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Il lavoratore può rifiutarsi di andare in trasferta durante l’emergenza Covid?

Il lavoratore è tenuto ad osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dal datore di lavoro e dai collaboratori da cui gerarchicamente dipende. In virtù di questo principio generale l’azienda può ordinare al dipendente di andare in trasferta anche senza il suo consenso. Ma durante una crisi pandemica come quella attuale, ovvero in altri frangenti connotati da significativo rischio ambientale tale da mettere in pericolo la salute e la sicurezza del lavoratore, la trasferta può essere legittimamente rifiutata per contrarietà alle norme imperative poste a tutela delle condizioni di lavoro?

Benché nella legislazione lavoristica non si rinvenga alcuna norma che definisca la nozione e delinei la disciplina della trasferta (o comando), di fatto regolata dalla contrattazione collettiva in chiave prevalentemente retributivo-compensativa (del maggior disagio e della reintegrazione del patrimonio del prestatore per le eventuali spese di viaggio, vitto, alloggio) al fine di determinare la relativa indennità economica, tuttavia, in base agli arresti giurisprudenziali e alle ricostruzioni dottrinali, è possibile concludere che la trasferta consista in un mutamento temporaneo del luogo di esecuzione della prestazione del dipendente, nell’interesse e su disposizione del datore di lavoro, con previsione certa di rientro nella sede di lavoro di abituale.

Poiché, dunque, la caratteristica fondamentale è rappresentata, a fronte di un ordine di servizio del datore di lavoro, dalla provvisorietà dell’assegnazione del lavoratore ad altra sede di lavoro rispetto a quella dedotta in contratto, la trasferta non necessita, diversamente dal trasferimento (in ragione della sua tendenziale definitività), di alcuna comprovata giustificazione tecnica, organizzativa e produttiva che, ex art. 2103 c.c., legittimi il datore di lavoro all’esercizio del potere di modificazione (temporanea) del luogo di svolgimento della prestazione lavorativa.

Per inquadrare correttamente la fattispecie, come evidenziato da molteplici arresti giurisprudenziali (si vedano, ex multis, Cass. Civ., sez. lav., 14 settembre 2007, n. 19236; Cass. Civ., sez. lav., 21 marzo 2006, n. 6240; Trib. Milano, sez. lav., 18 febbraio 2020, n. 130), è dunque necessario rimarcare il fondamentale requisito della temporaneità che caratterizza la trasferta e, dunque, la permanenza di un legame funzionale del dipendente con il normale luogo di lavoro da cui egli proviene, con la conseguenza che, se il provvedimento del datore di lavoro, pur qualificato formalmente come “trasferta”, non include l’indicazione di una precisa data di rientro, o se omette del tutto tale indicazione, deve essere considerato alla stregua di un trasferimento (si veda Cass. Civ., sez. lav., 26 gennaio 1989, n. 475).

La trasferta è, infatti, caratterizzata, secondo la giurisprudenza ormai consolidata, da uno spostamento solo temporaneo del lavoratore, sicché, permanendo invariato il suo legame con il luogo di lavoro originario, l’elemento temporale della missione rimane escluso da ogni valutazione.

Essendo il lavoratore tenuto ad osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dal datore di lavoro e dai di lui collaboratori da cui gerarchicamente dipende (art. 2104 c.c.), per ordinare la trasferta e pretenderne l’effettuazione, il suo consenso, anche informale, risulta del tutto irrilevante (Cass. Civ, sez. lav., 15 ottobre 2015, n. 20833) e ciò nemmeno, come invece avviene in caso di trasferimento, nei confronti di persone in condizioni di disabilità e dei familiari che li assistono (art. 35, commi 5 e 6, l. n. 104/1992) o in conseguenza, a fronte dello spostamento del luogo di lavoro, del mutamento delle mansioni lavorative come avviene in caso di distacco (art. 30, comma 3, D.lgs. n. 276/2003).

Il potere direttivo del datore di lavoro di inviare il lavoratore in trasferta prescinde, dunque, dall’espressa disponibilità da parte di quest’ultimo, e dal fatto che, nel luogo di assegnazione, il lavoratore svolga mansioni identiche a quelle espletate presso l’abituale sede di lavoro, ben potendo, evidentemente, essere assegnato anche a mansioni diverse (Cass. Civ., sez. lav., 27 novembre 2002, n. 16812; App. L’Aquila, sez. lav., 4 aprile 2013, n. 295) con il solo limite dell’equivalenza delle mansioni dal punto di vista professionale, ovvero dell’assegnazione a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Pertanto, ferme restando le disposizioni dei contratti collettivi, che sovente fanno salvi i motivati e comprovati impedimenti adducibili dal lavoratore quale giustificazione per sottrarsi al dovere di prestare la propria opera in trasferta, non sussistono limiti generali al potere datoriale di ordinarla, se non quello, ex art. 41 Cost., di rispettarne la libertà e la dignità, con ciò derivando che il rifiuto di darvi attuazione, costituendo violazione dell’obbligo di conformazione alle disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro (art. 2104, comma 2, c.c.), configura un atto di insubordinazione e come tale espone il  prestatore alla contestazione disciplinare e all’irrogazione perfino della sanzione del licenziamento.

