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Il decreto per la tutela del lavoro: per ora un “semilavorato”. Alla legge di conversione fare chiarezza

Il decreto legge che contiene disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione delle crisi aziendali ha iniziato il suo percorso di conversione in legge al Senato. L'esame del provvedimento è stato assegnato, infatti, alle Commissioni riunite Industria e Lavoro. Le norme contenute rafforzano la tutela previdenziale per i lavoratori parasubordinati e dettano una disciplina speciale per i ciclo-fattorini. Ma, a ben guardare, il provvedimento appare come una sorta di semilavorato, in attesa che la conversione in legge ne chiarisca l’esatta portata. Una prova? La sua entrata in vigore è differita al termine di un periodo di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione (cioè, presumibilmente, ai primi di giugno del 2020). In aggiunta l’intervento normativo “riparatore” rischia di creare confusione e non fare chiarezza: perché?

La recente crisi politica ha indirettamente rallentato il corso del D.L. 3 settembre 2019, n. 101, già approvato dal precedente Governo Conte I, ma apparso sulla Gazzetta Ufficiale solo lo scorso 4 settembre 2019, quando mancava solo un giorno a che il nuovo Governo entrasse in carica.

Il decreto-legge, che richiede la conversione in legge ad opera del Parlamento entro i sessanta giorni dalla sua pubblicazione (art. 77, co. 3 Cost.), era inizialmente dedicato alla risoluzione di alcune crisi aziendali, ma è stato poi integrato con alcune disposizioni di legge che, andando a modificare il Jobs Act (d. lgs. n. 81/2015), rafforzano la tutela previdenziale per i lavoratori parasubordinati (in tema di malattia, ricovero ospedaliero, maternità e congedo parentale), dettando altresì una speciale disciplina per i ciclo-fattorini che operano in molte città alle dipendenze di grandi gruppi multinazionali.

In particolare, si prevede che i riders siano d’ora in poi assoggetti alla copertura assicurativa INAIL obbligatoria contro gli infortuni e che la loro retribuzione possa essere determinata in base alle consegne effettuate, «purché in misura non prevalente». Si stabilisce poi che i contratti collettivi possano definire «schemi retributivi modulari e incentivanti», imponendo così alla “piattaforma” un corrispettivo orario «a condizione che, per ciascuna ora lavorativa, il lavoratore accetti almeno una chiamata».

La norma si presenta, malgrado l’urgenza che consegue alla scelta di un “decreto-legge”, come una sorta di semi-lavorato, in attesa che la conversione ne chiarisca l’esatta portata, come è dimostrato dal fatto che la sua entrata in vigore viene differita al termine di un periodo di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione (cioè, presumibilmente, ai primi di giugno del 2020).

Ed in effetti, l’aver dedicato una norma apposita solo ai ciclofattorini (definiti come «lavoratori impiegati nelle attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore»), escludendo tutto il variegato universo dei lavoratori digitali, pone non pochi problemi di coerenza sistematica con la disciplina generale del contratto di lavoro, posto che il decreto, a differenza di altri progetti di legge oggi in discussione, conferma la circostanza che questi lavoratori non sono lavoratori subordinati.

Questa conclusione è in linea con quanto affermato dal Tribunale del lavoro di Torino, in una sentenza del 7 maggio 2018, con la quale è stata respinta la richiesta di alcuni lavoratori licenziati di vedersi applicare le tutele proprie dei subordinati in tema di licenziamento. Il tribunale in quella occasione ha respinto tutte le richieste dei lavoratori, affermando che essi non erano propriamente assoggettati ad un potere di direzione aziendale, poiché non venivano controllati durante il tragitto percorso e restavano comunque liberi di accettare le consegne che, di volta in volta, venivano proposte loro attraverso la piattaforma digitale.

La sconfitta dei ciclofattorini si era però tramutata in una mezza vittoria in appello poiché il Giudice del gravame aveva sì confermato l’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ma aveva riconosciuto il diritto dei fattorini a vedersi applicato la retribuzione prevista dal contratto collettivo della logistica in rapporto ai tempi di consegna, escludendo così la legittimità del pagamento “a singola consegna”.

Questo stesso risultato sembra ora consacrato dal legislatore che, per l’appunto, nelle disposizioni sopra richiamate, pur ammettendo la possibilità di pattuire in sede collettiva sistemi incentivanti, vieta che la retribuzione possa essere integralmente calcolata secondo il sistema del cottimo.

Tutto a posto, insomma, se non fosse che la sentenza della Corte di appello di Torino è stata resa in relazione a prestazioni effettuate prima del novembre 2016, quando cioè la norma che ha costituito il fondamento della decisione giudiziale parificava a tutti gli effetti ai lavoratori subordinati quanti effettuavano una prestazione «organizzata dal committente … con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro».

Solo che, nel frattempo, seguendo le frenetiche oscillazioni della legislazione italiana, questa equiparazione sembra essere venuta meno, a seguito di una disposizione del c.d. Jobs Act degli autonomi (art. 15 d. lgs. n. 81/2017) che, senza modificare l’art. 2 del decreto 81 del 2015 prima richiamato, ha di fatto previsto che non si aveva alcuna parificazione «quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l'attività lavorativa». Ed è pacifico che i riders operano in autonomia, scegliendo se accettare (o meno) la consegna e che percorso effettuare.

L’intervento del settembre 2019 rischia così di apparire paradossale, poiché sembrerebbe che il legislatore non si sia accorto che la sentenza della Corte di appello di Torino applica una normativa non più in vigore, cosicché si finisce per emanare delle norme non ben coordinate con il quadro normativo complessivo, rischiando così, ove non si risolva in radice l’equivoco della disciplina applicabile a tutti i parasubordinati, di far confusione e non chiarezza (e per di più limitatamente ad un settore che, impiegando cica 15 mila lavoratori, costituisce al momento solo un millesimo di tutti i lavoratori occupati con contratto di lavoro subordinato).

È vero però che, come dimostra il divieto di qualificare i riders come indipendent contractors previsto da una legge adottata lo scorso 10 settembre 2019 dal Senato della California, non è ben chiaro a nessuno che disciplina deve davvero applicarsi a queste figure così particolari, che vedono lavorare fianco a fianco ai veri e propri professionisti delle consegne, soggetti che hanno solamente voglia di provare un’esperienza diversa o di arrotondare saltuariamente il proprio reddito.

Non è per caso, quindi, che la recentissima direttiva europea n. 2019/1152 del 20 giugno 2019 “relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea” autorizza gli Stati Membri dell’Unione europea ad escludere dalle tutele primarie quei lavoratori «il cui rapporto di lavoro sia caratterizzato da un tempo di lavoro predeterminato ed effettivo di durata pari o inferiore a una media di tre ore a settimana»: il che è come dire che l’attenzione del legislatore deve concentrarsi solamente su casi nei quali si tratta di un vero e proprio lavoro e non di un’attività puramente saltuaria.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/09/28/decreto-tutela-lavoro-ora-semilavorato-legge-conversione-chiarezza

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