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Cassa integrazione: come cambiano le procedure per i datori di lavoro

La legge di conversione del decreto Cura Italia ha ulteriormente semplificato la procedura di concessione degli ammortizzatori sociali per le aziende che hanno dovuto sospendere o ridurre l’attività produttiva a causa della crisi epidemiologica. Per esempio, non sono più richiesti l’informazione, la consultazione e l’esame congiunto e quindi, sotto l’aspetto operativo, i datori di lavoro che dovessero accedere alla CIGO o al FIS o alla richiesta integrativa verso i Fondi bilaterali alternativi e delle Province Autonome di Trento e Bolzano, potranno procedere più speditamente. Viene poi estesa la platea dei soggetti beneficiari dei trattamenti integrativi ai lavoratori assunti fino al 17 marzo anche a seguito di rinnovo o proroga di vecchi contratti a termine. Come cambia, di conseguenza, il modus operandi dei datori di lavoro?

Con la pubblicazione sul S.O. alla Gazzetta Ufficiale del 29 aprile 2020, della legge 24 marzo 2020, n. 27 che ha convertito, con modificazioni, il decreto Cura Italia (D.L. n. 18/2020), importanti novità sono intervenute in ordine alla procedura di concessione degli ammortizzatori sociali dovuti alla crisi epidemiologica.

La conversione del D.L. n. 18/2020 è avvenuta con significativi cambiamenti e, almeno per quel che riguarda l’oggetto della presente riflessione, le questioni più rilevanti hanno riguardato sia modifiche all’iter procedimentale di concessione dell’integrazione salariale ordinaria, dell’accesso all’assegno ordinario del FIS, che della Cassa in deroga, oltre che dei Fondi bilaterali alternativi ex art. 27 del D.L.vo n. 148/2015 o ai Fondi delle Province Autonome di Trento e Bolzano ex art. 40 del predetto Decreto. Le modifiche non hanno, però, toccato l’iter della CISOA, la cassa integrazione del settore agricolo prevista dall’art. 8 della legge n. 457/1972 che, peraltro, non era stata prevista dal D.L. n. 18/2020, ma richiamata, unicamente, dall’INPS con la circolare n. 47 del 28 marzo scorso.

La legge di conversione, come vedremo, ha “inglobato” le norme varate per le “zone rosse e gialle” della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna, con il D.L. n. 9/2020, lasciato decadere.

Ma, andiamo con ordine.

La novità principale, inserita all’interno dell’art. 19, concerne l’iter procedimentale antecedente la presentazione dell’istanza per la richiesta della integrazione salariale ordinaria e per l’accesso all’assegno ordinario per la causale “COVID-19 nazionale”: viene eliminata l’obbligatorietà del passaggio attraverso la via indicata dall’art. 14 del D.Lgs. n. 148/2015, sia pure nella versione accelerata (e telematica) prevista dal comma 4. Ciò appare in linea con quanto l’INPS ha, sin dall’inizio, richiesto con la circolare n. 47 ove si “accontentava” della sola trasmissione dell’elenco dei lavoratori destinatari.

Da quanto appena detto discende che l’informazione, la consultazione e l’esame congiunto richiesto e che, sotto l’aspetto operativo hanno creato qualche problema, non sono più richiesti e, quindi, i datori di lavoro che dovessero accedere al CIGO o al FIS o alla richiesta integrativa verso i Fondi bilaterali alternativi e delle Province Autonome di Trento e Bolzano, potranno procedere più speditamente, essendo già stati eliminati altri passaggi che in via ordinaria vengono richiesti (relazione tecnica, produzione di documentazione, ecc.).

Ovviamente, è la causale coronavirus che comporta la semplificazione: per tale integrazione “speciale” non valgono una serie di condizioni previste come regola generale, atteso che i periodi COVID-19 sono “neutri” rispetto alla durata massima, non c’è alcun contributo addizionale, non c’è il limite di 1/3 delle ore lavorabili nel biennio mobile da parte dal personale in forza nel semestre precedente nell’unità produttiva, non valgono i termini ordinari per la presentazione delle istanze (per tale motivazione la scadenza è di 4 mesi dalla fine del mese al quale si riferisce la sospensione o la riduzione di orario) e non viene richiesto il requisito di 90 giorni di anzianità lavorativa nell’unità produttiva per la quale si richiede l’intervento.

