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Sanzioni disciplinari: quando scatta la recidiva del lavoratore

Nell’ambito dei procedimenti disciplinari, la recidiva del lavoratore si configura in caso di ripetizione, nell'arco temporale di 2 anni, della stessa infrazione che ha dato luogo alla sanzione. In alcuni casi espressamente previsti dalla contrattazione collettiva (come, ad esempio, nel CCNL dell’industria metalmeccanica), la recidiva dà la possibilità al datore di lavoro di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro. Quando la reiterazione dell’infrazione determina una recidiva? Ed inoltre, se si ricorre ai collegi arbitrali, che valore ha la richiesta del lavoratore di non tener conto, ai fini della recidiva, della sanzione decisa dall’organo collegiale?

Un aspetto particolarmente importante, strettamente correlato all’applicazione dei provvedimenti disciplinari, è rappresentato dalla c.d. recidiva, soprattutto se si considera che alcune disposizioni, inserite nella stessa contrattazione collettiva, offrono la possibilità al datore di lavoro di procedere alla risoluzione del rapporto nel caso in cui nel biennio considerato si siano verificate mancanze che hanno prodotto più sanzioni della stessa natura: di ciò una chiara testimonianza si ravvisa nel CCNL dell’industria metalmeccanica.

La recidiva, prevista all'ultimo comma dell'art. 7 della legge n. 300/1970, si configura come una tipica funzione di aggravante, anche se la stessa norma ne limita l'operatività al biennio susseguente l'applicazione del provvedimento: quest’ultima, va riferita non al momento dell’esecuzione, ma a quello della sua irrogazione che corrisponde a quando è stata formalmente comunicata.

Già alcuni anni or sono la Cassazione (Cass., 7 dicembre 1981, n. 6691) ebbe modo di affermare che ricadono sotto l'ombrello della recidività soltanto le sanzioni effettivamente applicate e non quelle che, pur commesse e conosciute, non sono state sanzionate.

La recidiva, o ciascun precedente disciplinare che la integra, deve essere contestata, in via preventiva, al lavoratore: la sua mancanza potrebbe inficiare la sanzione.

Essa va, in ogni caso, contestata in maniera tale da rendere identificabili gli eventuali precedenti disciplinari. Non è, tuttavia, necessario che la nota di contestazione riporti espressamente il termine “recidiva”, pur se richiesto dal CCNL (Cass., 17 settembre 1991, n. 9687).

Il problema della recidiva si pone, con una certa importanza, per il licenziamento disciplinare, causato dal ripetersi di gravi mancanze: la stessa Corte di Cassazione (Cass., 19 febbraio 1988, n. 1762; Cass., 19 dicembre 2006, n. 27104) ha ritenuto non solo possibile una valutazione di mancanze precedentemente commesse, ma non contestate, sotto l'aspetto confermativo della gravità dell'inadempimento contrattuale, ma ha ritenuto possibile “tenere conto, quali circostanze confermative della significatività degli addebiti contestati, ai fini della valutazione della complessiva gravità, anche di precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento, non essendo di ostacolo a tale valutazione la recidiva di cui parla l’ultimo comma dell’art. 7”.

In ogni caso l’eventuale previsione della contrattazione collettiva in materia di recidiva per successive mancanze disciplinari come ipotesi di giustificato motivo di licenziamento, non vincolano il giudice nella valutazione della gravità del comportamento nei singoli fatti addebitati, sebbene connotati dalla recidiva, in quanto lo stesso deve accertare la proporzionalità della sanzione espulsiva. Tale principio è, senz’altro, valido laddove trova applicazione l’art. 18 della legge n. 300/1970, come riformato dalla legge n. 92/2012.

Un discorso leggermente diverso va fatto per i lavoratori ai quali si applicano le tutele crescenti previste dal D.Lgs. n. 23/2015, ove è intervenuta la Consulta con la sentenza n. 194/2018: in caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo il giudice, oltre a tener conto del criterio, importante dell’anzianità aziendale può, dal momento che è stato “ritoccato l’art. 3, comma 1, considerare altri elementi, entro il tetto massimo dell’indennità risarcitoria, desumibili dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti, contesto socio-economico, comportamento tenuto dalle parti).

Tale discorso vale anche per il licenziamento disciplinare possibile soltanto in presenza di un fatto materiale accaduti, essendo preclusa al giudice ogni comparazione con il dettato contrattuale: l’indennità risarcitoria, sulla scorta di quanto affermato dalla Corte Costituzionale potrà ben andare, con motivazione, oltre il limite economico rapportato all’anzianità aziendale.

