addebiti già contestati.

Alla motivazione del provvedimento disciplinare è legata, ad avviso di chi scrive, una ulteriore riflessione che riguarda la possibile “natura esemplare” della sanzione, quando la stessa è inflitta, a mo’ di esempio, ad un lavoratore o ad un gruppo di lavoratori, alfine di contrastare una crescente consuetudine. La Corte di Cassazione (Cass., 25 luglio 1984, n. 4382; Cass., 19 febbraio 1983, n. 6912) ebbe da dire la sua, affermando che la legittimità dell’atto imprenditoriale viene meno quando il motivo determinante si traduca nel proposito di far conseguire all’atto stesso un risultato vietato dalla norma imperativa (ad esempio, contestazione del divieto di fumo al solo rappresentante sindacale, con un nutrito contenzioso aziendale, e non ad altri dipendenti).

Alcune considerazioni sono necessarie circa la “tipicità” delle sanzioni relative a determinate mancanze: se le parti hanno prefigurato un determinato provvedimento (sia pure entro limiti minimi e massimi) per un illecito disciplinare, il datore di lavoro non può derogare. Particolarmente significativa è la procedura e la declaratoria delle sanzioni nel settore pubblico, per effetto del D. Lgs. n. 150/2009 che agli articoli 68 e 69 ha modificato, con particolare puntigliosità, l’art. 55 del D. Lgs. n. 165/2001, introducendo anche i successivi articoli 55 –bis, ter, e quater: soffermandoci sull’argomento sopra nominato, va sottolineato come il comma 3 del nuovo art. 55 non abbia lasciato alcun potere discrezionale al Dirigente non potendo essere la sanzione diversa da quella prevista per legge o per contratto collettivo per quella specifica infrazione. Le “maglie normative” si sono ancora più strette in caso di licenziamento disciplinare di un dipendente pubblico per effetto dei Decreti Legislativi n. 116/2016 e n. 118/2017.

Si è detto, più volte, che il procedimento disciplinare è composto da più atti tra loro correlati posti in maniera tale che il vizio di uno può determinare la nullità dello stesso; tuttavia, è stata sollevata la questione se il datore di lavoro possa rinnovare il procedimento nullo per vizio procedurale. Ad avviso di chi scrive, se la nullità scaturisce, ad esempio, dalla mancata affissione del codice disciplinare (che deve sussistere sia al momento in cui si è verificato il fatto che allorquando è stata contestata la mancanza) non è possibile rinnovare la procedura, trattandosi di una nullità insanabile. Se, invece, il vizio riguarda altri momenti della procedura e non vi siano ostacoli posti dalla contrattazione collettiva (ad esempio, termine entro cui adottare la sanzione), ciò è possibile: la Corte di Cassazione (Cass., 24 luglio 1978, n. 3692) ha affermato che "fa corretto uso del potere disciplinare l'imprenditore che, preso atto della nullità per vizio procedurale della precedente sanzione, ne applichi un'altra formalmente valida".

L'ammissibilità di una nuova azione disciplinare, possibile da un punto di vista teorico e con i limiti dinanzi evidenziati, trova un ulteriore ostacolo nella circostanza che essa deve avvenire entro limiti di tempo tali da lasciare in oggettiva evidenza il nesso causale tra l'infrazione commessa ed il provvedimento validamente applicato. Vale la pena di sottolineare, infine, come il principio del “ne bis in idem” non possa trovare applicazione nel caso in cui l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro riguardi fatti che, sebbene della stessa indole di quelli che hanno formato oggetto di precedente provvedimento, siano tuttavia diversi per le particolari circostanze di tempi e di luogo che li contraddistinguono e come tali siano stati contestati nella loro specifica individualità.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/05/17/sanzioni-disciplinari-datore-lavoro-applicarle

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