• Home
  • News
  • Costo del lavoro: effetti di una normativa inadeguata per imprese e professionisti

Costo del lavoro: effetti di una normativa inadeguata per imprese e professionisti

Si discute molto di come aumentare l’occupazione e abbassare il costo del lavoro. Un piccolo contributo potrebbe venire dal semplificare la legislazione il più delle volte farraginosa e soggetta a mutevole interpretazione, accompagnata da una prassi amministrativa non sempre chiara. Il risultato è che imprese e i professionisti sono spesso lasciati soli nell’applicazione delle norme affidandosi al classico principio del buon senso, che non sempre soddisfa gli organi deputati al controllo. In quali casi la normativa o la prassi complicano la gestione del rapporto di lavoro? Quali sono le possibili soluzioni? Se ne parlerà nel corso del VIII Forum TuttoLavoro, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrinalavoro.it, in programma a Modena il prossimo 25 febbraio.

Negli ultimi anni è aumentato il costo del lavoro. Il problema è che una piccola parte di questo aumento è dovuto ad una legislazione farraginosa, di mutevole interpretazione ed in continuo cambiamento, accompagnata da una prassi amministrativa poco propensa a fornire i dovuti chiarimenti, lasciando, così, le imprese e i professionisti a dover applicare la disposizione di turno in base al classico principio del buon senso, che non sempre soddisfa gli organi deputati al controllo.

E così, questo ulteriore costo del lavoro “indiretto” impedisce alle imprese italiane di competere sui mercati internazionali e ai lavoratori di vedere riconosciuti l’impegno e la costanza del proprio lavoro attraverso una retribuzione congrua e aggiornata agli stili di vita odierna.

Per spiegarmi meglio, farò alcuni esempi che rendono l’idea.

Il 12 marzo 2016 è entrata in vigore la normativa che prevede che “le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro…” (articolo 26, comma 1, decreto legislativo 151/2015).

Ciò sta a significare che qualsiasi altro modo utilizzato per comunicare le dimissioni è considerato inefficace e come tale non sufficiente per risolvere il rapporto di lavoro.

La procedura, però, non ha previsto l’inerzia del lavoratore e cioè il caso in cui il lavoratore esca dall’azienda senza effettuare la procedura online di dimissioni.

Il disinteresse del lavoratore alla procedura informatica ha varie motivazioni. Può essere dovuto ad una mera dimenticanza, piuttosto che a motivi di tempo e di complessità della procedura telematica presente sul sito del Ministero del Lavoro (www.cliclavoro.gov.it), che lo fanno desistere dalla compilazione del format. Oppure per il fatto che utilizzare un soggetto abilitato può richiedere un costo che il lavoratore non può/vuole spendere. Infine, assurdo da dire, alcuni lavoratori sono propensi a farsi licenziare perché, non avendo nell’immediato altra prospettiva lavorativa, acquisiscono il diritto a ricevere l’indennità di disoccupazione (NASpI).

Per quanto l’obbligo comunicativo sia a carico del lavoratore, l’inattività di quest’ultimo ricade sull’azienda che non ha certezza circa la conclusione del rapporto di lavoro. Questo immobilismo rappresenta, quindi, per l’azienda un ulteriore costo, in quanto per poter “staccare la spina” ad un rapporto di lavoro privo della prestazione lavorativa, il datore di lavoro deve avviare una procedura disciplinare per assenza ingiustificata che si conclude con il licenziamento del lavoratore per giusta causa.

Per quanto il licenziamento per giusta causa non preveda l’erogazione di una indennità di preavviso, l’azienda, comunque, dovrà pagare all’INPS il c.d. ticket licenziamento, dovuto dal datore di lavoro privato in caso di licenziamento di un lavoratore assunto a tempo indeterminato (articolo 2, commi 31-35, della Legge 92/2012).

Ricordo che il contributo, per l’anno 2020, è pari a 503,30 euro (41% di 1.227,55 euro) per ogni anno di lavoro effettuato, fino ad un massimo di 3 anni (l’importo massimo del contributo è pari a 1.509,90 euro – arrotondato alle 2 cifre – per rapporti di lavoro di durata pari o superiore a 36 mesi).

La soluzione: prevedere una comunicazione del datore di lavoro in caso di inerzia del lavoratore, con la quale si invita quest’ultimo ad adempiere alla procedura telematica entro una determinata tempistica, al di là della quale si dà per concluso il rapporto di lavoro per “fatti concludenti”.

Matrimonio e dimissioni online

Sempre in materia di dimissioni, la procedura telematica è prevista anche nel caso in cui la lavoratrice sia nel periodo protetto dall’articolo 35, comma 4 del D.L.vo n. 198/2006, che prevede l’obbligo di convalidare le dimissioni, presso l’Ispettorato del Lavoro, qualora la dipendente sia nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione stessa.

