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Viaggio nella responsabilità del datore di lavoro da Covid-19. Certezza del diritto in lockdown!

Il nodo della potenziale responsabilità per infortunio sul lavoro da Covid-19 che minaccia gli imprenditori non appare semplice da sbrogliare. Ma, rispettate le peculiari raccomandazioni contenute nel decreto Rilancio e quelle del protocollo Governo e Parti sociali, ben difficilmente potrà essere attivata l’azione di regresso dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro nei casi di certificazione di contagio di un dipendente: la puntuale applicazione delle misure di contenimento previste sul luogo di lavoro o, comunque, l’assenza di colpa nella eventuale condotta che ha causato l’infortunio, appare logicamente sufficiente a interrompere ogni nesso di causalità sotteso al contagio aziendale. E allora anche la nuova disposizione del decreto Liquidità è inutile e fonte di ulteriore incertezza del diritto…

In chiave giuslavoristica e, soprattutto, in relazione agli obblighi di sicurezza e salute sul lavoro, la produzione legislativa e amministrativa, decisamente alluvionale e disordinata, di queste settimane ha generato un quadro di profonda incertezza che, paradossalmente, potrebbe avere l’effetto di rallentare la vera ripartenza delle attività industriali.

In effetti, la matassa in ordine ai potenziali rischi, anche di afflato penalistico, in particolare la potenziale responsabilità per infortunio sul lavoro da infezione Covid-19, che minacciano i datori di lavoro, appare non semplice da sbrogliare: paradossalmente, mentre il Paese si prepara a “ripartire”, con l’entrata in vigore del D.L. n. 33 del 16 maggio, del D.P.C.M. 17 maggio e del D.L. n. 34 del 19 maggio, proprio il settore imprenditoriale, che più di ogni altro dovrebbe essere sostenuto e indirizzato a creare valore, potrebbe essere costretto a stagnare in un perdurante e strisciante “lockdown autoinflitto” per timore di disposizioni confuse e informazioni raffazzonate.

È opportuno, per quanto possibile, cercare di riportare un po’ di chiarezza, partendo, innanzitutto, dall’infortunio sul lavoro da Covid-19.

Ai sensi dell’art. 42, comma 2, del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, nei casi accertati di infezione da Covid-19, il medico certificatore redige il consueto certificato e lo trasmette all’INAIL al fine di permettere l’attivazione della consueta tutela per gli infortuni occorsi sul lavoro; obbligo di comunicazione all’Istituto assicuratore che, ad ogni modo, deve continuare ad essere assolto anche dai datori di lavoro - pubblici o privati - ai sensi dell’art. 53 del D.P.R. n. 1124 del 30 giugno 1965 con termine di decorrenza dalla conoscenza positiva dell’avvenuto contagio, ossia una informazione che, per ragioni di privacy, potrà pervenire solo dal lavoratore.

A tale disposizione alcuni commentatori e molti organi di stampa collegano la circolare INAIL n. 13 del 3 aprile 2020, ossia un atto di mero indirizzo interno alla Amministrazione emittente, che, per un verso, si spinge sino a considerare i casi di positività al Covid-19 degli operatori sanitari certificati sul luogo di lavoro sostenuti da una “presunzione semplice professionale” di infortunio sul lavoro a causa dell’esposizione di detti lavoratori ad un alto rischio di contagio, e, per altro verso, con locuzioni di rara imprecisione e vaghezza, elenca ulteriori categorie professionali per le quali varrebbe la medesima presunzione.

Orbene, poiché a mente dell’art. 2729 c.c., le presunzioni semplici sono rimesse al prudente apprezzamento del giudice e posto che questi può ammettere solo quelle presunzioni connotate da gravità, precisione e concordanza, se la prima ipotesi di presunzione appare quantomeno affievolirsi, il successivo claudicante elenco difficilmente potrà trovare concreta applicazione.

Più interessante risulta la lettura dell’art. 1, comma 15, del D.L. n. 33/2020, che dispone che il mancato rispetto “dei protocolli o delle linee guida, regionali, o, in assenza, nazionali”, di cui al comma precedente, facendo quindi venir meno gli “adeguati livelli di protezione”, determina la “sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”.