In ordine a quest’ultimo punto ritengo opportuno sottolineare come, per effetto dell’art. 41 del decreto Liquidità (D.L. n. 23/2020), attualmente all’esame del Parlamento, sono “coperti” dall’intervento integrativo non soltanto i lavoratori in forza alla data del 23 febbraio u.s., ma anche coloro che sono stati assunti fino al successivo 17 marzo. Ricordo, peraltro, che la circolare n. 47 aveva, già, ritenute integrabili situazioni legate a cambi di appalto o cessioni di azienda (o ramo di essa) ex art. 2112 c.c., avvenute successivamente al 23 febbraio, ritenendo, in questo caso, provata la presenza del lavoratore presso l’unità produttiva considerata, a prescindere dalla titolarità del rapporto in capo, ora, al nuovo datore di lavoro.

Ma quale è l’efficacia di tale nuova disposizione sulle istanze integrative?

A mio avviso, al momento, è ben poca cosa in quanto l’iter procedimentale che ha visto coinvolti centinaia di migliaia di datori di lavoro e milioni di lavoratori (il discorso concerne anche la CIG in deroga per la quale è stato introdotto un correttivo specifico che esaminerò più avanti) è, in gran parte dei casi, terminato: probabilmente, ce se ne potrà avvalere nel caso in cui, come sembra da anticipazioni dei “media”, il Governo prorogherà l’integrazione per COVID-19 per altre 9 settimane.

Una frase sostanzialmente analoga è stata, poi, inserita, nell’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 22, che, rinviando ai singoli accordi-quadro regionali, stabilisce che l’accordo sindacale, oltre che per i datori di lavoro con organico inferiore fino alle 5 unità non è richiesto per quelle aziende che, obbedendo ad un provvedimento di urgenza emanato a fronte della grave crisi epidemiologica, hanno fermato la propria attività.

Il Legislatore utilizza le seguenti parole “hanno chiuso l’attività in ottemperanza ai provvedimenti di urgenza emanati per far fronte all’emergenza epidemiologica da COVID-19”: il tenore letterale della disposizione, sembra indicare che nelle aziende con oltre 5 dipendenti che continuino ad operare, sia pure ad orario ridotto, ci debba essere un accordo sindacale, la cui ragione potrebbe essere quella di non “ghettizzare” nella integrazione in deroga solo alcuni dipendenti tra quelli che svolgono uguali mansioni.

Per la verità, già nella prima fase, diverse Regioni, anche in mancanza dell’accordo sindacale (che postula, comunque, una informazione, consultazione ed esame congiunto, sia pure accelerati) hanno proceduto all’esame delle istanze, sulla base di una dichiarazione di parte datoriale che dava per svolto l’iter procedimentale, senza raggiungimento dell’accordo, con una “sottolineatura” (v., ad esempio, Campania) che l’intervento integrativo era necessario per l’incolumità dei lavoratori e la salvaguardia dell’azienda.

Come dicevo in premessa, il nuovo testo assorbe e modifica i contenuti del D.L. n. 9/2020: con i commi 10-bis, 10-ter e 10-quater dell’art. 19 la CIGO o il FIS con causale COVID-19 può essere richiesta per altri 3 mesi (con cumulo delle 9 settimane riconosciute in tutto il Paese) per le unità produttive ubicate nelle “zone rosse” (Codogno + undici comuni in Lombardia e Vò in Veneto), o per i lavoratori con domicilio o residenza nelle stesse zone e con l’esclusione dell’ulteriore mese previsto nelle “zone gialle”. Tale intervento è, nella sostanza, replicato ai commi 8-bis, 8-ter, 8-quater e 8-quinquies, dell’art. 22 per la Cassa in deroga ove, riprendendo anche una previsione già contenuta nel D.L. n. 9/2020, si riafferma che la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna per le “zone gialle” possono prevedere integrazioni salariali in deroga per un massimo di 4 settimane.

