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Contratto di espansione: scivolo pensionistico con o senza il ticket licenziamento?

Con il contratto di espansione, nel biennio 2019-2020, le imprese con un organico superiore a 1.000 unità e che intendono avviare processi di rinnovamento tecnologico, reindustrializzazione e riorganizzazione possono sottoscrivere un accordo per consentire lo scivolo pensionistico di 5 anni ai lavoratori prossimi alla pensione. L’accordo consentirà di riconoscere ai pensionandi un’indennità mensile comprensiva della NASpI, con costi imprenditoriali inferiori rispetto all’isopensione. La disciplina dello scivolo pensionistico previsto dal contratto di espansione presenta, però, alcuni punti oscuri. Per esempio, l’azienda è tenuta a pagare il ticket licenziamento per ogni dipendente che cessa il rapporto di lavoro?

Con la circolare n. 16 del 6 settembre 2019, il Ministero del lavoro ha fornito le proprie indicazioni amministrative concernenti il contratto di espansione definito dall’art. 26-quater del D.L. n. 34/2019 convertito, con modificazioni, nella legge n. 58/2019, che introduce il nuovo art. 41 del D.L.vo n. 148/2015.

Il “cuore” del provvedimento è rappresentato dal comma 5, con il quale si cerca di correggere una previsione, quella della “isopensione” prevista dall’art. 4, commi da 1 a 7-ter, della legge Fornero, i cui costi pesanti ne hanno scoraggiato l’utilizzazione. Ma, cosa affermano la disposizione e la circolare n. 16?

In sede di verbalizzazione presso il Ministero del Lavoro del contratto di espansione, le imprese con un organico superiore a 1.000 unità e che intendono avviare processi di rinnovamento tecnologico, reindustrializzazione e riorganizzazione potranno sottoscrivere un accordo finalizzato a licenziamenti di natura non oppositiva, con il consenso esplicito dei soggetti interessati, prossimi alla pensione. Tale passaggio consentirà di riconoscere ai soggetti licenziati e pensionandi una indennità mensile, anche comprensiva della NASpI, ricorrendone le condizioni, commisurata al trattamento pensionistico lordo maturato all’atto della cessazione del rapporto.

La norma individua come possibili destinatari dell’uscita anticipata dal lavoro chi:

- si trovi a non più di 60 mesi dal conseguimento della pensione di vecchiaia;

- abbia maturato il requisito minimo contributivo;

- si trovi a non più di 5 anni dal conseguimento della pensione anticipata ex art. 24, comma 10, del D.L. n. 201/2011.

Qualora il pensionamento avvenga sulla base del diritto al trattamento anticipato, l’imprenditore sarà tenuto a versare anche i contributi previdenziali utili al raggiungimento del trattamento, con esclusione del periodo già coperto dalla contribuzione figurativa a seguito della risoluzione del rapporto di lavoro (ad esempio, quella susseguente alla fruizione della NASpI).

Rispetto a questa ultima condizione si pone un problema, non secondario legato ai versamenti datoriali: il tutto deve avvenire in un’unica soluzione, come sembra dal dettato normativo, o è possibile procedere per “rate”?

In attesa di chiarimenti amministrativi da parte dell’INPS ritengo necessario focalizzare l’attenzione su alcuni passaggi.

Il costo dello “scivolo” pensionistico per l’imprenditore, come detto, è inferiore a quello previsto per la “isopensione” ove la rateizzabilità dei pagamenti delle somme mensili da corrispondere ai lavoratori è garantita da una polizza fideiussoria.

Il Legislatore non ha previsto la possibilità per i “lavoratori pensionandi” del “cumulo contributivo”: l’assenza di una disposizione che lo consenta potrebbe generare qualche difficoltà, atteso che dipendenti con contributi versati in più gestioni per poter aderire, potrebbero dover procedere a ricongiunzioni onerose. Ci sono, però, due elementi che vengono in evidenza per la prima volta e che, ovviamente, non erano presenti nella “isopensione”:

a) l’erogabilità del trattamento di disoccupazione con i relativi contributi figurativi, cosa che riduce in maniera sensibile i costi per il datore di lavoro;

b) l’introduzione di una norma di salvaguardia circa cambiamenti futuri della normativa che tende a scongiurare una nuova esperienza analoga a quella già vissuta dai c.d. “esodati” a partire dal 2012.

