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Rinnovi contrattuali: si riapre la stagione. Con quali presupposti?

10 milioni di lavoratori con contratti collettivi nazionali di lavoro scaduti. E’ la fotografia della situazione attuale. E quest’anno, con una crisi sanitaria in atto, i nodi del sistema italiano di relazioni industriali rischiano di emergere in tutta la loro drammaticità. Da una parte il sindacato che vuole recuperare una parte del potere di acquisto andato perduto, dall’altra Confindustria che chiude a trattative sul tema salariale. Nel silenzio delle istituzioni, (forse) distratte dalle vicende della pandemia Covid-19, cosa dobbiamo auspicarci a vantaggio di tutti?

La stagione dei rinnovi contrattuali, che interessa almeno 10 milioni di lavoratori i cui accordi collettivi sono scaduti, si apre in un momento quanto mai particolare, perché per un verso il sindacato mira a recuperare una parte del potere di acquisto che è andato perduto a causa della lunga stasi conseguente alla crisi del 2008, mentre al contrario Confindustria, per bocca del suo presidente, Bonomi, ha annunziato che l’incertezza del momento non consente alle imprese di aprire trattative sul tema salariale

La situazione, come è evidente a tutti, non è facile, perché la crisi sanitaria rischia di far emergere in tutta la loro drammaticità i nodi del sistema italiano di relazioni “industriali”, la cui soluzione viene oramai da lungo tempo rinviata, dopo che la FIAT ha abbandonato oramai da tempo il ruolo di leadership che aveva occupato per decenni in passato, recedendo formalmente da Confindustria e mettendo in piedi un sistema autonomo di contrattazione collettiva. 

Questa scelta ha segnato uno spartiacque importante per tutte le piccole e medie imprese che, a seguito di una assenza così vistosa, si sono sentite legittimate a dar vita a relazioni sindacali alternative a quelle che fanno capo ai sindacati della “triplice”, sottoscrivendo contratti collettivi “al ribasso” con sigle sicuramente sconosciute ai più. Né in senso opposto CGIL, CISL e UIL sono riuscite a dar vita al meccanismo di rilevazione della rappresentanza sindacale previsto dalla Costituzione ed atteso oramai da più di settanta anni. In questo modo, fin tanto che non si procederà a dettare norme di legge che premino gli accordi sottoscritti secondo il principio di maggioranza, il nostro sistema sembra destinato ad un ulteriore sfilacciamento, nel quale una malintesa valorizzazione del principio di libertà sindacale parifica ai contratti collettivi più diffusi, quelli sottoscritti da qualunque altra sigla sindacale, anche se dotata di scarsissimo seguito nella categoria rappresentata. 

In questa situazione, ci sarebbe spazio per un ritorno all’antico e, dunque, a quel sistema scolpito nel c.d. accordo “di luglio” (o protocollo “Ciampi”) che nel 1993 riuscì a ridurre l’inflazione e a legare gli aumenti di salario all’incremento di efficienza, demandando alla contrattazione aziendale il ruolo di definire gli elementi retributivi collegati alla produttività.

Le diffidenze per un ritorno a quello schema, pur nel mutato quadro economico ed istituzionale, sono però profonde e si annidano in entrambi gli schieramenti: da un lato, gli imprenditori avversano un sistema che li impegni ad una redistribuzione fra i propri dipendenti degli utili realizzati, dall’altra, una parte ancora maggioritaria del sindacato percepisce che un meccanismo, nel quale è la contrattazione collettiva di secondo livello che riveste il ruolo di attribuire la retribuzione di produttività, può finire per ricondurre il sindacato a condividere le responsabilità della direzione aziendale, anche quando queste si traducono in provvedimenti negativi per i lavoratori (incentivando così la possibile fuga di iscritti verso le tante organizzazioni minoritarie, che, a ragione della loro scarsa rappresentatività, potrebbero restare estranee a questa condivisione). 

Né le forze politiche, forse distratte dalle vicende della pandemia, appaiono realmente interessate alla risoluzione di questo conflitto, posto che né si sente più parlare dello sviluppo dei sistemi di servizi all’impiego, che avrebbe dovuto già dalla legge “Biagi” del 2003 incentivare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, né tantomeno si è cercato di valutare appieno quale sia stato l’impatto sul mercato del lavoro e sulla stessa contrattazione collettiva del reddito di cittadinanza, introdotto oramai ben più di un anno fa. 

Basta poco, infatti (e la circostanza è stata richiamata dal leader di Confindustria), per rendersi conto che un importo eccessivamente robusto dell’assegno assistenziale finisce per scoraggiare i disoccupati dal cercare lavoro, quando questo venga offerto a fronte di un salario, di importo poco più elevato di quanto si riceve in via di sussidio. In certi casi, anzi, politiche troppo generose sul piano assistenziale hanno finito per terremotare le relazioni contrattuali, imponendo giocoforza un incremento dei salari riconosciuti alle professionalità che si collocano alla base della scala salariale. Non è mancato, anzi, chi ha rivendicato sul punto questo effetto, ascrivendosi il merito dell’introduzione di un sistema di protezione universale, e di aver altresì, per questa via, incrementato tutti i livelli salariali. 

Al contrario, nel sistema italiano i livelli più bassi di inquadramento percepiscono spesso (ma solo a fronte di una prestazione full time) importi lordi di poco superiori a mille euro, anche nei CCNL sottoscritti dai tre sindacati maggiori (con una retribuzione oraria pari ad es. a 6,71 euro lordi, per gli operai florovivaisti, secondi i dati del CNEL). Si tratta, dunque, di un tema delicato e serio del quale farebbero bene ad occuparsi in tanti, sul piano sia della politica, sia delle relazioni sindacali.

Si deve dire, allora, che, al netto della pandemia, il bilancio il Reddito di cittadinanza sembra mostrare che quel coraggioso intervento non sempre sia andato a bersaglio. In questo senso, secondo dati rilasciati di recente dall’Alleanza contro la povertà (che si era fatta promotrice di una proposta poi presa in parte a riferimento per il provvedimento del gennaio 2019), i dati sembrano sconfortanti, poiché i requisiti richiesti dal D.L. n. 4/2019 per avere diritto al reddito di cittadinanza verrebbero di fatto ad escludere la maggioranza dei bisognosi, tanto che, su circa 9 milioni di persone che si trovano in povertà relativa, solo il 14% lo riceverebbe.

Secondo i dati diffusi dopo un anno di sperimentazione, i poveri assoluti sarebbero infatti diminuiti solo di 447mila unità, venendo anzi ad aumentare nel Nord Est, sia pure di poco. Le stesse simulazioni dell’INPS sembrano ammettere che più della metà dei beneficiari del sussidio si collocano al di fuori del perimetro che include i poveri relativi. In particolare, si è rilevato come sia squilibrata la misura del reddito diretta a premiare i singoli (che ottengono 780 euro al mese), mentre le famiglie più numerose ricevano poco di più, rimanendo intrappolate nella condizione di marginalità sociale che più è difficile da sradicare. E tanto a fronte del completo mancato avvio del sistema c.d. di condizionalità, che avrebbe dovuto condurre i beneficiari ad un percorso di avvicinamento al lavoro (attraverso i c.d. navigator).

Il quadro, insomma, è incerto e sembrerebbe necessario uno sforzo generale ed un dialogo costruttivo fra tutti gli attori, perché si possano iniziare a delineare soluzioni di generale vantaggio.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/contrattazione-collettiva/quotidiano/2020/11/07/rinnovi-contrattuali-riapre-stagione-presupposti

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