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Contrattazione e costo del lavoro: da non dimenticare i working poor

Il Governo sta conducendo un’azione per diminuire il cuneo fiscale ad esclusivo vantaggio dei lavoratori. Si tratta di una prima risposta alla perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni (pari al 4,3% dal 2010 al 2017). Nella legge di Bilancio 2020, però, non si deve ripetere l’errore di non includere nel beneficio gli incapienti, cioè quei lavoratori che hanno retribuzioni lorde annue fino a un massimo di 8.200 euro. Si tratta dei “working poor”, cioè di coloro che sono poveri nonostante il fatto che lavorino. I quali sono, per la maggior parte, lavoratori giovani. Anche di questo si parlerà nel corso del VII Forum TuttoLavoro, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrinalavoro.it, RCS Academy e Corriere della Sera, in programma a Roma il 27 novembre 2019.

Esiste un rapporto tra costo del lavoro e modello contrattuale? Se si vuole dare una risposta a questa domanda è necessario svolgere alcune considerazioni storiche e anche di attualità. Se esaminiamo l’evoluzione del modello contrattuale, dal dopoguerra ad oggi, dobbiamo anche collegarlo alle mutazioni politiche e ideologiche che hanno influenzato i corpi sociali intermedi in questi decenni.

Fino agli anni ’50 il modello contrattuale era caratterizzato dagli accordi interconfederali e dai contratti nazionali di categoria, cioè dal massimo della centralizzazione. Questa impostazione rispondeva ad un obiettivo, soprattutto sostenuto dalla CGIL, dell’unità della classe lavoratrice attraverso la massima omogeneità delle condizioni salariali e normative. Al contrario la CISL, più legata alla scuola delle relazioni umane di stampo americano, propendeva per l’adozione di modalità contrattuali di natura decentrata. L’episodio che portò la CGIL ad un ripensamento fu la sconfitta della Fiom alle elezioni della Commissione Interna alla Fiat nel 1955. Coraggiosamente, l’allora Segretario Generale della CGIL, Giuseppe Di Vittorio, fece una circostanziata autocritica: la sconfitta era sicuramente dovuta a un’azione di discriminazione e di repressione da parte della Fiat attuata negli stabilimenti. Ma non si poteva sottovalutare il fatto che anche la Fiom aveva le sue responsabilità, perché non aveva capito che le modificazioni avvenute nell’organizzazione del lavoro, a partire dalla catena di montaggio, comportavano pesanti ripercussioni sulla prestazione lavorativa: ritmi, carichi di lavoro, fattori di nocività e l’esigenza di vedere riconosciuto, in termini di salario, lo sforzo di produttività degli operai. Difficilmente una contrattazione tutta centralizzata avrebbe potuto affrontare questi problemi.

Quel pensiero produsse, nel V Congresso del 1960, l’accettazione da parte della CGIL del principio della contrattazione decentrata. Fu un passaggio non scontato date le condizioni storiche: il mondo a quel tempo era diviso in due campi, l’Ovest e l’Est, che contrapponevano capitalismo e comunismo. Era un mondo plasmato dalle ideologie e in quel mondo c’erano anche due visioni di sindacato: quella della CGIL privilegiava l’unità della classe, come si diceva a quel tempo e articolare il contratto di lavoro in contrattazione nazionale e aziendale poteva minare alla base quella coesione. Dall’altra parte c’era l’idea, rivelatasi vincente, della CISL, che sosteneva la necessità di dare spazio alla contrattazione nei luoghi di lavoro e non soltanto a livello centrale.

Nel 1962 l’Intersind, l’intersindacale delle aziende a partecipazione statale dell’IRI e dell’Efim, confluita poi in Confindustria, siglò per la prima volta, anche a seguito del cambiamento di rotta della CGIL, un accordo-quadro che riconosceva la coesistenza della contrattazione nazionale e di quella decentrata. La Confindustria accettò questa impostazione soltanto alla fine degli anni ’60.

Da quel momento quale fu la modalità con la quale si calcolava il premio di produzione a livello di stabilimento? Alla Fiat venne utilizzata la formula del P/H, nella quale “P” significava produzione e “H” le ore lavorate. Quel rapporto consentiva di erogare mensilmente un premio sostanzialmente stabile perché non c’era una variazione significativa né nel numeratore né nel denominatore.

Dopo quella prima fase si arrivò ad una sostanziale innovazione nel 1988. Fiat e altre grandi imprese avanzarono, per la prima volta, una proposta di premio aziendale che superava il modello P/H. Le aziende proponevano nuovi parametri di calcolo legati a redditività, qualità e produttività dell’impresa. La proposta incontrò, alla Fiat, l’ostilità della Fiom che non firmò l’accordo fino all’anno successivo. Il punto di contestazione era il legame del risultato salariale con l’andamento del bilancio, la cui definizione prescindeva dalla possibilità di controllo da parte dei lavoratori e del sindacato.

I metalmeccanici della CGIL sostenevano che il premio andasse ancorato allo sforzo produttivo delle braccia o dell’intelletto.

Gli accordi sottoscritti a fine anni ‘80 dai grandi gruppi industriali rappresentarono il battistrada di quello che, all’epoca del governo Ciampi nel 1993, fu definito il primo e più importante protocollo di concertazione firmato in Italia. In quella circostanza la contrattazione decentrata venne definitivamente sganciata dalla teoria del salario come variabile indipendente. Il premio di risultato, sancito dal protocollo Ciampi, che legava definitivamente il salario aziendale ai parametri di produttività, redditività, qualità ed efficienza, venne recepito dai contratti di categoria.

Sul piano legislativo la contrattazione aziendale fu sostenuta con risorse che consentirono una importante detassazione. Ancora oggi i premi di risultato hanno una sorta di cedolare secca del 10%, molto più vantaggiosa rispetto al cuneo fiscale che viene normalmente applicato alle retribuzioni dei contratti nazionali.

Andando avanti, nel 2016 la legge di Bilancio compie una ulteriore innovazione con l’introduzione del welfare aziendale. Si tratta di benefici a vantaggio di tutti i lavoratori dell’azienda o di reparti omogenei di essa, che possono essere erogati in modo unilaterale o attraverso un regolamento aziendale o con la contrattazione. Si tratta di somme completamente detassate che possono essere utilizzate dai lavoratori per l’assistenza ai propri congiunti non autosufficienti, per la tutela dei bambini in età prescolare, per versamenti aggiuntivi alla previdenza o sanità complementare, per corsi di yoga, acquisto di libri e così via.

Come si vede, nell’intreccio tra legislazione e contrattazione si può notare il diverso peso “netto” degli emolumenti salariali o di welfare rispetto al cosiddetto costo del lavoro.

Venendo all’attualità, è importante l’azione che il Governo sta conducendo con la legge di Bilancio 2020 per diminuire il cuneo fiscale ad esclusivo vantaggio dei lavoratori.

Si tratta di una prima risposta alla perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni che, dal 2010 al 2017, è stata del 4,3%. Però, non si deve ripetere l’errore compiuto al tempo del Governo Renzi: quello di non includere nel beneficio gli “incapienti”, cioè quei lavoratori che hanno retribuzioni lorde annue fino a un massimo di 8.200 euro. Se dividiamo questa cifra (massima) per 12 si arriva a 683 euro mensili. Si tratta dei “working poor”, cioè di coloro che sono poveri nonostante il fatto che lavorino. I quali sono, per la maggior parte, lavoratori giovani. Non dimentichiamoli, anche questa volta.

Fonte: http://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/lavoro-dipendente/quotidiano/2019/10/29/contrattazione-costo-lavoro-non-dimenticare-working-poor

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