Il tutto però non è senza limite: infatti il Legislatore, affidando all’Istituto il monitoraggio, anche in via prospettica, della spesa complessiva, prevede alcuni limiti annuali non superabili. Tali vincoli sono, assolutamente cogenti, nel senso che se in sede di consultazione, prioritaria all’accordo, la Direzione Generale dei Rapporti di Lavoro e delle Relazioni Industriali accertasse uno sforamento del tetto massimo di spesa previsto, non si potrebbe stipulare il contratto con il relativo accesso al pensionamento.

Anche i Fondi di solidarietà bilaterali esistenti o in corso di costituzione secondo la previsione dell’art. 26 del D.L.vo n. 148/2015, possono prevedere il contratto di espansione: il comma 6 favorisce le prestazioni fornite da tali Fondi non essendo necessaria neanche la modifica dei loro atti costitutivi. Il successivo comma 7, che va correlato per la durata con il precedente comma 3, chiama in causa gli ammortizzatori sociali straordinari in favore di quei lavoratori che non sono nelle condizioni di beneficiare dello “scivolo pensionistico”: per costoro l’intervento integrativo è nella misura dell’80% della retribuzione globale che sarebbe spettata per le ore non prestate comprese tra zero ore ed il limite orario contrattuale. Le modalità di quantificazione dell’ammontare del trattamento integrativo in relazione alla dislocazione oraria della prestazione ed alle modalità di erogazione della retribuzione, ivi comprese le indennità accessorie rispetto alla retribuzione base, restano identiche rispetto alle altre ipotesi. La circolare n. 16 sottolinea come, essendo soltanto richiamati gli articoli 3 e 6, le altre disposizioni contenute nel Capo I del D.L.vo n. 148/2015 non trovino applicazione. La riduzione media oraria non può essere superiore al 30% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile per i dipendenti che rientrano nel contratto di espansione. La norma continua affermando (e qui la circolare n. 16 ha fornito i propri chiarimenti) che per ciascun lavoratore, la percentuale di riduzione dell’orario di lavoro può arrivare, se necessario, e previo accordo, fino al 100% nell’arco temporale di vigenza dei contratti di espansione (si tratta, quindi, di una eccezione alla regola generale).

La sospensione dell’attività lavorativa deve essere strettamente correlata alla formazione ed alla riqualificazione dei soggetti interessati

Anche in questo caso il Legislatore pone un tetto economico affidando all’INPS il monitoraggio delle spese con onere di riferire, puntualmente, ai Dicasteri dell’Economia e del Lavoro.

Ai fini del procedimento autorizzatorio trova applicazione la previsione dell’art. 25 del D.L.vo n. 148/2015 (con l’apposito canale “CIGSonline” e con l’attuale modulistica in attesa di quella specifica), ad eccezione dei tempi di presentazione ivi previsti: in ogni caso, afferma la circolare n. 16, tutto deve avvenire “in tempi di ragionevole brevità”.

Il successivo comma 8 è un punto fondamentale del complesso impianto normativo.

L’impresa deve presentare un progetto di qualificazione e riqualificazione professionale del personale interessato che deve risultare preciso e puntuale e che può essere realizzato anche attraverso i Fondi bilaterali per la formazione continua: esso si intende assolto, attraverso una certificazione i cui termini e contenuti saranno definiti in via amministrativa, anche allorquando siano stati impartiti insegnamenti per il conseguimento di una diversa competenza tecnica professionale, rispetto a quella originaria, utilizzando l’opera del lavoratore in azienda (si prefigura il ritorno alla formazione “in the job”).

Il progetto deve garantire effettivamente la formazione necessaria e deve specificare il numero dei lavoratori interessati e quello delle ore, le competenze tecniche iniziali e quelle finali e va distinto per categorie. La disposizione dispone, altresì, il rispetto di quanto previsto dall’art. 1, comma 1, lettera f) del D.M. n. 94033 del 13 gennaio 2016. Ciò significa che nel programma vanno indicate le previsioni del recupero occupazionale dei lavoratori interessati alle riduzioni o alle sospensioni di orario nella misura almeno del 70%. Il recupero occupazionale ricomprende nella predetta percentuale sia i dipendenti che rientrano nella propria unità produttiva, ma anche quelli che sono stati riassorbiti in altre unità della stessa impresa o di altre imprese, nonchè quelli che sono usciti dal contesto aziendale attraverso “scivoli pensionistici”, “licenziamenti non oppositivi” o risoluzioni consensuali. Se dovessero sussistere altri esuberi strutturali, dovranno essere indicate le modalità di gestione.