Altra modifica riguarda il comma 4 dell’art. 22 (ultimo periodo) che riprende, l’art. 2 del Decreto Interministeriale 23 marzo 2020: i datori di lavoro plurilocalizzati, con unità produttive ubicate in più Regioni o Province Autonome (non c’è, espresso il limite di 5, ma si rimanda al suddetto D.M. per la quantificazione che lo stabilisce in modo chiaro), possono presentare un’unica istanza, in via telematica, al Ministero del Lavoro, Direzione Generale degli Ammortizzatori Sociali e della Formazione, secondo le indicazioni fornite dalla circolare n. 8/2020 (ma non in bollo, secondo le modifiche introdotte con l’art. 41 del D.L. n. 23/2020). La circolare parlava della necessità di un accordo sindacale: sicuramente, queste imprese, dislocate in ambito nazionale, lo avranno, senz’altro, sottoscritto ma, alla luce delle novità introdotte, non esso appare più necessario.

L’approvazione ministeriale riguarderà il periodo delle 9 settimane (calcolabili sull’unità produttiva e non sulle persone, secondo le determinazioni espresse nella circolare INPS n. 58/2009) e quelle ulteriori per le zone rosse e gialle, qualora l’impresa richiedente abbia unità produttive in tali territori (non mi sembra che dopo “l’inglobamento” delle previsioni del D.L. n. 9/2020, lasciato decadere, siano previste delle eccezioni).

La legge di conversione tratta, poi, la questione dei contratti a termine prorogati o rinnovati in periodo di integrazione salariale sui quali mi sono già soffermato su questa rivista con riflessioni che, sia pure sinteticamente, vado a ricapitolare.

Con una norma di interpretazione autentica, l’art. 19-bis, il Legislatore ha inteso preservare dal rischio della disoccupazione quei lavoratori a termine o in somministrazione che, messi in integrazione salariale dal proprio datore di lavoro a seguito della crisi epidemiologica, al termine del contratto sono stati licenziati in quanto lo stesso non è stato prorogato o rinnovato o corrono il rischio di esserlo, a breve. E’ una situazione nuova ed imprevedibile anche per le dimensioni della crisi, che il nostro Paese si trova ad affrontare ed è per questo che l’interpretazione autentica è stata utilizzata in modo inusuale (normalmente non si cambia il testo ma se ne chiarisce il significato) con una riscrittura della disposizione che, però, essendo da “interpretazione autentica” come scritto nella rubrica, vale anche per il passato: in tal modo, viene sanato, sanato il comportamento di quei datori di lavoro che sia perché avevano investito in formazione sui lavoratori, sia perché avevano aderito a richieste sindacali, avevano rinnovato o prorogato i contratti.

La disposizione di per se stessa ha, soltanto, un significato “difensivo”, in quanto assicura un trattamento integrativo anche a chi, alla data del 23 febbraio 2020, in forza presso un datore di lavoro, era titolare di un contratto in scadenza: essa si inquadra in un disegno complessivo ove, in tempi di pandemia, si è voluta fornire una tutela generale che si evidenzia anche nella sospensione, per sessanta giorni, di ogni licenziamento per giustificato motivo oggettivo e nello “stop” temporaneo alle procedure collettive di riduzione di personale.

Passo, ora, ad esaminare i contenuti della novità introdotta.

Essa è agganciata, unicamente, all’emergenza coronavirus:

“Considerata l’emergenza epidemiologica da COVID-.19, ai datori di lavoro che accedono agli ammortizzatori sociali di cui agli articoli da 19 a 22 del presente decreto, nei termini ivi indicati, è consentita la possibilità, in deroga alle previsioni di cui agli articoli 20, comma 1, lettera c), 21, comma 2, e 32, comma 1, lettera c), del D.L.vo n. 81/2015, di procedere nel medesimo periodo, al rinnovo o alla proroga dei contratti a tempo determinato, anche a scopo di somministrazione”.

