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Divieto di licenziamento: sanzioni per le aziende non in regola. Cosa fare per evitarle

Il decreto Ristori proroga fino al prossimo 31 gennaio il divieto dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. In caso di sua inosservanza, gli ispettori del lavoro possono emettere una disposizione, concedendo al datore di lavoro un termine per revocare il licenziamento. L’inottemperanza alla disposizione espone l’azienda all’applicazione di una sanzione compresa tra 500 e 3.000 euro, non diffidabile. Datore di lavoro e lavoratore possono comunque raggiungere un accordo finalizzato all’accettazione del provvedimento di licenziamento. Se ne parlerà nel corso del Forum One LAVORO, organizzato da Wolters Kluwer in collaborazione con Dottrina Per il Lavoro, in live streaming il 17 novembre 2020.

Con i commi 9, 10 e 11 dell’art. 12 del decreto Ristori (D.L. n. 137/2020), è stato prorogato al prossimo 31 gennaio, lo stop ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che ci ha accompagnato durante tutta la crisi pandemica.

Prima di entrare nel merito delle questioni affrontate nei commi sopra indicati, ritengo necessario, da subito, sottolineare una forte diversità con la proroga, da ultimo, inserita nel decreto Agosto (D.L. n. 104/2020): non c’è più la correlazione che legava la possibilità di procedere ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo alla fruizione integrale degli ammortizzatori COVID-19 o , in alternativa, all’esaurimento dello sgravio contributivo riconosciuto ex art. 3 (peraltro, non ancora pienamente operativo, in quanto, pur in presenza della circolare INPS n. 105/2020, si è in attesa del “via libera” da parte della Commissione Europea ai sensi dell’art. 108 del Trattato).

Le ragioni di questo mutamento di indirizzo che, peraltro è un ritorno ai termini fissi indicati sia dal Cura Italia (D.L. n. 18/2020) che dal decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) risiede, a mio avviso, su due ordini di considerazioni.

La prima è di ordine pratico. Con la disciplina del decreto Agosto, un datore di lavoro che avesse fruito delle integrazioni salariali senza soluzione di continuità dal 13 luglio avrebbe terminato le 18 settimane il 15 novembre 2020. Quindi, dal giorno successivo avrebbe potuto procedere ai licenziamenti ex art. 3 della legge n 604/1966, in un momento in cui il nostro Paese, per effetto del coronavirus, sta adottando chiusure più o meno forti. Ciò avrebbe potuto creare qualche problema di ordine sociale che l’Esecutivo ha voluto evitare, anche perché, a seguito di accordo con le parti sociali, da far diventare legge attraverso uno specifico emendamento normativo, il blocco dovrebbe essere portato al 21 marzo 2021.

La seconda è più di ordine giuridico e risponde ad una tesi già sollevata in dottrina. Si era ritenuto che un datore di lavoro che non fruisse di ammortizzatori sociali COVID-19 o di sgravio contributivo ex art. 3, potesse attivare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Percorso un pò impervio a causa del dettato normativo che subordinava l’anticipo della data alla fruizione integrale delle integrazioni salariali o, in alternativa, al godimento completo dell’esonero contributivo ex art. 3. La modifica contenuta nell’art. 12 del decreto Ristori toglie ogni dubbio che, qualora fossero stati posti in essere licenziamenti, sarebbe dovuto essere risolto in giudizio.

Prima di entrare nel merito di questa riflessione, non appare superfluo sottolineare come ci si riferisca ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori assunti a tempo indeterminato. Nei contratti a tempo determinato, come ricorda la Cassazione, con la sentenza n. 17240 del 22 agosto 2016, il recesso illegittimo a fronte di un evento non evitabile, pur se prevedibile, non comporta la reintegra ma il riconoscimento delle retribuzioni fino alla scadenza del contratto.

Fatta questa breve premessa entro nel merito dei contenuti dei commi che ricalcano, peraltro, le precedenti disposizioni.

Il comma 9 dispone che fino al 31 gennaio 2021 non sarà possibile avviare procedure collettive di riduzione di personale ex artt. 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991 e che quelle in corso alla data del 23 febbraio 2020 restano sospese (fatte salve le eccezioni previste dal comma 11). Tutto questo sta a significare che:

a) Le procedure concluse entro il 22 febbraio 2020 esplicano i loro effetti: di conseguenza se al termine della stessa sono stati previsti, anche con l’accordo sindacale, licenziamenti che “slittano” in avanti e che ricadono in questo periodo di sospensione, gli stessi sono proceduralmente legittimi;

b) La sospensione delle procedure collettive in corso alla data del 23 febbraio fa sì che siano sospesi anche gli avviamenti obbligatori dei disabili, così come previsto dall’art. 3, comma 5, della legge n. 68/1999, in quanto la sospensione dell’iter che, al massimo, dovrebbe durare tra fase sindacale e fase amministrativa 75 giorni, è avvenuta con una norma di legge.

