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Statuto dei lavoratori: primi 50 anni con regole da aggiornare

Lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni. Le esigenze di un mercato del lavoro che è mosso da accelerazioni organizzative impensabili solo fino a qualche anno fa impongono una rivisitazione delle regole del gioco in termini di modifica dei singoli istituti nonchè dello stesso impianto normativo complessivo. E’, infatti, il concetto stesso di dualismo tra rapporti di lavoro autonomo e subordinato che va ripensato alla luce dei nuovi modelli economici che avanzano. Quale sarà allora il futuro per lo Statuto dei lavoratori? Se ne parlerà nel corso del VIII Forum TuttoLavoro, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrinalavoro.it, in programma a Modena il prossimo 25 febbraio.

Compleanno speciale per la legge che più di ogni altra ha caratterizzato il mercato del lavoro nel nostro Paese dal dopoguerra ad oggi. Lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni.

Era il 15 maggio del 1970 quando la Camera con i 217 voti favorevoli della maggioranza al governo (democristiani, socialisti unitari e liberali) e dei repubblicani approvò lo Statuto. Missini, Pci e Psiup si erano astenuti: in particolare i partiti di ispirazione comunista, pur essendo favorevoli allo spirito della norma ed avendo contribuito alla sua costruzione, lamentavano la mancanza di tutele per i lavoratori delle imprese più piccole, quelle con meno di 15 dipendenti.

Proprio il sindacato che esprimeva lo spirito di tali forze, la Cgil, con il suo segretario Di Vittorio già al congresso di Napoli del 1952 aveva proposto l’approvazione di uno Statuto con il fine di «portare la Costituzione nelle fabbriche» e di rendere così effettivi tutti quei principi di libertà in materia di lavoro previsti dalla Carta ma rimasti, secondo la forza sindacale, in sostanza inapplicati. Dopo oltre 20 anni la proposta di Di Vittorio fu raccolta nel 1969 dal ministro del Lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, che da quel sindacato proveniva. Brodolini faceva parte del secondo governo guidato da Mariano Rumor.

Il ministro Brodolini affidò ad una commissione guidata da un giovane e brillante giurista, Gino Giugni, la strutturazione della proposta. Il 20 giugno 1969 il Consiglio dei ministri approvò il testo e diede così inizio al cammino parlamentare del disegno di legge “sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”. Erano anni complessi quelli vissuti dal nostro Paese. Pochi mesi dopo l’Italia avrebbe conosciuto “l’autunno caldo” e non ad opera di cambiamenti climatici ma per cambiamenti sociali che facevano ribollire le piazze. Tra il settembre e il dicembre del ’69 il conflitto sociale raggiunse il suo apice. C’erano 32 contratti collettivi di lavoro bloccati che interessavano oltre cinque milioni di lavoratori e ciò alimentava continue tensioni, manifestazioni, scioperi. Il caso che passerà alla storia come emblematico di quella stagione fu la devastazione di alcune delle linee di montaggio dello stabilimento Fiat di Mirafiori avvenuta il 29 ottobre. La Fiat reagì duramente e denunciò 122 operai ritenuti responsabili dell’accaduto. La tensione sociale era altissima e fu solo grazie all’opera di mediazione del ministro del lavoro di allora, Carlo Donat Cattin, democristiano succeduto a Brodolini, che si evitò il peggio dopo il ritiro delle denunce da parte aziendale. Il clima nel Paese era veramente cupo. La tensione raggiunse il suo culmine con la strage di Piazza Fontana del 15 dicembre del ’69, che provocò 17 morti e decine di feriti.

In questo clima il Parlamento varò lo Statuto che i più salutarono, come evidenziò l’ampio consenso parlamentare, con favore ma altri evidenziarono come in quel momento venisse definitivamente superato il concetto di rapporto di lavoro basato su vincoli fiduciari tra impresa e lavoratore che, secondo gli indirizzi del Codice Civile, rappresentava elemento fondamentale per una crescita partecipata e duratura dell’impresa.

La legge si articola in 6 titoli, che racchiudono, nell’ordine, norme concernenti la libertà e dignità dei lavoratori (art. 1-13), la libertà sindacale (art. 14-18), l’attività sindacale (art. 19-27), disposizioni varie e generali (art. 28-32), il collocamento (art. 33-34), le disposizioni finali e penali (art. 35-41): norme quindi che da un lato si rivolgono alla tutela del lavoratore nel rapporto di lavoro e, dall’altro, sostengono l’organizzazione e l’attività del sindacato nel contesto aziendale.