Quindi ricapitolando, la lavoratrice deve effettuare la procedura telematica, poi andare presso l’ispettorato del lavoro per farsi convalidare le dimissioni. La cosa kafkiana è che uno dei soggetti abilitati alla procedura telematica di dimissioni è proprio l’ispettorato del lavoro, per cui la lavoratrice potrebbe, paradossalmente, trovarsi nella situazione di richiedere contemporaneamente, allo stesso Ispettorato del lavoro, due procedure: le dimissioni on-line e poi, su queste, la convalida ai sensi dell’articolo 35, del D.L.vo n. 198/2006.

Ricordo che la convalida delle dimissioni, oltre che alle lavoratrici nel periodo su evidenziato è prevista, obbligatoriamente, anche per le lavoratrici ed i lavoratori durante i primi tre anni di vita del bambino. La differenza è che per questi ultimi il legislatore ha escluso l’applicazione della procedura telematica, ritenendo sufficiente la convalida presso l’ispettorato del lavoro.

La soluzione: il Ministero del Lavoro avrebbe potuto interpretare, per analogia, l’esclusione del periodo protetto di maternità a quello previsto per il matrimonio, impedendo questo inutile ulteriore adempimento.

Tutele in caso di licenziamento illegittimo

E passiamo ad analizzare una iniquità per i lavoratori.

Il Jobs Act, tra le altre cose, ha creato le c.d. tutele crescenti e cioè una nuova formulazione di tutele, in luogo dell’articolo 18, per tutti i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 (data di vigenza del D.L.vo n. 23/2015).

In pratica, vengono previste tutele diverse anche per lavoratori presenti nella medesima azienda.

Ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 si applicano le tutele previste dall’articolo 18 (così come modificate dalla Riforma Fornero del 2012), mentre ai lavoratori assunti dopo tale data si applicano le nuove tutele crescenti, con differenti risvolti in caso di licenziamento illegittimo.

Per semplificare il mio pensiero, propongo un esempio.

Azienda con più di 15 dipendenti che intende sopprimere una mansione. Detta mansione è ricoperta da due lavoratori assunti a tempo indeterminato: uno nel 2010 e l’altro nel 2016. L’azienda dopo aver tentato, invano, la ricollocazione, decide di procedere al licenziamento. A questo punto le strade dei due lavoratori si dividono, in quanto il lavoratore in tutele crescenti (quello assunto nel 2016) può essere licenziato immediatamente (previo preavviso o relativa indennità), mentre per il lavoratore in articolo 18 (quello assunto nel 2010) l’azienda deve prima procedere al tentativo obbligatorio di conciliazione, presso l’Ispettorato del lavoro, previsto dalla riforma Fornero. Tentativo che può concludersi anche con una modifica dell’oggetto iniziale (licenziamento per GMO), in quanto le parti possono accordarsi, ad esempio, per un demansionamento del lavoratore.

Qualora i lavoratori licenziati procedano ad impugnare il licenziamento ed a ricorrere al giudice del lavoro, anche qui le strade possono dividersi. Infatti, il giudice potrebbe considerare illegittimo il licenziamento per manifesta insussistenza del fatto, il che porterebbe il lavoratore in “articolo 18” ad essere reintegrato e il lavoratore a “tutele crescenti” a ricevere esclusivamente una indennità risarcitoria onnicomprensiva, da un di minimo 6 a un massimo 36 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

In definitiva, due lavoratori con la medesima mansione ma con tutele completamente differenti.

La soluzione: riformulare la normativa sui licenziamenti uniformando le tutele per tutti i lavoratori.

Una delle caratteristiche delle tutele crescenti era la certezza del risarcimento al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, calcolato su un unico indicatore oggettivo: l’anzianità di servizio del lavoratore. Più lunga era la durata del rapporto di lavoro e maggiore era il risarcimento. Si passava da un minimo di 6 ad un massimo di 36 mensilità che il datore di lavoro era tenuto a corrispondere al lavoratore qualora il giudice avesse valutato illegittimo il licenziamento comminato.

Con la sentenza n. 194/2018, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore a tutele crescenti, in quanto il meccanismo di quantificazione – un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” – rende l’indennità “rigida” e “uniforme” per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, così da farle assumere i connotati di una liquidazione “forfetizzata e standardizzata” del danno derivante al lavoratore dall’ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.