Per quel che riguarda la valutazione delle precedenti sanzioni una interessante ordinanza del Tribunale di Larino dell’8 settembre 2015 afferma che “il giudice deve valutare, soltanto in via incidentale, e senza l’efficacia del giudicato, i precedenti disciplinari ai fini della recidiva del licenziamento, atteso che l’impugnativa giudiziale di un provvedimento disciplinare è possibile oltre il termine dei venti giorni, essendo pacificamente previsto non a pena di decadenza (Cass., 19 febbraio, 1992, n. 2073; Cass., 30 marzo 2006, n. 7546)”.

Qualora venga assunta quale elemento costitutivo della mancanza addebitata la recidiva va sempre, come detto in precedenza, contestata. Non costituiscono recidiva sia le sanzioni precedentemente annullate, anche per mero vizio procedurale (cosa del tutto ovvia), ma anche quelle applicate, ma impugnate dinanzi al collegio arbitrale e sottoposte ancora al suo esame. In tali circostanze il datore di lavoro ha tutto l'interesse a giungere al lodo, per cui solleciterà gli arbitri ad emettere la decisione.

In talune decisioni arbitrali è stato rilevato un uso distorto della recidiva. Essa si è verificata allorquando (ad esempio, emissione errata e continuata di scontrini fiscali) ci si è trovati di fronte ad una reiterazione di comportamenti sanzionabili, riconducibili ad un'unica fattispecie. Il datore di lavoro non può, artificiosamente, dividere la sequenza delle infrazioni. Di analogo parere è la giurisprudenza di merito che, più volte, ha ritenuto illegittime sanzioni disciplinari successive alla prima, applicate secondo criteri di progressivo aggravamento, in assenza di una reale situazione di recidiva, unico presupposto valido per applicare la pena riguardo a fatti identici.

Tanto per vagliare il peso della recidiva (anche per fatti differenti) è opportuno dare uno sguardo alla sentenza 28 gennaio 2015, n. 1603 della Cassazione.

La Suprema Corte, esaminando il ricorso di un lavoratore, assente a visita di controllo, e licenziato per recidiva (pur se nel caso di specie il CCNL prevedeva una sanzione di natura conservativa) per precedenti sanzioni disciplinari nel biennio, ha osservato che “l’assenza alla visita di controllo era sufficiente ad integrare giusta causa di licenziamento, considerato che tale comportamento, inserendosi in una serie, ritualmente contestata dall’angolazione della recidiva, di altre sei condotte sanzionate disciplinarmente nel biennio, di cui una analoga a quella in esame e altre tre in “area”, riguardando la procedura relativa alla gestione dei certificati medici …….. esprimeva una sorta di pervicacia del lavoratore nell’ignorare i suoi doveri, segnatamente quelli inerenti al modo di comportarsi in caso di malattia, tale da scuotere in modo irreversibile la fiducia del datore di lavoro”.

Nel corso dei collegi arbitrali costituiti ex comma 6 dell’art. 7 si presenta, spesso, magari su richiesta dell’arbitro di parte attrice che rappresenta il lavoratore, la richiesta che della sanzione decisa dall’organo collegiale non se ne tenga conto ai fini di una recidiva nel biennio. Che valore ha questa richiesta, come si deve comportare il collegio e, soprattutto, quali possono essere gli effetti sul datore di lavoro?

Provo a rispondere ai quesiti sopra riportati partendo, innanzitutto, dalla natura del collegio arbitrale che è irrituale e che trae origine, da un mandato, che le parti hanno conferito ai tre componenti, per risolvere una loro controversia di natura disciplinare. Superata, senza successo, la fase conciliativa ove le parti, qualora d’accordo, possono sottoscrivere qualsiasi cosa (anche “la non menzione” ai fini della recidiva), non credo che sia nel potere del collegio intervenire sugli effetti della sanzione decisa, in quanto il mandato appare strettamente limitato all’esame dei fatti all’origine del provvedimento disciplinare ed alla decisione conseguente (conferma, annullamento, o derubricazione della sanzione).

Leggermente diverso è, a mio avviso, il discorso, soprattutto se correlato ad una decisione unanime, di invitare il datore di lavoro, al fine di riportare un clima di serenità, a non considerare il provvedimento sul quale è avvenuta la decisione, come recidiva nel biennio: si tratta di un invito, al quale il datore è libero di aderire o meno ma che, provenendo da un organo ove siede anche un suo rappresentante, costituisce non un obbligo giuridico ma una sorta di “pressione morale” che tiene conto di una serie di circostanze strettamente connesse al rapporto di lavoro che continua.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/05/23/sanzioni-disciplinari-scatta-recidiva-lavoratore

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