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Smart working: quale futuro dopo l’emergenza per imprese e lavoratori?

La fase emergenziale che perdurerà – almeno normativamente – sino al 15 ottobre prossimo ha comportato per molti lavoratori l’impossibilità di accedere ai luoghi di lavoro in ragione delle norme anticontagio emanate e la necessità di lavorare da casa. La disciplina ordinaria dello smart working contenuta nella legge n. 81/2017 è stata temporaneamente derogata da disposizioni che ne hanno consentito il ricorso anche senza l’accordo individuale tra impresa e lavoratore e ne hanno semplificato gli obblighi di natura amministrativa correlati. Ma si è trattato di un’effettiva diffusione dello smart working o piuttosto di un forzato lavoro da casa? E quali potrebbe essere le prospettive future per aziende e lavoratori?

Con la proroga dello stato di emergenza al 15 ottobre prossimo (decreto legge 30 luglio 2020, n. 83) è stata prorogata anche la possibilità di far ricorso allo smart working nella modalità semplificata – in assenza di accordo tra le parti – che da qualche mese, dall’avvio dell’emergenza sanitaria, ha conosciuto larga diffusione, quale in molti casi unica soluzione per poter rendere la prestazione lavorativa in tempo di lockdown.

E tuttora, così, in un momento caratterizzato ancora dalla forte incertezza, si conferma il favore da parte del legislatore (meglio, del Governo) verso predetta modalità di svolgimento della prestazione di lavoro, definita smart ma che di smart, per ciò che ordinariamente si intende, molto spesso ha soltanto la definizione che da più parti si pretende di affibbiargli.

Ci siamo tutti spesi in commenti a valle dell’entrata in vigore della legge n. 81/2017 che ha introdotto lo smart working in Italia, considerando una scommessa avvincente, in un sistema culturalmente imperniato sul concetto del controllo della prestazione lavorativa da parte del datore di lavoro e fortemente ancorato ai luoghi classici di essa dell’impresa e della fabbrica, l’aver previsto una modalità alternativa (o parzialmente alternativa) di resa della prestazione, chiedendoci quale diffusione essa avrebbe avuto nel nostro paese.

Giova ricordare che per smart working dobbiamo intendere una diversa modalità di svolgimento della prestazione in forma agile collocata nell’ambito del medesimo rapporto di lavoro subordinato, ossia con flessibilità di orario e luoghi, con la dotazione in favore del lavoratore di strumenti adeguati per il suo svolgimento; svolgimento che ha per oggetto fasi o cicli di lavoro destinati poi a confluire nell’organizzazione complessiva dell’impresa in cui il lavoratore è inserito. Dobbiamo, inoltre, escludere che per smart working si possa intendere una soluzione che determini la permanenza costante del lavoratore in luogo alternativo, posto che l’alternanza tra lavoro c.d. smart e lavoro nei luoghi tradizionali è imprescindibile per mantenere il collegamento tra la persona, i suoi colleghi e l’azienda datrice di lavoro.

Se tale era la visione che ha ispirato l’introduzione dell’istituto, non possiamo illuderci di aver alla stessa dato realizzazione sulla scorta dell’emergenza di questi mesi.

Manca invero dietro il fenomeno a cui abbiamo assistito qualsiasi visione rispetto a modifiche migliorative dell’organizzazione del lavoro. Del resto, se si fosse massivamente e coscientemente voluto rimodulare l’organizzazione del lavoro ben si sarebbe potuto già farlo, dal 2017 vi era lo strumento legislativo per farlo.

Perché ciò non è accaduto?

Come ho già avuto modo di dire, ad oggi il contratto di lavoro si fonda su un principio – scambio tempo ed energie vs retribuzione – che non è facilmente utilizzabile nella logica di un’organizzazione di lavoro diversa da quella fordiana.

L’obbligazione di mezzi, che si porta dietro tutti i temi ad essa collegati – come il controllo, la disciplina, l’orario, il luogo di lavoro, etc – non sempre è in grado di sostenere una modalità di prestazione come quella per cui si discute.

Inoltre non è accaduto – credo – perché ci troviamo in un sistema che culturalmente è molto legato al concetto del controllo, e si ritiene diffusamente – a mio avviso spesso sbagliando – che un migliore controllo sia quello visivo e che ad una maggiore presenza fisica sui luoghi di lavoro corrisponda una maggiore produttività. Si è propensi a premiare chi si vede di più, per più tempo nel luogo di lavoro, talvolta non curandosi di cosa quella persona abbia davanti sul monitor del proprio pc. Esiste invero un retropensiero per cui assenza fisica voglia significare vacanza, che talvolta magari è corretto, ma che la norma di cui sopra evidentemente auspicava di superare puntando a valorizzare la cultura della responsabilità.

 

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Comunque sia, inutile illudersi: ciò che non era accaduto prima dell’emergenza su base programmatica e cosciente, non è accaduto neppure in questi mesi.