Non entrando nel merito della sentenza, ci si sarebbe aspettato un intervento del legislatore di revisione delle regole di calcolo per renderle coerenti con la sentenza, ma nel rispetto dell’obiettivo che si era posto il Jobs Act e cioè dare, a priori, un valore oggettivo al risarcimento del danno, non lasciando margini di discrezionalità al giudice che doveva avere come unico compito quello di valutare la legittimità, o meno, del licenziamento comminato dall’azienda.

Ad oggi i giudici possono spaziare in una forbice che va da 6 a 36 mensilità, e calcolare l’indennizzo in base all’anzianità di servizio ma tenendo conto anche del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica e del comportamento e condizioni delle parti. Quest’ultimo elemento è altamente soggettivo e può creare difformità applicative: a situazioni analoghe, indennizzi diversi.

La soluzione: il legislatore dovrebbe intervenire sul decreto legislativo 23/2015, rivedendo i parametri per il calcolo del risarcimento al lavoratore, in linea con la sentenza della Consulta e in coerenza con gli obiettivi di certezza del Jobs Act.

Con il decreto Dignità il legislatore ha apportato alcune modifiche al contratto di somministrazione di lavoro e lo ha fatto per parificare i lavoratori somministrati ai dipendenti, da punto di vista delle regole del gioco.

L’equiparazione ha interessato la durata massima, l’obbligo di causale e l’inserimento di una percentuale massima.

La regola che è stata esclusa al lavoratore somministrato è quella che prevede la possibilità di richiedere il diritto di precedenza, nel caso in cui il rapporto duri più di sei mesi.

Mi spiego meglio: se a gennaio del 2019, per ricoprire temporaneamente una mansione, l’azienda assume un lavoratore a tempo determinato e avvia una somministrazione a termine, superati i sei mesi di lavoro, solo il lavoratore dipendente acquisisce, alla cessazione del rapporto, il diritto di precedenza su eventuali assunzioni a tempo indeterminato per le medesime mansioni effettuate. Quindi due soggetti, che hanno lavorato per lo stesso periodo e le medesime mansioni, verranno trattati in modo diverso.

La soluzione: prevedere il diritto di precedenza sui rapporti a tempo indeterminato, presso l’azienda utilizzatrice, qualora i lavoratori somministrati superino i sei mesi di lavoro.

Il Ministero del lavoro, con la circolare 17/2018, ha affermato che “la proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine, ... Pertanto, non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo, anche se ciò avviene senza soluzione di continuità con il precedente rapporto.”

Questa indicazione va in contrasto con quanto, lo stesso Ministero del Lavoro aveva affermato nel 2002, con la circolare n. 42, nella quale, parlando proprio di proroghe (paragrafo 8) asseriva: “fermo restando che la proroga deve riferirsi alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato, ciò implica la possibilità che le ragioni giustificatrici della proroga, oltre che prevedibili sin dal momento della prima assunzione, siano anche del tutto diverse da quelle che hanno determinato la stipulazione del contratto a termine purché riconducibili a ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui all'art. 1 del decreto.”.

Non si comprende il concetto legislativo sulla base del quale il Ministero abbia variato la sua interpretazione storica, considerando il fatto che la proroga dovrà, comunque, rientrare sempre nel limite di durata massima contrattualmente o legalmente prevista.

La soluzione: ripristinare l’interpretazione della circolare n. 42/2002, ritenendo possibile la proroga anche qualora l’azienda modifichi la causale di riferimento.

Questi sono solo alcuni esempi di come la normativa o la prassi amministrativa possano complicare la gestione del rapporto di lavoro, non soltanto per l’azienda ma anche per i lavoratori. Detta complicazione si ripercuote negativamente sull’occupazione e sul suo costo.

Se vogliamo realmente aumentare l’occupazione e ridurre il costo del lavoro, il primo obiettivo è quello di stabilizzare la normativa e renderla più fruibile attraverso disposizioni semplici e di chiara lettura interpretativa.

Concludo ricordando quanto previsto dall’articolo 6, comma 4, della Legge n. 212 del 27 luglio 2000: "Al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso dell'amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente".

Il promemoria è d’uopo in quanto non di rado detta disposizione viene disattesa.

Il FORUM è realizzato in collaborazione con TuttoLavoro SUITE, la banca dati per i professionisti del lavoro già scelta da INPS e INAIL per i propri funzionari. Attiva online una prova Gratuita di 30 giorni

Le considerazioni contenute nel presente contributo sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/02/18/costo-lavoro-effetti-normativa-inadeguata-imprese-professionisti

Iscriviti alla Newsletter




È necessario aggiornare il browser

Il tuo browser non è supportato, esegui l'aggiornamento.

Di seguito i link ai browser supportati

Se persistono delle difficoltà, contatta l'Amministratore di questo sito.

digital agency greenbubble