Su siffatta conclusione si è pronunciata recentemente anche la Suprema Corte sancendo la legittimità del licenziamento disciplinare del dipendente che, sistematicamente, si rifiuti di recarsi in trasferta, adducendo come giustificazione (pretestuosa) incompatibili condizioni di salute, rivelatesi inidonee a impedirne l’allontanamento periodico. Nel caso di specie si è ritenuto, appunto, che tale rifiuto configuri un’ipotesi di insubordinazione per reiterata e ingiustificata trasgressione alle direttive organizzative aziendali a fronte della disponibilità alle trasferte che costituiva un elemento essenziale della prestazione lavorativa. Tale disponibilità, soprattutto se manifestata dal dipendente già all’atto dell’assunzione, unitamente all’esigenza di espletamento dell’attività su scala internazionale e con cantieri esterni, secondo i giudici della Suprema Corte, legittima pienamente la richiesta datoriale (Cass. Civ., sez. lav., 20 marzo 2018, n. 6896; più risalenti, a conferma di un orientamento consolidato, si veda Cass. Civ., sez. lav., 27 novembre 2002, n. 16812; Cass. Civ., sez. lav., 5 ottobre 1998, n. 9870).

Nonostante pochi dubbi possano nutrirsi sulla natura di atto di insubordinazione posto in essere dal lavoratore che rifiuta la trasferta e ciò indipendentemente dalla fondatezza o meno della decisione aziendale, da cui, come ricordato, può conseguire il licenziamento disciplinare, per completezza occorre menzionare, in senso contrario, due risalenti e isolate pronunce della giurisprudenza milanese, secondo le quali, non potendo applicarsi alla trasferta l’art. 2103 c.c., la legittimità del licenziamento per rifiuto della stessa impone “una verifica della fondatezza delle esigenze che sono alla base di una decisione aziendale che ha immediati effetti anche sulla vita di relazione del lavoratore” (Pret. Milano 30 marzo 1999; Trib. Milano 26 marzo 1994, inedite).

Posto, dunque, che alla trasferta non si applica la regola delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, secondo la dottrina il lavoratore potrà avversarla solo comprovando l’illiceità, la fraudolenza o la discriminatorietà dell’ordine di servizio che la esige.

Ci si domanda, in quest’ottica, se la disposizione di recarsi in trasferta, soprattutto durante una crisi pandemica come quella attuale ma pure in altri frangenti connotati da significativo rischio ambientale tale da mettere in pericolo la salute e la sicurezza del lavoratore, possa essere legittimamente rifiutata in quanto contraria alle norme imperative poste a tutela delle condizioni di lavoro (art. 2087 c.c. e Testo Unico Sicurezza).

Infatti, appurato che il richiamo espresso a “tutti i rischi”, quale oggetto della valutazione obbligatoria a carico del datore di lavoro, nonché l’ampliamento della proiezione ambientale del luogo e del momento di lavoro, abbiano ormai imposto di includere nella valutazione ex art. 28 T.U. anche i cosiddetti rischi esogeni o ambientali, non v’è dubbio che il pericolo da contagio Covid-19 a cui si espone il trasfertista rientri a pieno titolo in questa categoria di rischi.

Così, nel contesto attuale, in considerazione, da un lato, delle ipotesi di riconoscimento INAIL di infortunio per i casi di infezione da Covid-19 in occasione di lavoro (ex art. 42, comma 2, D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, convertito con Legge n. 27 del 24 aprile 2020), fino alle ipotesi più gravi di responsabilità civile e/o penale, e, dall’altro lato, della  ancora attuale e non revocata dichiarazione di pandemia dell’OMS, anche il fattore di pericolo esogeno in questione deve essere valutato come ragionevole e concreto.

