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Covid-19: quali impatti sulla gestione contributiva dei lavoratori espatriati

Le limitazioni allo spostamento imposte dall’emergenza sanitaria Covid-19 potrebbero avere delle ripercussioni sul regime previdenziale applicabile ai lavoratori espatriati poi trovatisi nell’impossibilità di rientrare nel luogo abituale di lavoro; sia in termini di legislazione applicabile che di determinazione della base imponibile. La variabile contributiva rappresenta un aspetto importante nella gestione dei lavoratori operanti all’estero in quanto incide direttamente sia sulla posizione pensionistica individuale che sul costo aziendale. Quali sono dal punto di vista pratico-operativo i casi sorti a seguito dell’emergenza che generano delle criticità di carattere contributivo, tali da interessare la mobilità internazionale della forza lavoro e comportare, di conseguenza, costi aggiuntivi per le imprese?

In alcuni precedenti interventi si è concentrata l’attenzione sugli impatti dell’emergenza connessa al Covid-19 sugli aspetti fiscali relativi alla Global Mobility. Esistono, tuttavia, anche delle importanti criticità di carattere contributivo che possono interessare la mobilità internazionale della forza lavoro e che possono comportare costi aggiuntivi per le imprese.

Uno dei principi generalmente accolti in ambito previdenziale è il lex loci laboris, a mente del quale l’obbligo contributivo deve essere adempiuto nel Paese ove viene svolta la prestazione lavorativa.

A ciò si aggiunga che l’Italia si è dotata negli anni ’80 di una legislazione volta a tutelare il lavoro degli italiani all’estero in Paesi privi di convenzioni internazionali di sicurezza sociale con il nostro Stato e che ha introdotto regole particolari per la determinazione dell’imponibile contributivo e per il calcolo dell’onere previdenziale.

Il trattamento previdenziale applicabile ai lavoratori in mobilità internazionale si differenzia in base al Paese estero nel quale l’attività viene svolta, distinguendo:

- Paesi con i quali l’Italia non ha stipulato un accordo bilaterale di sicurezza sociale;

- Paesi con i quali l’Italia ha stipulato un accordo di sicurezza sociale (ad esempio, Regolamento CE n. 883/04, accordi bilaterali con singoli Paesi ecc.).

Nel primo caso i lavoratori trasferiti o assunti per essere impiegati all’estero in Paesi non convenzionati devono essere obbligatoriamente iscritti nel sistema di sicurezza sociale italiano a norma della legge n. 398/1987.

Tale legge prevede, da un lato che l’obbligo contributivo sia assolto sulla base delle c.d. retribuzioni convenzionali e, dall’altro lato, un abbattimento del 10% dell’aliquota datoriale.

Nel caso di Paesi c.d. convenzionati è normalmente previsto - in deroga al principio di territorialità in premessa indicato – che in caso di distacco il regime contributivo può essere mantenuto in Italia entro una durata limitata (variabile da accordo ad accordo) e previa richiesta di uno specifico modello (ad esempio il Mod. A1 nel caso dell’Unione Europea).

Rispetto al quadro sopra succintamente riportato, l’emergenza in corso potrebbe avere due principali impatti.

In primo luogo il dipendente distaccato in un determinato Paese potrebbe trovarsi ad operare in Italia in quanto impossibilitato a rientrare nel luogo estero di lavoro.

In secondo luogo, il lavoratore potrebbe essere costretto a permanere nello Stato estero anche oltre la durata prevista dal contratto e, quindi, potrebbe non essere in possesso di un modello attestante la legislazione applicabile.

Ciò, inoltre, potrebbe alterare le modalità di svolgimento della prestazione da parte dei dipendenti che operano in due o più Paesi europei (i quali possono mantenere la contribuzione nel Paese di residenza ove vi prestino almeno il 25% della propria attività).

Rispetto alla seconda delle criticità indicate, si segnala che l’INPS, con il messaggio n. 1633 del 15 aprile 2020, ha già fornito alcune prime indicazioni per quanto attiene ai lavoratori cui si applica il Reg. CE n. 883/04.

Innanzitutto viene stabilito che la validità dei formulari A1 con scadenza nel periodo tra il 31 gennaio 2020 e il 31 luglio 2020, nell’ipotesi in cui il lavoratore distaccato fosse costretto a rimanere nel Paese ospitante, deve ritenersi estesa fino al termine dello stato di emergenza fissato al 31 luglio 2020.

Inoltre, in ragione delle misure di limitazione della mobilità transfrontaliera, i lavoratori che svolgono attività lavorativa in due o più Stati potrebbero essere stati costretti a rimanere nello Stato estero e ciò potrebbe alterare la percentuale di attività svolta nel Paese di residenza con conseguente applicazione della legislazione previdenziale dello Stato estero.

Sul punto l’INPS dichiara che i formulari A1, rilasciati prima dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, dovranno ritenersi validi prescindendo dalle variazioni della soglia percentuale dell’attività complessivamente svolta determinatasi a causa delle citate restrizioni alla mobilità.

Sicuramente più complessa è la prima delle criticità sopra esposte con particolare riferimento ai dipendenti distaccati in Paesi non convenzionati che, causa l’emergenza, si trovano in Italia.

La legge n. 398/87, difatti, spiega il suo ambito di applicazione soggettivo nei confronti dei “lavoratori italiani operanti all’estero, in Paesi extracomunitari con i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale...”.

La modifica del luogo di svolgimento dell’attività dovrebbe, pertanto, compromettere la possibilità di applicare le previsioni della citata legge e, pertanto, il dipendente dovrebbe tornare a versare la contribuzione sulla base delle ordinarie regole.

Questo dovrebbe essere pacifico in tutte quelle ipotesi in cui il contratto di distacco all’estero viene interrotto o comunque sospeso.

Maggiori dubbi potrebbero porsi nel caso in cui il lavoratore svolga dall’Italia la medesima attività dedotta nel contratto di assegnazione all’estero.

Ciò non è di poco conto in quanto, come accennato, oltre alla circostanza che la legge n. 398 fissa la contribuzione su una base forfetaria, viene altresì prevista la riduzione di 10 punti percentuali dell’aliquota IVS a carico del datore di lavoro.

In altri termini, le società potrebbero trovarsi a dover far fronte a costi non preventivati.

Ad avviso di chi scrive, in assenza di specifici chiarimenti da parte dell’Istituto previdenziale, appare oltremodo complesso superare la dizione letterale della norma che, come visto, fa espresso riferimento alla circostanza che l’attività deve essere esercitata nel Paese estero.

Va ad ogni modo ricordato che, operando in Italia, il lavoratore non dovrebbe più ricevere i tipici compensi e benefit connessi all’assegnazione e, pertanto, la base imponibile contributiva dovrebbe allinearsi a quella che è la sola retribuzione spettante prima dello specifico incarico estero rendendo di fatto la sua situazione analoga a quella degli altri dipendenti a “ruolo Italia”.

Estremo

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/06/01/covid-19-impatti-gestione-contributiva-lavoratori-espatriati

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