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Contagio in azienda e responsabilità penale: nessuno scudo totale per il datore di lavoro

L’art. 29-bis del decreto Liquidità ha escluso ogni responsabilità penale del datore di lavoro? La risposta è no. La “colpa” dell’impresa può, infatti, consistere, non solo nella violazione della norma del codice civile che impone di adottare tutte le misure idonee a tutelare la sicurezza del lavoratore (art. 2087 c.c.), ma anche in imprudenza, imperizia, negligenza e soprattutto nella inosservanza delle leggi in materia di sicurezza sul lavoro, a cominciare dal T.U. E la responsabilità può gravare non necessariamente sul datore di lavoro, bensì anche o soltanto su altri soggetti.

Il momento fatale è arrivato il 17 marzo 2020. Un D.L., il n. 18/2020, poi convertito nella legge n. 27/2020, all’art. 42, comma 2, intimò ai medici di segnalare all’INAIL ogni caso di infezione da coronavirus in occasione di lavoro per la tutela assicurativa dell’infortunato.

Dietro queste parole, si schiuse un mondo. Il medico deve segnalare ogni caso di infezione da coronavirus all’INAIL. Ma non solo. Deve segnalarlo anche all’autorità giudiziaria a norma degli artt. 365 c.p. e 334 c.p.p. Perché quel caso potrebbe essere un reato: un omicidio o una lesione personale colposa. E, dunque, ove del caso, anche un illecito amministrativo ex D.Lgs. n. 231. Fatto salvo, beninteso, l’ingrato compito, peraltro riservato all’Autorità Giudiziaria, di accertare la riconducibilità del caso a una condotta colposa del datore di lavoro.

Parole che sembravano ovvie, ma che hanno scatenato il finimondo.

Certo, sino a quel momento, tutti a disperarsi per la morte di questo o quel medico o infermiere o paziente o ospite di casa di cura colpito dal Covid-18. Ma appena si è cominciato a parlare di responsabilità, la scena è cambiata. Ancor più si sono agitate le acque via via che sono stati pubblicati i dati dei contagi denunciati all’INAIL: 54.128 a fine settembre.

Non sorprende che con queste spine abbia cominciato a soffiare il vento della deregulation.

Inevitabilmente, l’allarme è esploso anche in sede parlamentare. E alla fine è stata approvata una norma: l’ormai celebre art. 29-bis inserito nel D.L. n. 23/2020 in sede di conversione nella legge 5 giugno 2020, n. 40. In forza di questo 29-bis, i datori di lavoro che adottano le misure prescritte nei protocolli, nelle linee guida, negli accordi, con ciò stesso adempiono all'art. 2087 del codice civile, e, cioè, all’obbligo generico di adottare misure non specificamente previste dalla legge, ma suggerite da conoscenze sperimentali e tecniche.

Questo 29-bis ha entusiasmato molti. Ci si sono messi anche il Comitato di esperti in materia economica e sociale in un rapporto del giugno 2020 e persino il Ministero dell’Istruzione in una nota del 20 agosto 2020 ai dirigenti scolastici preoccupatissimi per le responsabilità penali incombenti in caso di contagio tra il personale o tra gli allievi con la riapertura delle scuole: per evitare la responsabilità, basta applicare quanto previsto dagli specifici protocolli siglati contro il coronavirus.

Giustificata questa euforia? Mica tanto. Il 27 maggio 2020, durante un’audizione alla Commissione Lavoro del Senato, mi fu chiesto se quel 29-bis avesse escluso ogni responsabilità penale del datore di lavoro. La mia risposta fu no. Perché la colpa del datore di lavoro può consistere, sì, nella violazione dell'articolo 2087 del codice civile, ma anche in imprudenza, imperizia, negligenza, e soprattutto nella inosservanza delle specifiche leggi in materia di sicurezza sul lavoro, a cominciare dal decreto 81.

Un distinguo, questo, ben colto dalla pacifica giurisprudenza, là dove individua le fonti normative delle misure di prevenzione e protezione: anzitutto, le c.d. misure tipiche, e, cioè, “le misure di sicurezza espressamente e specificamente definite dalla legge, o da altra fonte ugualmente vincolante, quali le misure previste dal D.Lgs. n. 81/2008” (dalle misure tecniche, organizzative, procedurali alla vigilanza, dalla formazione alla sorveglianza sanitaria); inoltre, le c.d. misure atipiche, e, dunque, le misure “ricavate dall’art. 2087 c.c., che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza”, e, quindi, dell’obbligo di adottare accorgimenti che, “pur non dettati dalla legge o altra fonte equiparata, siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli ‘standards’ di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe”. E un distinguo ben noto agli estensori e ai frequentatori dei capi d’imputazione in materia: “oltre ad una colpa generica ed alla violazione dell'art. 2087 c.c., la specifica inosservanza degli artt. 36, 37, 71 e 73 D. Lgs. 81/2008” (si legge, tanto per fare un esempio, in Cass. 26 ottobre 2020 n. 20609).

Il 29-bis produce un duplice effetto: conferma la responsabilità penale del datore di lavoro che violi protocolli o linee guida o accordi; ma soprattutto non esclude la responsabilità penale del datore di lavoro che, pur rispettando protocolli o linee guida o accordi, non adempia ai distinti obblighi previsti da leggi specifiche quale il decreto 81.

Ed occorre aggiungere che, in coerenza con un principio pacifico in giurisprudenza, una responsabilità penale è configurabile anche per un’affezione da COVID-19 occorsa a un terzo (come il paziente di una struttura ospedaliera o un ospite di una causa di riposo).

Così come è da ricordare che la responsabilità può gravare non necessariamente sul datore di lavoro (magari committente), bensì anche o soltanto su altri soggetti: un dirigente, l’RSPP, il medico competente, e non escluso lo stesso lavoratore inadempiente agli obblighi contemplati dall’art. 20, D.Lgs. n. 81/2008.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/sicurezza-del-lavoro/quotidiano/2020/11/10/contagio-azienda-responsabilita-penale-scudo-totale-datore-lavoro

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