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Impresa sociale: la nuova frontiera del Terzo settore

La riforma del Terzo settore entra sempre più nel vivo: molti enti, nonostante la recente proroga disposta dal decreto Crescita stanno, infatti, lavorando all’adeguamento degli statuti scegliendo il modello organizzativo che meglio si adatta ai loro assetti gestionali. Nell’ambito di questa scelta si confrontano con la chiara scelta del legislatore che spinge il sistema del Terzo settore a fare impresa perché è consapevole che questa sia una fonte rilevante di acquisizione di mezzi per un ambito che sconta la riduzione delle risorse pubbliche e la minore possibilità di interventi liberali privati. Ma quale potrebbe essere un modello virtuoso da adottare? In molti casi l’impresa sociale, che contempera “profit” e interesse collettivo, con notevoli benefici fiscali.

Nonostante la proroga al 30 giugno 2020 per l’adeguamento con procedure semplificate degli statuti disposta dal decreto Crescita, è entrato ormai nel vivo il confronto da parte dei soggetti che operano nel non profit con le disposizioni che hanno completamente riformato ladisciplina del Terzo settore.

I singoli enti devono compiere le loro scelte cercando in primo luogo di comprendere quale sia, tra quelli previsti, il modello organizzativo che si adatta ai loro assetti gestionali.

Ebbene, nel compiere questa valutazione si impone un metodo: prima di chiedersi a quale sezione del RUNTS ci si debba iscrivere, occorre domandarsi quali sono gli obiettivi che si perseguono e attraverso quali azioni.

La riforma, infatti, fissando quali sono le attività di interesse generale, distingue tra coloro che le esercitano tramite volontari o associati e chi, invece, utilizzata forme gestionali più o meno strutturate di matrice imprenditoriale e commerciale.

Tra i molti aspetti che emergono al riguardo, uno è chiaro: fare impresa nel Terzo settore non è un “tabù.” Anzi, proprio la riforma valorizza questa possibilità, individuata come supporto per il raggiungimento dei (predominanti) scopi dell’ente stesso e come fonte di reperimento delle necessarie risorse finanziarie. Tant’è che, sotto il profilo impositivo, vengono previsti regimi di vantaggio diretti a ridurre drasticamente la tassazione dei risultati ottenuti, eliminando molti dei (se non talvolta tutti i) collegati adempimenti.

Il legislatore spinge, insomma, il sistema del Terzo settore a fare (pur nei limiti normativamente definiti) impresa perché è consapevole che questa sia una fonte rilevante di acquisizione di mezzi per un ambito (quello della soddisfazione dei bisogni socialmente rilevanti) che sconta la riduzione delle risorse pubbliche e la minore possibilità (a causa della crisi strutturale dell’economia) di interventi liberali privati.

Si comprende, quindi, la ragione per cui, ai fini qualificatori, l’apprezzamento della commercialità dell’attività è superato con la valutazione della presenza o meno di un interesse egoistico (cioè “profit”).

Il che emerge in tutta la sua evidenza, considerando la figura dell’impresa sociale. Quest’ultima è, infatti, individuata come modello virtuoso che esprime la funzionalizzazione dell’esercizio di una attività (strutturalmente) imprenditoriale al raggiungimento di un obiettivo di interesse generale. Di fatto, l’impresa sociale, come tutti gli altri Ets, sostiene tale interesse, ma, a differenza degli altri enti, deve farlo in forma d’impresa o, il che è lo stesso, si impone che quando un ente si rende conto di svolgere un’attività di interesse generale con una organizzazione in forma d’impresa deve necessariamente qualificarsi come impresa sociale.

La stessa, sotto il profilo fiscale, è particolarmente favorita con l’introduzione di una disciplina tributaria ad hoc che disvela, in tutta la sua evidenza, la funzione servente che le norme impositive hanno nel sostenere il suo affermarsi.

Vengono così previste, non solo e come tratto caratteristico, la non imponibilità degli utili e degli avanzi di gestione accantonati in apposite riserve e destinati allo svolgimento delle attività statutarie o ad incremento del patrimonio, ma anche una serie di altre misure di favore, tra le quali, particolarmente significativa, è quella che, per creare un bilanciamento con i limiti di remunerazione del capitale cui sono sottoposti questi soggetti, riconosce un sostegno fiscale a chi decide di investire nelle stesse, apportandovi capitali.

Ma non basta. Le imprese sociali beneficiano anche della riduzione o dell’esenzione da imposte indirette e tributi locali (art. 82 Codice del terzo settore), di un sistema di detrazioni e deduzioni per le erogazioni liberali nei loro confronti (art. 83 Codice del terzo settore), di una serie di semplificazioni legate agli adempimenti ed al sistema dei controlli (art. 18, comma 7, del D.Lgs. n. 112/2017).

Il tutto, nella speranza che di queste opportunità si faccia buon governo, come motore di quello che, a ben vedere, dovrà essere un cambiamento radicale nella concezione stessa della dimensione dell’azione imprenditoriale, che dovrà sempre più essere vista non solo nella sua concezione “egoistica”, ma (anche) come mezzo per il conseguimento di primari scopi di interesse collettivo.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/impresa/contratti-dimpresa/quotidiano/2019/07/13/impresa-sociale-nuova-frontiera-terzo-settore

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