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Divieto di licenziamento: e se l’azienda non lo rispetta?

Fino al prossimo 31 dicembre, termine previsto dal decreto Agosto per il godimento degli ammortizzatori Covid-19 e dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali per le imprese che non fanno ricorso alla Cassa integrazione, vige il divieto di licenziamento per i datori di lavoro. Tuttavia, la data effettiva in cui viene meno tale divieto non è uguale per tutti, ma dipende dalla situazione in cui si trova ciascuna azienda. Cosa succede se il datore di lavoro decide, in violazione del divieto, di intimare uno o più licenziamenti individuali o di avviare procedure di licenziamento collettivo?

Una delle misure più discusse della normativa emanata per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 è stata l’introduzione del divieto di licenziamento individuale e collettivo.

Trattasi di una “bolla sospensiva” durante la quale la libertà di iniziativa economica privata viene inevitabilmente compromessa, al fine di preservare i posti di lavoro e di evitare che l’emergenza sanitaria in atto e la conseguente crisi economica possano imporre ai datori di lavoro di ridurre il personale in forza.

Inizialmente, è stato l’art. 46 del decreto Cura Italia (n. 18/2020), come integrato e modificato dall’art. 80 del decreto Rilancio (n. 34/2020), a disporre che a decorrere dal 17 marzo e fino al 17 agosto 2020:

· fosse precluso l'avvio delle procedure di licenziamento collettivo, di cui agli artt. 4, 5 e 24 della L. n. 223/1991;

· fossero sospese le procedure pendenti di cui sopra avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, fosse riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di CCNL o di clausola del contratto di appalto;

· fossero preclusi i recessi per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/1966;

· fossero sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’art. 7 della L. n. 604/1966.

 

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L’art. 14 del D.L. n. 104/2020, c.d. decreto Agosto, ha prorogato a far data dal 15 agosto 2020, il divieto sopra illustrato e allo stesso tempo ha mitigato la sua rigidità prevedendo che a certe condizioni i datori di lavoro possano non rispettarlo. In particolare, per non rientrare nel divieto, i datori di lavoro:

· debbono aver integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all'emergenza epidemiologica da Covid-19 di cui all'art. 1 del medesimo decreto. Trattasi di 18 settimane complessive collocate nel periodo compreso tra il 13 luglio 2020 e il 31 dicembre 2020;

· oppure debbono aver integralmente fruito dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali. Questo sgravio è riconosciuto, per un massimo di 4 mesi, esclusivamente ai datori di lavoro che abbiano fruito di cassa integrazione a maggio e giugno 2020 ma che non abbiano fatto ricorso agli ammortizzatori ex Decreto Agosto.

Ciò significa che la data in cui viene meno il divieto di licenziamento non è uguale per tutti ma dipende dalla situazione in cui si trova ciascuna azienda. In ogni caso, il termine ultimo del 31 dicembre 2020 previsto dal Legislatore per il godimento e la fruizione degli ammortizzatori Covid-19 e dell’agevolazione contributiva comporta che, al momento, il divieto di licenziamento sia vigente fino a tale data.

Inoltre, ciò che il D.L. n. 104/2020 introduce, rispetto ai precedenti decreti, è un elenco di casistiche in cui il datore può legittimamente procedere con i recessi, a prescindere dall’integrale fruizione dei trattamenti di integrazione salariale o dell’esonero contributivo. Si tratta delle seguenti:

· licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell'attività, con messa in liquidazione della società senza alcuna continuazione, anche parziale, dell'attività;

· nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo;

· licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l'esercizio provvisorio dell'impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione.

Fermo restando che restano validi i recessi perfezionati prima del 17 marzo 2020, non soggiacciono al divieto di licenziamento sopra illustrato:

· il licenziamento disciplinare, per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. Trattasi di recessi che richiedono il rigoroso rispetto dell’iter disciplinare previsto dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300/1970);

· il licenziamento per raggiungimento del limite massimo d’età per la fruizione della pensione di vecchiaia;

· il licenziamento per superamento del periodo di comporto;

· il licenziamento dei dirigenti. La categoria dirigenziale è infatti esclusa dall’applicazione della disciplina ordinaria dei licenziamenti individuali;

· il licenziamento durante o al termine del periodo di prova. L’art. 2096 del c.c. prevede infatti la possibilità che entrambe le parti, sia alla scadenza del periodo di prova pattuito che durante il medesimo, recedano liberamente, senza che siano necessari la forma scritta, il preavviso o un’indennità;

