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Come dovrà essere il diritto del lavoro del post-emergenza da Covid-19?

Il passaggio alla “fase 3” del post Covid-19 dovrebbe segnare un cambio di passo anche per la normativa sul lavoro. In questa fase, se una serie di strumenti assistenziali di ultima istanza (quelli più anti-povertà) saranno auspicabilmente mantenuti, le imprese dovranno tornare a mettersi in gioco. Ci sarà bisogno, in prospettiva, di un nuovo diritto del lavoro in grado di accompagnare il rilancio produttivo del Paese senza abdicare alla missione di proteggere i lavoratori. In definitiva, un diritto del lavoro non più concepito soltanto come strumento di contrasto al potere degli imprenditori, ma costruttivo e sostenibile. Sono tante le linee di intervento che potrebbero rientrare in questa visione…

I drammatici mesi che abbiamo vissuto e dai quali stiamo provando faticosamente a uscire hanno visto comprensibilmente all’opera una logica di tipo emergenziale. Nel campo del lavoro, ciò si è concretizzato soprattutto nello sforzo titanico di evitare che le chiusure delle attività e la caduta verticale della produzione impattassero sui livelli occupazionali.

Gli interventi principali si sono concretizzati, come è noto, nella combinazione tra un massiccio rifinanziamento della cassa integrazione ordinaria e dei fondi equipollenti (con l’ulteriore chiamata in servizio della CIG in deroga a fare da “tappabuchi”), e il blocco dei licenziamenti per motivi economici (individuali e collettivi).

In realtà, come è stato rilevato da più parti, la sincronia temporale tra le due misure, in origine perfetta, è venuta parzialmente meno a seguito del D.L. Rilancio (n. 34/2020), in quanto il divieto di licenziamento si protrarrà fino al 17 agosto 2020, quando molti datori di lavoro potrebbero aver già esaurito da uno-due mesi la prima e la seconda quota di CIG (9 + 5 settimane). Il che era stato segnalato come foriero di problemi che per talune imprese, già al limite della sopravvivenza, potevano rivelarsi drammatici, oltre a suscitare inevitabili interrogativi di costituzionalità. Il recentissimo d.l. n. 52/2020, consentendo l’anticipo della terza quota di 4 settimane di CIG, in precedenza fruibile soltanto a settembre-ottobre, ha attenuato il problema, ma probabilmente non del tutto. In ogni caso la situazione è in fieri, e ci sono voci di ulteriori proroghe del divieto di licenziamento.

A parte questo aspetto, nessuno può mettere in dubbio che tali misure, in linea con la tradizione protettiva del nostro ordinamento (e basta volgere lo sguardo agli USA per cogliere la differenza con altri approcci), fossero tanto doverose quanto necessarie (anche, tra l’altro, per ragioni di sostegno della domanda interna, la cui persistente depressione è la vera incognita economica dei prossimi mesi). Ed era pure giusto che i dispositivi di sostegno al reddito fossero estesi, anche se con tecniche diverse (quella del bonus, in particolare), anche a favore di varie figure di lavoratori autonomi, oltre che di lavoratori subordinati caratterizzati da una particolare intermittenza di impegno o di solito lasciati fuori da questo genere di misure (come i lavoratori domestici).

Colpisce, semmai - ma non stupisce -, che equivalenti attenzioni non siano state riservate alle imprese, come se il destino dei lavoratori non dipendesse, in ultima analisi, dalla difesa della base produttiva del paese.

Ciò premesso sulla giustificazione sociale di questi provvedimenti, è chiaro che il diritto del lavoro, da solo, non potrà essere la muraglia che ferma lo tsunami. E’ vero che qualcuno aveva provato a dire, sfidando il buon senso, che nessuno avrebbe perduto il posto di lavoro a causa della pandemia. Ma basta il dato uscito nei giorni scorsi, in merito alla perdita di posti di lavoro causata dal mancato rinnovo di contratti a termine (inerenti, in particolare, ad attività stagionali messe in crisi dalla pandemia), a ricordarci che quell’auspicio non potrà, purtroppo, realizzarsi, anche se occorrerà continuare a fare di tutto per attutirne le conseguenze sociali.