Da ciò discende – perlomeno per le aziende che, a dispetto dell’ormai anacronistica misura della sospensione/annullamento delle trasferte nazionali e internazionali ancora contenuta nel Protocollo Governo Parti Sociali del 24 aprile, pur tenendo conto delle eventuali preclusioni o limiti all’ingresso in determinati paesi disposti dall’autorità, hanno ricominciato a mandare i lavoratori in trasferta, soprattutto all’estero – l’obbligo di integrare o affiancare il protocollo aziendale adottato sulla base delle richiamate disposizione in relazione ai rischi da infezione Covid-19, ancorché esogeni e estrinseci rispetto alle ordinarie caratteristiche della prestazione lavorativa, con una regolamentazione (ad es., altro protocollo ad hoc) inerente la specifica safety anti Covid-19 prima, durante e dopo la trasferta.

Del resto, alla luce di quanto sopra, laddove le misure preventivo-protettive mancassero o fossero gravemente carenti, il lavoratore, a fronte del supposto rischio di lesione della propria integrità fisico-psichica insito nella trasferta (sebbene da dimostrare), potrebbe, per un verso, avvalersi del rimedio della eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.) in forza della quale lecitamente rifiutare la propria prestazione da rendersi in condizioni di insicurezza, ugualmente esigendo, tuttavia, la conservazione nel posto di lavoro ed il pagamento del corrispettivo pattuito, col risultato di mettere così automaticamente in mora il creditore (ex art. 1206 c.c.), ossia il datore di lavoro, incombendo su quest’ultimo l’obbligo di predisporre le misure di sicurezza necessarie, siccome prescritte dall’art. 2087 c.c., dal D.lgs. n. 81/2008 e dalla connessa normativa, o, per altro verso, invocare l’esimente dello stato di necessità, che gli consentirebbe, ancorché in assenza di una espressa e specifica previsione legislativa (a meno di non voler ricondurre in tale ipotesi il diritto del lavoratore di allontanarsi dal posto di lavoro in caso di pericolo grave, immediato e inevitabile, di cui all’art. 44 del D.lgs. n. 81/2008), di astenersi dal lavoro in tutti i casi in cui lo svolgimento della prestazione esponesse lui stesso o altri a un rischio certo e rilevante di danno alla persona e ciò indipendentemente dall’imputabilità del pericolo alla violazione colposa delle norme antinfortunistiche da parte del datore di lavoro (anche in questo caso dalla disciplina generale della sospensione della prestazione per causa di forza maggiore può dedursi il maturare della retribuzione a carico dello stesso datore di lavoro).

Proprio in forza del richiamato obbligo di diligenza e conformazione di cui all’art. 2104 c.c., risulta impervia, dunque da escludere, la possibilità per il lavoratore di invocare l’illiceità ex art. 1345 c.c. e la conseguente nullità dell’ordine di trasferta ai sensi dell’art. 1418 c.c.

Nel diverso scenario del licenziamento disciplinare irrogato per insubordinazione a fronte del rifiuto di recarsi in trasferta, appare invece ipotizzabile sostenere la nullità del provvedimento sanzionatorio qualora il lavoratore – che ne ha l’onere – provi il motivo illecito e il carattere determinante della sanzione espulsiva.

Se il rifiuto di recarsi in trasferta costituisce, come abbiamo visto, insubordinazione, punibile finanche con il licenziamento disciplinare, nel caso del lavoratore trasfertista un tale rifiuto costituirebbe invece inadempimento contrattuale legittimandone il licenziamento per giusta causa.

È, infatti, necessario distinguere i normali lavoratori, più o meno saltuariamente inviati in trasferta a fronte di contingenti esigenze aziendali, dai cc.dd. trasfertisti, ossia di quei lavoratori obbligati per contratto a rendere sistematicamente la propria prestazione in luoghi sempre diversi e provvisori, attesa la natura itinerante della stessa e, conseguentemente, privi di un usuale luogo di lavoro dedotto in contratto (L. n. 225 del 1° dicembre 2016).

Ricordato come anche nel caso dei trasfertisti sia necessario un ordine del datore di lavoro che individui di volta in volta il luogo di svolgimento della propria prestazione, poiché tale ordine, diversamente dall’ipotesi della trasferta discontinua, non costituisce esercizio unilaterale del potere direttivo, bensì la specificazione di un obbligo contrattuale, il rifiuto della trasferta realizza un evidente inadempimento contrattuale che giustifica il recesso datoriale senza preavviso. Nonostante il trasfertista, oltreché contrattualmente obbligato alla trasferta sia normalmente più avvezzo alla gestione dei rischi insiti nel lavorare in modo “itinerante”, anche nel suo caso può di certo valere l’illiceità del comando, l’eccezione di inadempimento o la sospensione per forza maggiore in relazione alla gravità e inevitabilità dei rischi ambientali insiti nel luogo di destinazione come precedentemente richiamata.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/10/03/lavoratore-rifiutarsi-andare-trasferta-emergenza-covid

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