Tra le eccezioni contemplate il comma 9 richiama, come già previsto nella precedente decretazione di urgenza, il cambio di appalto, laddove i dipendenti interessati al recesso siano riassunti dall’appaltatore subentrante in forza di una norma di legge (ad esempio, l’art. 50 del c.d. “codice degli appalti pubblici”), di contratto collettivo (ad esempio, l’art. 4 del CCNL multiservizi) o di una clausola inserita nel contratto di appalto. La questione non appare, comunque, semplice, seppur risolvibile attraverso gli incontri sindacali, sol che si pensi a due aziende che applicano, legittimamente, nello stesso settore, due CCNL sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative che, sul punto, affermano cose leggermente diverse (è il caso, ad esempio, del CCNL multiservizi e di quello delle imprese artigiane applicabili alle imprese di pulizie).

Il successivo comma 10 ribadisce un principio già noto: fino al 31 gennaio 2021 i datori di lavoro, a prescindere dal requisito dimensionale, non possono procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge n. 604/1966 ed è, altresì, sospesa la procedura ex art. 7 della stessa legge.

Tutto questo significa che:

a) Lo stop ai recessi per ragioni “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa” riguarda anche i datori di lavoro di piccolissime realtà e che il licenziamento è affetto da nullità, cosa che comporta, essendo una ipotesi espressamente prevista dalla legge, la reintegra anche ai sensi dell’art. 2 del D.L.vo n. 23/2015, oltre che dell’art. 18 della legge n. 300/1970. Restano fuori dal campo di applicazione i datori di lavoro domestici, attesa la peculiarità del rapporto fiduciario che appare, oltremodo, necessario nell’ambito familiare;

b) Lo stop alla procedura prevista dall’art. 7 della legge n 604/1966 che vede coinvolto l’Ispettorato territoriale del Lavoro e la commissione di conciliazione ivi istituita, sta a significare che non è possibile dar seguito ad eventuali richieste datoriali (possono riguardare le imprese che hanno un organico superiore alle quindici unità per lavoratori assunti a tempo indeterminato entro il 6 marzo 2015), in merito ad ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, salvo che non operi una delle ipotesi evidenziate al comma 11;

c) Il personale ispettivo degli ITL, avvalendosi, del potere discrezionale previsto dall’art. 14 del D.L.vo n. 124/2004, come riformato dall’art. 12-bis del D.L. n. 104, può emettere una disposizione, concedendo al datore di lavoro un termine per revocare il provvedimento, atteso che la nuova norma individua tale possibilità tutte le volte che la violazione di una norma di legge non è supportata da alcuna sanzione amministrativa o penale. Ovviamente, tale potere che, in caso di inottemperanza, comporta una sanzione compresa tra 500 e 3.000 euro, non diffidabile, va esercitato a fronte di un recesso che presenta le caratteristiche formali del giustificato motivo oggettivo, non spettando all’ispettore del lavoro il compito di discettare sulle motivazioni, magari ammantate da altri elementi, compito che spetta al giudice. Il potere discrezionale (che, come tale, non è obbligo) deve tener conto anche di una serie di circostanze successive come, ad esempio, il raggiungimento di un accordo “in sede protetta” o la rioccupazione del lavoratore;

d) A fronte di un licenziamento sia pure nullo le parti possono raggiungere un accordo, magari in “sede protetta” finalizzato alla accettazione del provvedimento di licenziamento come, del resto, ci ricorda l’art. 6, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015;

e) Il lavoratore, pur se licenziato per giustificato motivo oggettivo ha diritto alla NASpI: l’INPS, con il messaggio n. 2261 del 1° giugno, emesso su parere conforme dell’Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro, la riconosce ma la condiziona al fatto che, in caso di ricostituzione del rapporto a seguito di sentenza o accordo extra-giudiziale, si riserva di ripetere le somme corrisposte.

Per quel che concerne, invece, la sospensione della procedura di conciliazione ex art. 7 della legge n. 604/1966, gli Ispettorati territoriali del Lavoro dovranno ben monitorare fino alla scadenza del 31 gennaio 2021 le eventuali richieste e verificare se le stesse, possono essere giustificate alla luce delle esimenti previste dal comma 11. La procedura può essere svolta, anche da remoto, secondo le indicazioni fornite dall’INL con la circolare n. 4 del 25 settembre 2020.

Con il successivo comma 11, l’art. 12 si occupa delle c.d. esimenti che fanno venire meno le preclusioni stabilite dai commi 9 e 10 le quali si riferiscono al divieto di iniziare o riprendere una procedura collettiva di riduzione di personale o di procedere ai licenziamenti e di attivare l’iter previsto dall’art. 7 della legge n. 604/1966.