· il licenziamento dei collaboratori domestici che, in virtù del vincolo fiduciario con il datore di lavoro, è soggetto al regime di libera recidibilità;

· la cessazione del rapporto di lavoro dei collaboratori coordinati e continuativi, in quanto l’ambito di applicazione del divieto in esame è limitato ai soli rapporti di lavoro subordinato;

· la risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo. Oltre tutto, ai sensi dell’art. 2, comma 4 del D.Lgs. n. 148/2015, alla ripresa dell'attività lavorativa a seguito di sospensione o riduzione dell'orario di lavoro, il periodo di apprendistato è prorogato in misura equivalente all'ammontare delle ore di integrazione salariale fruite.

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con nota n. 298 del 24 giugno 2020, ha precisato che il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione impone al datore di lavoro la verifica in ordine alla possibilità di ricollocare il lavoratore in attività diverse riconducibili a mansioni equivalenti o inferiori, anche attraverso un adeguamento dell’organizzazione aziendale. L’obbligo di repêchage rende, pertanto, la fattispecie in esame del tutto assimilabile alle altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e di conseguenza tale casistica non è esclusa dal divieto vigente.

Cosa succede se il datore di lavoro decide, in violazione del divieto, di intimare uno o più licenziamenti non rientranti nelle ipotesi di esclusione sopra elencate?

Il decreto Rilancio aveva in prima battuta introdotto la possibilità di revocare il recesso per il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo tra il 23 febbraio 2020 e il 17 marzo 2020, avesse proceduto a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. La revoca del licenziamento era possibile solo se conseguentemente si procedeva con la richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale. In tal caso, il rapporto di lavoro si intendeva ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro. Il D.L. n. 104/2020, all’art. 14 comma 4, ha esteso la possibilità di revoca di cui sopra a qualunque licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nell'anno 2020 e di conseguenza non solo tra febbraio e marzo 2020.

Qualora il datore di lavoro non revochi il licenziamento intimato, il recesso è nullo in quanto attivato in violazione di una norma di legge. Tuttavia, l’INPS, con messaggio n. 2261 del 1° giugno 2020, ha chiarito che il lavoratore ha diritto comunque a percepire la NASpI, cioè il trattamento di sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria. Ciò ovviamente a condizione che il soggetto sia in possesso di tutti i requisiti, soggettivi e non, previsti dall’ordinamento per l’ottenimento di tale indennità.

La ratio è rinvenibile nel fatto che l’accertamento sulla legittimità o meno del licenziamento spetta al giudice di merito, così come l’individuazione della corretta tutela dovuta al prestatore. Tuttavia, in questi casi, la corresponsione della NASpI da parte dell’INPS avviene con riserva di ripetizione di quanto pagato, nell’ipotesi in cui il lavoratore licenziato, a seguito di contenzioso giudiziale o stragiudiziale, dovesse essere reintegrato nel posto di lavoro.

È evidente come tutto questo serva a prevenire il possibile vuoto di tutela che si sarebbe venuto a creare per i lavoratori ingiustamente licenziati in violazione del divieto legale.

Alla luce di quanto esposto, è ragionevole chiedersi se il divieto di licenziamento in commento abbia ancora natura straordinaria, come in origine previsto, dato che la sua durata è stata prorogata a più riprese dal Legislatore.

Partendo dalla Carta costituzionale, fonte del diritto per eccellenza, si potrebbe considerare il divieto di licenziamento come declinazione dell’art. 4, comma 1: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Inoltre, se ne potrebbe sostenere la legittimità riconoscendo al divieto l’utilità sociale ai sensi dell’art. 41 della Costituzione. Allo stesso tempo, è inevitabile però, rinvenire nel blocco dei licenziamenti un’indebita limitazione alla libertà di iniziativa economica privata garantita dal medesimo articolo costituzionale.

Non da ultimo, pare legittimo domandarsi se non si tratti in realtà solo di un espediente temporaneo, utile a procrastinare il problema degli esuberi del personale legati alla crisi congiunturale ma sicuramente non a contenere gli effetti della stessa quanto piuttosto a enfatizzarne, drammaticamente, le conseguenze.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/09/18/divieto-licenziamento-azienda-non-rispetta

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