Una delle curiosità che spesso ha accompagnato la lettura dello Statuto è rappresentata dalla “anomala” collocazione della sua “norma bandiera”, l’art. 18. La norma, che come è noto sanzionava con obbligo di reintegrazione obbligatoria per i licenziamenti ritenuti illegittimi, non è collocata nel titolo primo (ove sono contenute disposizioni concernenti la libertà e dignità dei lavoratori) unitamente all’art. 7 che prevede le garanzie nei provvedimenti disciplinari, ma nel titolo secondo (la libertà sindacale). La posizione dell’articolo evidenzia come inizialmente il progetto Giugni prevedeva la reintegrazione obbligatoria unicamente come tutela dei rappresentati sindacali. Insomma, esisteva uno Statuto dei lavoratori, sia pure come proposta organica della commissione Giugni, che non prevedeva la reintegrazione obbligatoria per tutti i lavoratori. Un particolare spesso sottaciuto nell’ampio dibattito che tutt’ora si muove su questo impianto normativo.

Dal ‘70 ad oggi il mondo è cambiato ed anche lo Statuto, pur mantenendo una sua organicità, ha subito diverse innovazioni. La normativa del lavoro è stata segnata da un susseguirsi di “riforme storiche e definitive” destinate però ad essere superate da una ennesima riforma “più storica e definitiva” successiva. Riforme quasi sempre animate dall’italico spirito che vede la necessità del primato della legge per disciplinare il mercato del lavoro lasciando alla normativa contrattuale funzioni marginali anche per l’incertezza dell’inderogabilità delle sue statuizioni per la mancata applicazione dell’art. 39 Cost., questo sì colpevole ritardo del Legislatore.

Dalla costituzione di nuovi modelli di rappresentanza sindacale in azienda ad opera della contrattazione collettiva, le RSU, del 1994 alle strutturali modifiche dell’art. 18 a seguito dell’intervento del governo Monti con la riforma Fornero, legge 92/2012. La maggiore innovazione dello Statuto sicuramente la si deve all’attività normativa del governo Renzi con il Jobs Act del 2015. Ovviamente, nelle migliori tradizioni delle “riforme storiche e definitive”, in questi ultimi mesi già si registrano spinte volte al superamento dello stesso Jobs Act.

Le esigenze di un mercato del lavoro che è mosso da accelerazioni organizzative impensabili solo fino a qualche anno fa, impongono una rivisitazione complessiva delle regole del gioco non solo in termini di modifica dei singoli istituti ma dello stesso impianto organizzativo complessivo. I lavoratori si trovano a saltare tra rapporti iper tutelati ad altri privi di garanzie. Il popolo delle partite IVA costituisce fenomeno che non può più essere ignorato o liquidato con scelte manichee che oscillano tra la difesa contro lo sfruttamento e ad una disciplina economica priva di ogni supporto di welfare. La scelta che in questi giorni il Legislatore, ma anche la suprema Corte di Cassazione (sentenza 1663/2020), sembra voler seguire è quella di mantenere un riferimento strutturale e duale tra lavoratori subordinati ed autonomi. Non si percepisce come invece l’economia digitale richiederà sempre di più la presenza di lavoratori autonomi ma etero organizzati, capaci di lavorare per risultati e la cui opera sarà valutata secondo il raggiungimento degli stessi più che in base al tempo utilizzato per la prestazione. Lo smart working diviene sempre più esperienza vicina al vissuto aziendale anche se le norme di ancoraggio spesso sembrano riferirsi a tradizionali modalità lavorative.

In questo modello economico lo Statuto dei lavoratori nato sulla spinta delle sommosse delle grandi fabbriche che occupavano nello stesso sito migliaia di lavoratori ha ancora una sua ragione? Sicuramente mantiene forte ed attuale il principio che il cittadino al lavoro non perde diritti di libertà. E’ però il concetto stesso di dualismo tra rapporti di lavoro autonomi – subordinati che va ripensato e quindi l’impianto regolatorio stesso dello Statuto rivisto ed ampliato. Già il compianto prof. Biagi auspicava un passaggio da uno Statuto dei lavoratori ad uno dei “Lavori” che potesse dare dignità ad ogni forma del “fare” umano senza obbligatoriamente ricorrere alla riconduzione all’una o all’altra categoria (autonomo e subordinato). La stagione del lavoro a progetto è stata archiviata in nome di un pragmatismo giuridico ma abbiamo anche abbandonato, sbagliando, l’idea della regolamentazione di un lavoro per fasi, per risultato, e quindi abolito una serie di garanzie per lavoratori che saranno sempre di più inseriti in contesti lavorativi innovativi. Questo quindi il futuro da scrivere per lo Statuto. Passare da piattaforma di regole e garanzie per i lavoratori subordinati a modello che consenta di fornire risposte a tutte le tipologie lavori umani partendo dall’evidenza che prima di ogni diritto esiste una opportunità e che un diritto senza un lavoro è inesistente.

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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/02/11/statuto-lavoratori-primi-50-regole-aggiornare

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