In primo luogo, a conferma di una tecnica redazionale profondamente mediocre che comporta non poca incoerenza normativa, occorre evidenziare che, per un verso, nel D.L. n. 33/2020 scompare ogni riferimento specifico al protocollo tra Governo e Parti sociali del 24 aprile, poiché la centralità è assunta da protocolli e linee guida adottati dalle Regioni o dalla Conferenza delle regioni, mentre, per altro verso, il D.P.C.M. 17 maggio 2020, all’art. 2, continua a richiamare in modo esclusivo il predetto Protocollo del 24 aprile.

In secondo luogo, tanto le misure di cui al Protocollo Governo - Parti sociali, quanto quelle previste dal predetto art. 1, commi 14 e 15 (peraltro caratterizzati da formulazioni decisamente contorte), sono da considerarsi misure di contenimento del contagio e, pertanto, la loro violazione rientra nel sistema sanzionatorio previsto dall’art. 4 del D.L. n. 19 del 25 marzo 2020.

E, infatti, l’art. 2, comma 1, del D.L. n. 33/2020, per il caso di violazione delle sue disposizioni, prevede l’attivazione di tale meccanismo sanzionatorio.

Tuttavia, suscita non poche perplessità l’incipit dell’articolo invocato, giacché parrebbe legare la predetta reazione dell’ordinamento alla condizione che la condotta illecita rientri tra le fattispecie previste e punite dall’art. 650 c.p.: seguendo una pessima abitudine legislativa, il Governo ha fatto ricorso a una norma penale in bianco (ossia una fattispecie nella quale la norma di rango primario rinvia alla fonte regolamentare) e a carattere sussidiario.

Peraltro, e questo è l’aspetto più grave in quanto probabilmente svilisce la portata sanzionatoria della disposizione, poiché l’art. 650 c.p. punisce l’inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità, ossia atti caratterizzati da individualità e specificità, e non delle norme, generali e astratte, quali sono quelle di cui al D.L. n. 33/2020, è verosimile ritenere che tra alcuni mesi le aule penali saranno ingolfate da procedimenti già incanalati su binari morti.

Tralasciando il D.L. in commento e l’infelice formulazione del suo art. 2, è opportuno ribadire che ciò che conta, invece, è l’eventuale autonoma rilevanza penale di una condotta contrastante con i protocolli e gli altri atti diretti al contenimento del contagio sui posti di lavoro; condotta che, si badi, deve di per sé integrare una fattispecie di reato già prevista dal codice penale o dal D.Lgs. n. 81/2008.

In altre parole, affinché una condotta (da intendersi anche in senso omissivo) contrastante con le misure previste dai citati protocolli e linee guida (art. 1, comma 14, D.L. n. 33/2020) o del Protocollo tra Governo e Parti sociali del 24 aprile 2020 abbia rilievo penalistico, è necessario che quelle cautele, compresse o inattuate, siano riconducibili a fattispecie contravvenzionali previste dal D.Lgs. n. 81/2008 ovvero anche delittuose previste dal codice penale.

Eppure, a conferma di una fortemente confusa e alluvionale produzione legislativa, possono dunque delinearsi i seguenti scenari.

In caso di mancata osservanza delle misure di contenimento del Covid-19 previste dai protocolli, dalle linee guida o dagli altri atti di cui all’art. 1, comma 14, del D.L. n. 33/2020, l’Autorità competente potrà disporre la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.

Invece, per il caso di inadempimento delle misure di contenimento del Covid-19 previste dal protocollo tra Governo e Parti sociali del 24 aprile, troverà applicazione l’art. 4, commi 1 e 2, del D.L. n. 19/2020, e, ai sensi del comma 3 della medesima disposizione, l’autorità di vigilanza accertatrice dovrà attenersi alla procedura di cui alla legge n. 689 del 24 novembre 1981, giacché il legislatore emergenziale ha optato per questa soluzione ed escluso, quindi, l’applicazione dell’art. 301 del D.Lgs. n. 81/2008. Ne consegue, evidentemente, che l’autorità irrogante non avrà, contestualmente, il potere di prescrivere misure di adeguamento alle prescrizioni anti contagio.

Infine, solo qualora la condotta (si ricorda, anche nell’accezione omissiva) contraria alle cautele previste dai protocolli e linee guida previsti dal D.L. n. 33/2020, così come dal Protocollo del 24 aprile, tutti atti diretti al contenimento del contagio da Covid-19, sia riconducibile a una fattispecie di reato prevista e punita dal Codice penale o dal D.Lgs. n.81/2008, potrà essere contestato l’illecito penale.