Questo afferma il Legislatore che, così facendo, ha derogato agli articoli:

a) 20, comma 1, lettera c) il quale non consente l’instaurazione di un rapporto a tempo determinato presso unità produttive ove sono in corso sospensioni a zero ore o riduzioni di orario in regime di integrazione salariale, che riguardino dipendenti adibiti a mansioni alle quali si riferisce il contratto a termine;

b) 21, comma 2, secondo il quale se un lavoratore viene riassunto a tempo determinato entro dieci giorni (di calendario) dalla scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero di venti giorni (anche questi di calendario) dalla data di scadenza di un contratto superiore a tale limite, il secondo contratto si trasforma a tempo indeterminato;

c) 32, comma 1, lettera c) che vieta, in perfetta analogia con l’art. 20, comma 1, lettera c), l’utilizzazione di lavoratori in somministrazione presso datori di lavoro che hanno messo in integrazione salariale a zero ore o ad orario ridotto propri dipendenti che sono adibiti alle stesse mansioni ai quali si riferiscono i contratti di somministrazione.

Tutto questo, a mio avviso, fa scattare alcune considerazioni, non dimenticando, innanzitutto, la necessità che le Regioni superino quanto affermato in molti accordi-quadro nei quali si dispone la tutela dei lavoratori a tempo determinato fino alla scadenza del contratto: ovviamente, la norma legale supera quella contrattuale.

Per la prima considerazione occorre far riferimento alla relazione tecnica di accompagnamento che ha portato all’approvazione della novità: attraverso l’integrazione salariale, dei lavoratori a termine che, in caso di risoluzione del rapporto sarebbero rimasti disoccupati, il trattamento integrativo costa meno del trattamento di NASpI.

La seconda riflessione concerne l’istituto della proroga ove il Legislatore non ha minimamente toccato l’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2015, come modificato dal D. L. n. 87/2018: ciò significa che il primo contratto può essere liberamente prorogato se si resta all’interno della soglia dei 12 mesi ma, superato tale limite, occorre inserire una delle causali individuate dall’art. 19, comma 1, che sono di difficile gestione, con la sola eccezione della causale per motivi sostitutivi. Parlando di proroga del contratto a termine nei primi 12 mesi, resta pienamente in vigore, sotto l’aspetto amministrativo la circolare n. 17/2018 del Ministero del Lavoro (con una interpretazione che desta qualche perplessità), secondo la quale se muta la motivazione iniziale, pur continuando il lavoratore, con il proprio consenso, a svolgere le medesime mansioni, occorre procedere ad un rinnovo del contratto, senza soluzione di continuità, anche se si resta nell’arco temporale dei 12 mesi.

La terza riguarda del contratto: non c’è trasformazione a tempo indeterminato se esso avviene nel c.d. “periodo proibito” al quale ho fatto cenno pocanzi, ma il datore di lavoro può procedere soltanto se inserisce una delle causali “impossibili” previste dall’art. 19, comma 1 (con la sola eccezione delle ragioni sostitutive). Il datore di lavoro, laddove, sia dovuto, è tenuto a versare lo 0,50% di contributo addizionale progressivo.

La quarta considerazione concerne un altro aspetto della norma testè introdotta: il Legislatore parla di proroghe e rinnovi di contratti in corso o già esistenti (e scaduti durante il periodo di integrazione salariale), ma non consente l’assunzione, per la prima volta, di un lavoratore a termine, a tempo indeterminato o l’utilizzazione di un somministrato, pur in presenza del COVID-19, per mansioni uguali a quelle dei lavoratori sospesi o ad orario ridotto.

Ma, cosa deve fare un datore di lavoro che, con provvedimenti integrativi in corso, dovesse includere, ora, lavoratori a termine ai quali sia stato prorogato o rinnovato il contratto e che, per effetto della vigenza delle disposizioni precedenti, siano stati esclusi dalla integrazione salariale?

Dovrà procedere ad una integrazione delle precedenti istanze, cosa possibile alla luce dei chiarimenti amministrativi offerti dall’INPS.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/05/01/cassa-integrazione-cambiano-procedure-datori-lavoro

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