Sembra vicino, dunque, il momento in cui si dovrà passare a una “fase 3” anche della normativa sul lavoro: cioè una fase nella quale, se una serie di strumenti assistenziali di ultima istanza (quelli più anti-povertà) saranno auspicabilmente mantenuti, le imprese dovranno tornare a rimettersi in gioco nei mercati di riferimento, e questo richiederà di riconoscere nuovamente ad esse la possibilità di ristrutturarsi e di conseguenza di aggiustare gli organici. Per fare un solo esempio, sarà difficile che tutto l’importante indotto del settore automotive possa resistere a volumi inalterati in un mercato che era già in difficoltà per la problematica transizione all’elettrico, ed al quale la pandemia ha inferto un ulteriore colpo.

Si potranno immaginare, beninteso, ulteriori riforme degli ammortizzatori sociali in senso ancor più universalistico di quanto già la legge n. 92/2012, prima, e il D.Lgs. n. 148/2015, poi, abbiano previsto (la critica che molti hanno fatto alla frammentazione delle forme di intervento è suonata, al riguardo, un poco ingenerosa in chiave storica; fondata, invece, quella alla regionalizzazione della CIG in deroga, cui il d.lgs. n. 34/2020 ha messo una tardiva pezza), ma di certo non si potrà pensare di risolvere i problemi della ripresa produttiva del paese a colpi di CIG. Ne discenderebbe il rischio di una deriva assistenziale che per un paese con già cronici problemi di crescita, e con un debito pubblico in procinto di schizzare verso un esiziale 155% del PIL, equivarrebbe a una condanna.

Occorre collocarsi mentalmente sin d’ora, dunque, nella prospettiva del “dopo”, per domandarsi quale diritto del lavoro potrebbe accompagnare nel modo migliore il difficile periodo che ci attende. Da quanto ho già detto traspare, a tale riguardo, una posizione diversa da quelli di coloro che, in questo periodo, si stanno domandando se il diritto del lavoro emergenziale potrebbe costituire un modello anche per la fase successiva, e suggeriscono, più o meno tra le righe, che la pandemia potrebbe rappresentare un’occasione per regolare definitivamente i conti col liberismo e quindi con le riforme dei primi due decenni del secolo.

La mia posizione è diversa, appunto, sia perché ritengo che, per quanto concerne il mercato del lavoro italiano, certi eccessi del liberismo, o non si sono mai manifestati sino in fondo, anche per l’esistenza di notevoli fattori di contrasto o quantomeno di resilienza dell’ordinamento (ad es. la magistratura del lavoro), o sono già stati riportati all’ordine da interventi successivi, come la sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, che ha stravolto l’impianto del D.Lgs. n. 23/2015; sia, soprattutto, perché sono dell’avviso che la pandemia non sia stata che l’ultimo, e sia pur drammatico capitolo, di processi di trasformazione strutturale in atto quantomeno dall’inizio del secolo, e che avrebbero comportato in ogni caso la necessità di un ripensamento del diritto del lavoro (come di molto altro) sin dalle fondamenta. La rivoluzione digitale, che promette di cambiare in profondità la natura stessa di molte attività lavorative, oltre che dei modi di organizzazione e produzione, non è che l’ultimo di tali shock.