E’ possibile procedere ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo in caso di cessazione definitiva di attività, anche conseguente alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale della stessa e senza che si configuri nel corso della liquidazione la cessione di beni e servizi che possano configurare un trasferimento di azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c.. Quanto appena detto sta a significare che una cessazione parziale (ad esempio, la chiusura di uno o più negozi della “catena”) non abilita il datore a procedere ai recessi, e che, laddove si configuri, anche nel corso dell’attività liquidatoria, un passaggio di azienda, i licenziamenti non sono legittimi, attesa la tutela che per i lavoratori scaturisce dall’art. 2112 c.c.

I licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio e sia stata disposta la cessazione non ricadono sotto la “mannaia” del divieto. Se, invece, viene previsto l’esercizio provvisorio, il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo continua a sussistere in favore dei lavoratori che continuano a prestare la propria attività.

Ma la grossa eccezione, già prevista nel decreto Agosto, è rappresentata dagli accordi collettivi, sottoscritti con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Di cosa si tratta?

Il Legislatore ha dato questa possibilità al datore di lavoro, consentendo, se necessario, l’apertura della procedura collettiva di riduzione di personale ex artt. 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991, finalizzata al raggiungimento di un accordo del quale, tra un attimo, cercherò di individuare i contenuti.

L’accordo va sottoscritto con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, relative a quel settore (quindi vanno bene le organizzazioni territoriali di categoria ma non le RSA o e RSU che, tuttavia, potrebbero aggiungere la loro firma “ad abundantiam”). L’utilizzazione, da parte del Legislatore, della preposizione articolata “delle” in luogo di quella semplice “da” in uso, soprattutto, nel primo decennio di questo secolo, fa pensare che la sottoscrizione dovrebbe avvenire, salvo situazioni particolari verificabili nei singoli casi concreti, con almeno due sigle sindacali: sul punto, sotto l’aspetto amministrativo, sarebbero stati ben accetti opportuni chiarimenti da parte del Ministero del Lavoro che, però, ha ritenuto, finora, non necessario pronunciarsi.

L’accordo non ha una natura strutturale, atteso che la sua efficacia termina con la fine dello “stop” ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (al momento, 31 gennaio 2021).

La norma ripete, in parte, una disposizione già presente nell’art. 24-bis del D.L.vo n. 148/2015 relativa agli accordi di ricollocazione. Questi i passaggi che ritengo opportuno evidenziare:

· L’accordo collettivo deve contenere i profili professionali ritenuti eccedentari, senza fare i nomi dei singoli lavoratori potenzialmente interessati, indicando, ai fini della appetibilità della scelta, gli incentivi all’esodo che possono ben essere diversificati in base all’anzianità aziendale, al ruolo ricoperto, ai carichi familiari e ad altre situazioni personali. Nel verbale andranno indicati anche i tempi entro i quali i lavoratori interessati debbono offrire la loro adesione all’accordo. La norma non fissa alcun termine ma appare opportuno che le parti lo prevedano e che indichino, altresì, la forma scritta per esprimere il consenso (cosa che la norma si è dimenticata di dire);

· Il lavoratore che si dimette o risolve consensualmente il rapporto il rapporto ha diritto alla NASpI: si tratta di una deroga specifica alle previsioni del D.L.vo n. 22/2015 e l’INPS, con la circolare n. 111/2020, ha chiarito che all’atto della presentazione della domanda di disoccupazione il lavoratore dovrà presentare copia dell’accordo e documentare la propria adesione allo stesso. Il datore di lavoro, a mio avviso, sarà tenuto a pagare il contributo di ingresso alla NASpI che è strettamente correlato all’anzianità aziendale del dipendente, con un tetto massimo fissato a tre anni (l’importo massimo è di 1507,87 euro per l’anno 2020). L’apertura della procedura collettiva ex artt. 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991 potrebbe anche portare alla individuazione con accordo sindacale dei criteri di scelta che, in caso di licenziamento, non potranno essere diversi da quello della adesione volontaria degli interessati (c.d. licenziamenti non oppositivi), criterio abbondantemente utilizzato ed espressamente richiamato dall’art. 4, comma 4, del D.M. n. 94033/2016 per la gestione non traumatica degli esuberi nel trattamento di integrazione salariale straordinaria durante i contratti di solidarietà;

· La norma non prevede un obbligo di deposito telematico dell’accordo ex art. 14 del D.L.vo n. 151/2015, né il Ministero del Lavoro ha detto nulla in proposito, e, quindi, non va depositato.

La disposizione non lo dice ma ritengo opportuno, soprattutto se oltre all’incentivo all’esodo, vengono corrisposte altre somme a conclusione del rapporto che il tutto venga definito, con la piena consapevolezza del lavoratore e con l’assistenza, se richiesta, del sindacato, in sede protetta (art. 410 o art. 411 c.p.c.), ove le dimissioni o la risoluzione consensuale vengono confermate senza dover accedere alla procedura telematica individuata dal D.M. del Ministro del Lavoro, applicativo dell’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015.

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Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2020/11/13/divieto-licenziamento-sanzioni-aziende-non-regola-evitarle

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