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Riders: perché non pensare a un salario minimo differenziato per Regione

La legge di conversione del decreto sui riders ha definito nuovi elementi per la determinazione del compenso, facendo venir meno il richiamo ai criteri del cottimo presenti nella versione originaria della norma. Ma continuano ad emergere alcune perplessità. Il legislatore introduce, infatti, alcune tutele economiche tipiche del lavoro subordinato, lasciando poco margine alla contrattazione decentrata e territoriale. Mantenere la centralità del contratto nazionale nella determinazione del compenso non tiene conto delle differenze regionali in termini di potere d’acquisto e determina, per questi lavoratori forse più che per altri, un effettivo squilibrio in termini di salario “reale”. Ed allora perché non pensare, per una maggiore giustizia sociale, a forme di salario minimo differenziato per Regione?

Torno ancora sulla recente normativa relativa ai riders perché dalla conversione in legge del decreto, avvenuta con la L. n. 128/2019, sono emerse alcune significative novità in merito alla nuova disciplina della tutela del lavoro autonomo attraverso piattaforma prevista negli artt. 47bis e ss. del D.Lgs. n. 81/2015 (codice dei contratti). Mi limiterò a tale fattispecie lasciando invece da parte le considerazioni sulla parallela modifica alla disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative contenuta nel medesimo decreto (art. 2), che necessiterebbe di un commento a parte.

Sul fronte del lavoro attraverso piattaforma spicca innanzitutto una migliore precisione in termini di definizione di un tipo di attività che seppure appartenente al settore dell’App Economy, resta pur sempre circoscritto e limitato, rispetto alla portata e all’ampiezza delle attività che caratterizzano questo ambito della New Economy. Rispetto alla prima definizione contenuta nel decreto di settembre, la legge di conversione opera un primo distinguo: definisce piattaforme digitali non più i programmi e le procedure informatiche “delle imprese” ma quelli “utilizzati dal committente” che indipendentemente dal luogo di stabilimento, sono strumentali alle attività di consegna di beni, fissandone il compenso e determinando le modalità di esecuzione della prestazione”. Tale definizione circoscrive in modo – teoricamente - più opportuno l’ambito di operatività della nuova disciplina consentendo di limitarla ai soli rapporti contrattuali tra il prestatore di lavoro (autonomo) e il committente – coerente con l’esigenza di tutela minima che la legge identifica con riferimento alle attività di consegna di beni per conto altrui in ambito urbano con l’ausilio di velocipedi e veicoli a motore - e non chiamando in causa in modo indistinto le imprese del settore, come invece aveva fatto il decreto nella versione ante conversione. Da questo punto di vista il richiamo alla forma contrattuale, ai criteri di determinazione del compenso e alle altre tutele introdotte (ovvero modificate) dalla legge di conversione assume una valenza del tutto diversa rispetto all’impostazione iniziale contenuta nel decreto di settembre, perché circoscritta agli aspetti – minimi – di gestione di un rapporto contrattuale di lavoro del tutto nuovo al confine tra autonomia e subordinazione.

A questo va poi aggiunto il venir meno di quella dichiarazione di principio – già contenuta nella prima versione del decreto – che, diretta a richiamare non ben identificati obiettivi di occupazione “sicura e dignitosa”, sembrava voler sottolineare una precisa presa di posizione - in termini di dignità del lavoro - solo nei confronti delle attività di consegna di beni, quando invece, come già da me specificato in questa rubrica, il settore dell’App Economy è caratterizzato da una molteplicità di attività, tutte evidentemente caratterizzate da una propria dignità identitaria... Il che implica che restano in modo più circostanziato estranei alla disciplina così come oggi delineata dal legislatore – ma oggettivamente richiamabili in causa nel quadro della disciplina delle cococo se parasubordinati - tutti quei rapporti di lavoro (autonomi e parasubordinati) ma anch’essi del tutto nuovi, propri dell’economia digitale, aventi ad oggetto attività legate alla produzione ed allo scambio di servizi (attività della sharing economy).

Il richiamo al più semplice obiettivo di definire livelli minimi di tutela all’ambito delle attività di consegna di beni per conto altrui, restituisce la norma alla sua finalità originaria ossia quella di definire regole nuove per nuovi e specifici contesti sociali ed economici identificando una – prima e non certo esaustiva – cornice giuridica di riferimento per queste attività che sono comunque caratterizzate da due fattori di contesto molto rilevanti, forse un po' trascurati dal legislatore, ossia in primo luogo il fatto che proprio perché di lavoro autonomo, non sono per il lavoratore attività di lavoro prevalenti e, in secondo luogo che si tratta di attività caratterizzate da un consistente turnover che dovrebbe essere accompagnato da semplicità di gestione amministrativa e non dalla presenza di troppi vincoli.