Il comma 8, facendo riferimento unicamente ai lavoratori interessati ai piani formativi, parla anche di applicazione, per quanto compatibile, delle misure previste dall’art. 24-bis del D.L.vo n. 148/2015 che tratta dell’assegno di ricollocazione. Sul punto, nel corso del 2018, è intervenuta la circolare congiunta n. 11 Ministero del Lavoro - ANPAL e, di recente, l’INPS con la circolare n. 109/2019.

Per completezza di informazione ricordo che l’art. 24 bis relativo all’assegno di ricollocazione prevede, tra le altre cose, una serie di passaggi che riguardano direttamente sia il lavoratore che il proprio datore di lavoro che, infine, anche l’azienda destinata ad assumerlo: accordo tra azienda e organizzazione sindacale sui profili e le categorie ritenute eccedentarie, adesione volontaria degli interessati, risoluzione del rapporto di lavoro con il “non pagamento dell’IRPEF” fino ad un massimo di 9 mensilità sulle somme erogate quale incentivo all’esodo, inserimento degli interessati (che continuano a percepire il trattamento integrativo) nelle ricerche di finalizzate all’occupazione di Enti accreditati (Agenzie per il Lavoro, ecc.) e centri per l’impiego, incentivi per chi assume i lavoratori (diciotto mesi di agevolazione contributiva pari a 4.030 euro annui), percezione, da parte degli interessati, del 50% della residua integrazione salariale se ancora erogata.

Quanto appena, sommariamente, detto, richiede alcune riflessioni.

Prima questione

La singolarità della procedura collettiva di riduzione di personale che si conclude con una serie di licenziamenti “non ostativi” ove i lavoratori interessati “scivolano verso la pensione” accompagnati dall’indennità mensile, fa scattare la sospensione degli obblighi occupazionali che scatta ex art. 3, comma 5, della legge n. 68/1999 allorquando si verificano almeno cinque licenziamenti?

Stando al tenore letterale della norma appena richiamata, la risposta sembrerebbe positiva, ma a mio avviso (la questione non è stata affrontata nella circolare n. 16) dovrebbe essa essere negativa, in quanto ci si trova in una ipotesi del tutto diversa da quella ipotizzata dal Legislatore del 1999, atteso che quella sospensione dagli obblighi di assunzione è correlata all’esercizio del diritto di precedenza alla riassunzione da parte dei dipendenti oggetto di recesso a seguito delle difficoltà aziendali: in questo caso, in presenza dello “scivolo pensionistico” non c’è alcun interesse alla reintegra. Inoltre, il contratto per espansione prevede anche un piano di assunzioni che potrebbe ipotizzare anche l’inserimento di personale disabile. Resta impregiudicata, comunque, per il datore di lavoro la possibilità di una convenzione con i servizi per l’impiego ex art. 11 della legge n. 68/1999 finalizzata a “cadenzare” nel tempo le assunzioni d’obbligo.

Seconda questione

L’impresa che procede ai licenziamenti “non ostativi” che avvengono con un accordo sindacale al termine di una procedura collettiva, è tenuta a pagare per ogni dipendente che cessa il rapporto, il “ticket di ingresso alla NASPI” (per chi ha una anzianità pari o superiore a trentasei mesi l’importo relativo all’anno 2019 è pari a 3.004,74 euro, trattandosi di licenziamento collettivo, concordato)? La risposta appare positiva in quanto gli interessati non vanno in “pensionamento di vecchiaia”. Ovviamente, nel caso in cui ci si trovasse in presenza di “dimissioni” o di “risoluzione consensuale” (quest’ultima al di fuori della procedura ex art. 7 della legge n. 604/1966) il “ticket” non è dovuto.

Terza questione

Ma, quanto è il costo che l’imprenditore deve sostenere per ogni lavoratore interessato al trattamento pensionistico?

Il Legislatore parla di un importo lordo commisurato al trattamento pensionistico maturato all’atto della cessazione del rapporto, accertato dall’INPS. Ciò significa che il raccordo continuo con l’Istituto deve portare alla identificazione di una somma che, ovviamente, non sarà uguale per tutti i dipendenti interessati.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/09/20/contratto-espansione-scivolo-pensionistico-senza-ticket-licenziamento

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