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In attesa del 2020: cosa l’Italia (con l’Europa) non si deve perdere

I dodici mesi a venire si presentano, per un grande Paese industriale come il nostro, in una prospettiva inedita. Il piano della Commissione europea ci dice una cosa: l’Unione non limita più la propria prospettiva alla “vigilanza” sul “comportamento” degli Stati federati, ma intende attuare una forte politica industriale comune, che coniughi la salvaguardia dell’ambiente con lo sviluppo. Per realizzare la svolta servono massicci investimenti, un indirizzo strategico - che solo la politica può dare - e un lavoro “di sistema” sullo sviluppo. Ecco perché l’Italia deve assumere un’attitudine nuova. L’anno che verrà l’Italia non lo può perdere…

Il 2020 si potrebbe definire come “l’anno che l’Italia non può perdere”. I dodici mesi a venire si presentano, per un grande Paese industriale come il nostro, in una prospettiva inedita. Di questo, come Nazione, dobbiamo assumere coscienza e dotarci degli strumenti intellettuali, politici e strategici per essere presenti, in modo attivo, nella dinamica che deciderà del nostro futuro.

Come ormai di consueto, la realtà si muove a grande velocità.

Cerchiamo di capire la “big picture” che si va disegnando per l’anno a venire nello scenario che è il nostro riferimento: l’Europa e il suo rapporto con il mercato globale.

Per far questo, dobbiamo addentrarci nel disegno programmatico presentato da Ursula von der Leyen. La presidente della Commissione UE scrive, in un articolo pubblicato di recente, “il Green Deal europeo che presentiamo oggi costituisce la nuova strategia di crescita dell’Europa, che ridurrà le emissioni, creerà posti di lavoro e migliorerà la qualità della vita dei suoi cittadini. Sarà il filo conduttore verde di tutte le nostre politiche, dai trasporti alla fiscalità, dall’agroalimentare, all’industria, alle infrastrutture. Con il Green Deal vogliamo investire nelle energie pulite ed estendere il sistema di scambio delle quote di emissione. Incentiveremo inoltre l’economia circolare e preserveremo la biodiversità europea. Il Green Deal europeo non è soltanto una necessità, ma anche il motore di nuove opportunità economiche. Molte imprese europee stanno già ‘passando al verde’, stanno riducendo la loro impronta di carbonio e scoprendo le tecnologie pulite. […] Le imprese e gli agenti del cambiamento ci chiedono di poter accedere agevolmente ai finanziamenti. A questo fine attueremo un piano di investimenti per un’Europa sostenibile che sosterrà investimenti per mille miliardi di euro nei prossimi dieci anni. Lavoreremo fianco a fianco con la banca europea per gli investimenti”.

E qui si deve mettere a fuoco un punto: la nuova Commissione UE si presenta sullo scenario globale non solo come una regolatrice e con una lista di “buone intenzioni”.

Guardiamoci un momento intorno. Proprio in questi giorni il vertice mondiale sul clima del Cop 25 di Madrid ha deluso gravemente le aspettative. Solo 84 dei paesi partecipanti hanno assunto l’impegno a presentare nel 2020 piani per maggiori tagli di emissioni di CO2. Fa impressione la lista di chi si è rifiutato di aderire. Citiamo Cina, India, Russia, Stati Uniti, che hanno, con la loro impuntatura, impedito l’assunzione di un impegno comune.

Ma il piano della Commissione UE ci dice una cosa: l’Unione non limita più la propria prospettiva alla “vigilanza” sul “comportamento” degli Stati federati. La Commissione intende, invece, attuare una forte politica industriale comune, che coniughi la salvaguardia dell’ambiente con lo sviluppo. Dunque, non solo belle parole e buone intenzioni. Perché, come ci segnalano attenti osservatori delle cose economiche, la “nuova” Unione europea assume, improvvisamente, una fisionomia che si può definire come “post-liberista”. Un intento non dichiarato e che, probabilmente, non sarà esplicitato pubblicamente. Ma che è inevitabile nei fatti. Per realizzare la svolta verde saranno necessari massicci investimenti, un indirizzo strategico - che solo la politica può dare - e un maggiore lavoro “di sistema” sullo sviluppo.

L’Europa che si impegna a divenire leader nella riduzione delle emissioni, deve competere con chi di ridurle non ne vuol sentir parlare. Incluse nazioni leader sul piano dell’innovazione tecnologica come Cina e Usa. Ossia, le prime due economie del mondo. Le quali, peraltro, fino all’accordo raggiunto pochi giorni fa, non si sono fatte neanche scrupolo di colpire duramente i concorrenti a colpi di dazi.

Ora, l’Europa deve recuperare grandi ritardi sulle produzioni ad alta tecnologia che possono sostenere la riduzione delle emissioni: parliamo, ad esempio, di batterie al litio per veicoli elettrici, elemento decisivo nell’automotive. Ma anche di sviluppo del digitale, dell’intelligenza artificiale, dell’Internet delle cose e delle reti, inclusa la loro sicurezza.

In questo quadro vediamo le imprese e i Governi di Paesi come la Germania e la Francia cominciare a discutere dei limiti finora posti agli aiuti di Stato in campo industriale. Così come di stimoli per i progetti di sviluppo tecnologico sovranazionali. Si affaccia, dunque, sullo scenario, un’Europa di Stati investitori che orientano lo sviluppo economico. La “mano invisibile” del capitalismo ultra-liberista perde presa e fascino e il progetto di un comune impegno per lo sviluppo si fa necessario. Perché ci si deve confrontare con i giganti che si chiamano, per l’appunto, Stati Uniti e Cina.

Detto questo, un fatto resta chiaro: gli interessi nazionali esisteranno sempre a fianco della necessità di unire le forze all’interno dell’Unione europea per divenire competitivi mentre, al tempo stesso, si batte il sentiero della neutralità ambientale in concorrenza con chi - quella neutralità - non la persegue affatto. Ecco perché l’Italia deve assumere un’attitudine nuova e sedersi a quel tavolo con tedeschi, francesi e tutti i “soci” europei che parteciperanno attivamente a questa nuova fase. Si deve andare a “vedere il gioco” e farne parte. Restare al margine di questa nuova fase sarebbe il suicidio della nazione.

L’anno che si chiude, lo sappiamo, è stato particolarmente duro. Si è pagato il conto del passato. Lo Stato ha dovuto impegnare, nella nuova legge di Bilancio, enormi risorse nella neutralizzazione della clausola di salvaguardia sul debito, evitando l’aumento delle imposte indirette. Si deve anche essere consapevoli che accise e clausola di salvaguardia impegneranno i bilanci pubblici anche negli anni a venire. Sul piano sociale sono stati effettuati primi interventi come quello sull’accesso gratuito agli asili nido e la non autosufficienza. Si deve lavorare ancora in materia previdenziale sulla flessibilità pensionistica tenendo conto soprattutto dei lavori gravosi. E sappiamo che vanno disinnescate gravi questioni industriali come quelle dell’ex-Ilva e di Alitalia.

Ma tali questioni non devono impedirci di vedere l’inevitabilità e l’enorme potenzialità di questo nuovo corso europeo. Esso sarà avviato con o senza di noi. Perciò, questo anno a venire l’Italia non lo può perdere. Ci dobbiamo, prima di tutto, augurare che tutte le forze politiche siano pienamente coscienti che esiste un superiore interesse nazionale che ci unisce tutti. Un interesse che deve essere perseguito perché è per questa via che l’Italia può riavviarsi verso lo sviluppo in una Europa rinnovata.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2019/12/28/2020-italia-con-europa-non-perdere

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