Da questo punto di vista, il richiamo ad alcuni vincoli di forma e alla necessità di fornire al lavoratore le informazioni di base sul rapporto contrattuale identifica un primo elemento di complessità amministrativa ma allo stesso tempo un importante presupposto in termini di corretta gestione del rapporto contrattuale. Quantomeno nel tentativo di porre le parti sullo stesso piano – come dovrebbe avvenire nell’ambito del rapporto di lavoro autonomo – evitando di conferire al committente una posizione di forza. La formula contrattuale è tutta da costruire (e anche da personalizzare) con l’obiettivo di fornire al lavoratore tutte le informazioni di base sul rapporto contrattuale, seppure con richiamo alla disciplina riguardante il rapporto di lavoro subordinato (D.Lgs. n. 152/1997) che dovrà essere opportunamente adattata. Sarà sicuramente questo il lavoro più importante affidato agli operatori (alle aziende e ai professionisti) soprattutto al fine di evitare di incorrere nella sanzione prevista dalla norma in caso di mancata informazione iniziale in merito alle condizioni contrattuali, ossia nell’obbligo di versamento al lavoratore di un’indennità risarcitoria di entità non superiore ai compensi percepiti nell’ultimo anno, da determinare equitativamente avendo riguardo alla gravità e alla durata delle violazioni, nonché al comportamento delle parti.

E qui veniamo all’altra novità della disciplina scaturita dalla conversione in legge del decreto, ossia i criteri per la determinazione del compenso (che dovrà essere oggetto di informazione) per i quali, venuto meno il richiamo ai criteri del cottimo presenti nella versione originaria della norma, continuano tuttavia ad emergere alcune perplessità in termini di effettività della tutela economica voluta dal legislatore. La norma infatti parla sì di lavoratori autonomi ma pone una serie di vincoli, ai fini della determinazione del compenso, che renderanno potenzialmente più difficoltosa la sostenibilità – in termini di business – di alcune attività.

Tre sono gli elementi di attenzione:

1) Per la determinazione del compenso si fa rinvio ai criteri definiti dai contratti collettivi di lavoro – stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative a livello nazionale – tenendo conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del committente;

2) In mancanza della contrattazione collettiva, il compenso può essere determinato in base alle consegne effettuate nel rispetto di un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari della contrattazione collettiva dei settori affini o equivalenti. Contratti collettivi identificati sempre in base al medesimo criterio di rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale;

3) Va inoltre garantita una specifica indennità integrativa per il lavoro svolto di notte, durante le festività o in condizioni meteorologiche sfavorevoli. Indennità determinata in misura non inferiore al 10% e ancora una volta definita dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, con Decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Il legislatore introduce in buona sostanza alcune tutele economiche – tipiche peraltro del lavoro subordinato – senza probabilmente tenere conto non solo della posizione del lavoratore che, in quanto autonomo, non avrebbe alcun margine di manovra né in termini di negoziazione né in termini di obiettivi e/o di produttività individuale nella definizione dei propri corrispettivi, ma anche dello stesso possibile ruolo della contrattazione collettiva, lasciando poco margine alla contrattazione decentrata e territoriale che in questo ambito avrebbe la possibilità di intervenire concretamente per avviare la sperimentazione di quelle forme di salario minimo differenziato per Regione che personalmente auspico da alcuni anni.

Mantenere la centralità del contratto nazionale nella determinazione del compenso in questo – come in altri settori - non tiene conto delle differenze regionali in termini di potere d’acquisto con la conseguenza di determinare in questo settore forse più che in altri un effettivo squilibrio in termini di salario “reale”. Soprattutto in connessione con le nuove forme di lavoro ibride e destrutturate che caratterizzano il settore oggi oggetto del decreto e dell’attenzione del legislatore.

Da un punto di vista economico e sociale la possibilità di effettuare una differenziazione territoriale del salario basata ad esempio su indici collegati al costo della vita e alla produttività consentirebbe di raggiugere un migliore equilibrio in termini giustizia sociale, anche tenendo conto della diversa incidenza che questo lavoro ha a livello territoriale e non solo nord/sud ma anche per differente ampiezza dei contesti urbani in cui viene svolto. E questo finisce per avere influenza anche sul trattamento indennitario previsto per il lavoro così detto “disagiato” nel quale potrebbe influire a livello regionale anche la valutazione dell’incidenza più o meno rilevante del lavoro notturno o festivo (fuori dai grandi centri urbani potenzialmente meno rilevante).

Senza parlare del tema organizzativo, ossia del modello di inquadramento professionale che sarebbe il punto di riferimento per la determinazione dei minimi da parte della contrattazione collettiva. Inquadramento professionale che è proprio quello maggiormente coinvolto dalle attività di consegna di beni per conto altrui, difficilmente standardizzabile e, quindi, avulso in realtà da un sistema di regolamentazione centralizzato: la previsione di minimi uguali per tutto il territorio non realizza a mio avviso quel principio fondamentale di uguaglianza reale che invece dovrebbe essere alla base di una disciplina quale quella che il decreto ha voluto introdurre.

In questo scenario l’effettiva entrata in vigore delle nuove norme – prevista a fine 2020 - sarà l’occasione per misurare la tenuta – anche in termini di business - del sistema di determinazione del compenso così come è stata prevista dal legislatore.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/12/07/riders-non-pensare-salario-minimo-differenziato-regione

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