Il che non significa, naturalmente, non farsi attraversare in profondità dall’esperienza della pandemia e da quello che, anche nel campo del lavoro, e più ampiamente del welfare, essa ci ha ricordato, ove ce ne fossimo malamente dimenticati: il bene inestimabile della sanità pubblica, il dovere di cura degli anziani (la cui strage silenziosa è stato l’elemento di maggiore drammaticità del quadro), l’importanza di modelli condivisi di tutela della salute e sicurezza in azienda (il Protocollo del 23 aprile 2020 è stato un grande momento di relazioni sindacali e di partecipazione, anche perché ha innescato ulteriori passaggi negoziali nelle singole aziende), il valore dei lavori materiali dimenticati a causa dell’euforia tecnologica (primo fra tutti, il lavoro del personale sanitario), e infine, last but not least, la dimensione morale, di dono alla società (quando non di atto eroico), del lavoro.

Ma, al di là di questo, il diritto del lavoro di cui ci sarà bisogno sarà un diritto che, sia pure senza abdicare alla sua missione di proteggere i lavoratori, e in particolare quelli più poveri e vulnerabili, nei loro standard fondamentali, nonché di favorire i processi redistributivi a fini di riduzione delle diseguaglianze, dovrà anche saper accompagnare il rilancio produttivo del paese, spingendo affinché esso si fondi, non soltanto sul rispetto assoluto delle persone, ma sulla valorizzazione del capitale che esse incarnano, e quindi sul rafforzamento delle loro capacità.

Sono tante le linee di intervento che potrebbero rientrare in questa visione di un diritto del lavoro non più concepito soltanto come strumento di contrasto al potere degli imprenditori, ma costruttivo e sostenibile. Si tratta di linee che si muovono a cavallo tra mercato del lavoro, rapporto di lavoro e welfare, da concepirsi ormai come dimensioni strettamente interconnesse: tra le altre, rafforzamento, ormai indifferibile, delle politiche attive del lavoro (anche se lo spettacolo dei recenti rapporti Stato-Regioni non lascia ben sperare al proposito); riconoscimento di una gamma di diritti fondamentali a valere per tutti i lavoratori, anche autonomi, per poi lasciare spazio a una differenziazione legata alla diversità delle varie forme contrattuali; messa a punto dell’area delle collaborazioni, eventualmente sulla base del meccanismo regolativo di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 (che dà spazio anche a deroghe contrattuali); vera implementazione (soprattutto a livello di contratti collettivi, tramite una revisione dei sistemi di inquadramento) della disciplina delle mansioni di cui all’art. 2103 c.c. come riformato nel 2015);  riconoscimento di diritti di nuova generazione, a cominciare dal diritto alla formazione (e prima ancora all’alfabetizzazione) digitale; previsione di un salario minimo legale, ma secondo soluzioni tecniche che non agiscano da fattori di spiazzamento della contrattazione collettiva; fissazione di una cornice regolativa sia pure soft della rappresentanza sindacale e della contrattazione; conferma e rafforzamento degli incentivi alle forme variabili di retribuzione e al welfare aziendale; promozione dei meccanismi partecipativi, anzitutto a livello di contrattazione aziendale; ragionevole sistemazione della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti individuali, sulla base di una pragmatica ripartizione di confini fra tutela reintegratoria e tutela economica; eventuale ridisegno del sistema degli ammortizzatori sociali nel senso più universalistico che si diceva; ed altre ancora (inclusi possibili interventi di vera semplificazione normativa).

Il tutto, infine, potrebbe essere tenuto insieme da un’idea generale di relazioni di lavoro, a livello sia individuale che collettivo, che, sia pure senza negare l’ovvia presenza di interessi per alcuni aspetti contrapposti, non rinunci però a enfatizzare la sussistenza di rilevanti interessi comuni. Questo non significa alzare la guardia sugli abusi e sugli sfruttamenti. Significa, però, coltivare una visione del contratto di lavoro che, senza nulla togliere ma anzi rilanciando sul terreno dei nuovi diritti, sappia essere complementare a una concezione moderna dell’attività di impresa, e dunque a una prospettiva di rilancio economico-sociale del Paese.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/07/04/diritto-lavoro-post-emergenza-covid-19

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