Pertanto, è ammissibile concludere che, rispettate le peculiari raccomandazioni di cui al comma 14 dell’art. 1 del D.L. n. 33/2020 e quelle del protocollo Governo e Parti sociali, ben difficilmente potrà essere attivata l’azione di regresso dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro nei casi di certificazione di contagio di un dipendente: la puntuale applicazione delle misure di contenimento previste sul luogo di lavoro o, comunque, l’assenza di colpa nella eventuale condotta causativa dell’infortunio, appare logicamente sufficiente a interrompere ogni nesso di causalità sotteso al contagio aziendale.

D’altra parte, la Suprema Corte ha recentemente riaffermato principi consolidati: “[l]’art. 2087 c.c. non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva (vedi sul punto ex plurimis Cass. 23/5/2019, n. 14066), essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Né può desumersi dall’indicata disposizione un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero”. […] Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. 15/6/2016, n. 12347; Cass. 10/6/2016, n. 11981) non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto” (v. Cass. 11/2/2020, n. 3282). A maggior ragione, sempre dando per attuate le misure di contenimento, una eventuale contestazione di una condotta penalmente rilevante fondata sulla presunzione semplice deve considerarsi un’ipotesi peregrina e, se del caso, apparirebbe perlopiù un’iniziativa di avventuroso divertissement di qualche Procura.

Sicchè, l’INAIL, tanto con il comunicato stampa del 15 maggio che, successivamente, con la circolare n. 22 del 20 maggio, null’altro fa, ne, del resto, avrebbe potuto fare, se non precisare e ribadire che dal riconoscimento dell’infezione da Covid-19 come infortunio sul lavoro non discende automaticamente l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro: i presupposti per l’erogazione di un indennizzo INAIL per infortunio sul lavoro, sui quali esclusivamente può operare quella presunzione semplice, sono certamente differenti da quelli legati all’accertamento giudiziale di una responsabilità civile o penale della parte datoriale ma anche all’esercizio dell’azione di regresso.

Per completezza, occorre far menzione del nuovo art. 29 bis introdotto nella legge di conversione del decreto Liquidità, D.L. n. 23/2020.

Per dignità professionale, non può tacersi né la formulazione al solito approssimativa, né, ed è l’aspetto più demotivante, l’evidente banalità di una disposizione che, qualora approvata, apparirebbe sostanzialmente inutile o, nella prospettazione più infausta - ma non peregrina -, peggiorativa in termini di certezza del diritto.

Infatti, il precetto in questione mira a far confluire surrettiziamente nell’art. 2087 c.c., ossia una norma “di chiusura”, indipendente, appositamente costruita per consentire il costante adattamento dell’ordinamento all’evoluzione esperienziale, tecnica e giuridica e quindi necessariamente sprovvista di dettaglio e di diretta sanzionabilità penale, un serie di ipotesi di condotte comprese (i) nel Protocollo Governo - Parti sociali del 24 aprile 2020 e successive modifiche e integrazioni, (ii) nei protocolli o linee guida, regionali o “in mancanza” nazionali, di cui all’art. 1, commi 14 e 15, del D.L. n. 33/2020, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste, e (iii) futuri imprecisati misure e protocolli settoriali.

In altri termini, condotte inquadrate in raccomandazioni, con esclusiva valenza amministrativa, potrebbero rientrare con forza di legge (i.e., la legge di conversione) nell’art. 2087 c.c., la cui ratio legis è, invece, volta a ricomprendere in sè ipotesi e situazioni non espressamente previste, con funzione di adeguamento permanente dell’ordinamento alla sottostante realtà socio-economica, finendo così per ottenere generale legittimazione senza collegamento normativo alcuno con il D.Lgs. n. 81/2008, ossia con l’unica fonte di legge connotata da concreta vis applicativa, in quanto dotata di diretta coattività penale preventivo protettiva.

Al momento, dunque, tale provvedimento potrebbe considerarsi decisamente “inconferente” e, tutt’al più, probabile fonte di ulteriore incertezza del diritto.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/sicurezza-del-lavoro/quotidiano/2020/05/30/viaggio-responsabilita-datore-lavoro-covid-19-certezza-diritto-lockdown

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