Abbiamo convissuto invero con l’impossibilità fisica e giuridica di recarci sui luoghi di lavoro, e con l’obbligo di rimanere in casa, rendendo giocoforza quest’ultima il nostro ufficio, con mezzi tecnologici molto spesso inadeguati e replicando – laddove possibile – la prestazione di lavoro normalmente svolta in ufficio. Ecco perché in altre occasioni ho a tale riguardo parlato di home working caratterizzato dalla rigidità e dalla negazione del concetto stesso di agilità.

Adesso che il lockdown non c’è più e si parla di fasi 2, 3, e chi più ne ha più ne metta, è evidente che la necessità di convivere con il virus e di contenere il contagio costringe ancora le aziende a dover preferire molto spesso il lavoro da casa per i propri dipendenti, non fosse altro che per osservare le norme in tema di distanziamento sociale e ridurre le occasioni di assembramento in azienda.

Con quanto precede non si vuol dire che superata l’emergenza non cambierà nulla, né che non si possa scegliere di mutare l’organizzazione del lavoro, ma credo che sarebbe il caso di discuterne seriamente, individuando gli obiettivi e i vantaggi che una diversa organizzazione del lavoro può portare ai suoi protagonisti, vantaggi che, messi a confronto con gli svantaggi, nondimeno rendano preferibile un cambiamento. Non esistono infatti soluzioni ideali, ma solo soluzioni che in un dato tempo e per una data comunità sono più funzionali, quindi preferibili.

C’è molta fretta – e un certo pressappochismo – nel ritenere vincente un modello sperimentato per pochi mesi, i cui risultati non sono assolutamente ancora misurabili. Per le aziende che non hanno eseguito alcuna valutazione di sostenibilità in termini organizzativi e di incremento di produttività, parametri a cui nessun ragionamento organizzativo può sottrarsi e per i lavoratori per i quali, dopo il piacere iniziale di vivere più a lungo in famiglia, non è assolutamente detto che sia altrettanto desiderabile o facile una convivenza di lungo periodo priva dell’equilibrio che l’alternanza casa – lavoro garantiva loro. E la chiacchiera tra colleghi? E la pausa caffè? Davvero possiamo lavorare stabilmente come singoli e pensare di raggiungere i medesimi risultati?

Ma come potrebbe o dovrebbe essere allora lo smart working per funzionare, per essere ciò che dovrebbe e migliorare le condizioni per imprese e lavoratori?

Credo che a monte dovrebbe esserci una valutazione in concreto da parte del datore di lavoro, che muova dalla natura e dalle caratteristiche dell’attività svolta, che tenga conto di quali sono i profili professionali dal medesimo impiegati e di come ed in che misura le loro attività potrebbero essere svolte in forma agile: avere presente che un conto è svolgere attività amministrative in modo agile ed altro conto è svolgere funzioni di controllo, ovvero attività ad elevato contenuto tecnico oppure a carattere industriale è concetto quasi banale.

Dunque, occorrerebbe sul piano normativo un’elevazione della figura del lavoro agile che, da mera modalità della prestazione di lavoro, diventi forma contrattuale ad hoc impiegabile ab origine per contrattualizzare quei lavoratori le cui attività che andranno a svolgere – in base al modello organizzativo dell’imprenditore – sono eseguibili con la flessibilità che lo smart working richiede, e che vengano declinate dal contratto individuale di lavoro smart, anche con riferimento all’obbligazione principale che non potrà più essere “il tempo dedicato”, bensì il “risultato” raggiunto e da raggiungere. Questa è la vera novità che non si vuole dichiarare nonostante sia la naturale conseguenza di un mutato modello contrattuale.

Così sì potremmo avere organizzazioni più ragionate, accordi tra le parti sin dall’inizio più chiari e possibili effetti virtuosi anche sul fronte dei costi. Si pensi ad esempio all’efficientamento che sul piano immobiliare - per la minore strutturale necessità di spazi –potrebbe realizzarsi soprattutto per realtà di una certa dimensione (il tutto, per contro, con non poche ricadute sul mercato immobiliare, anche queste da prendere in buona considerazione), nonché il miglioramento del rapporto vita/lavoro.

In conclusione, ogni ragionamento è lecito ed anzi auspicabile ed è molto probabile che vivremo cambiamenti significativi nel prossimo futuro, però in tutta onestà attenderei un attimo. Aspettiamo di capire quanto salato sarà il conto che il Coronavirus lascerà alle imprese ed ai lavoratori, aspettiamo di vedere cosa accadrà quando la cassa integrazione (peraltro ancora un miraggio per molte aziende) finirà, quando il blocco dei licenziamenti, che ad oggi mantiene in essere migliaia di posizioni prive ormai di giustificazione economica, verrà superato. Attendiamo ed auguriamoci che lavoro ve ne sarà ancora, poi penseremo se utile a modificarne l’organizzazione, stavolta in maniera ragionata.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/09/10/smart-working-emergenza-imprese-lavoratori

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