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Il vaccino anti Covid-19 e la responsabilità delle aziende. Il dibattito continua…

Il vaccino anti Covid-19 in azienda continua a far parlare di sé, in un dibattito diviso tra sostenitori della tesi più rigorista, ossia che sia possibile procedere al licenziamento (previa sospensione dal lavoro) del lavoratore e di una tesi meno rigorista, per cui sarebbe il giudizio di idoneità alla mansione a dover concretamente guidare l’analisi dei singoli casi. Ma il nucleo del problema non può essere risolto sulla sola base di questa, pur rilevante, dicotomia. Il vero punto della questione sta nel ruolo intrinseco del vaccino, in pratica nella sua efficacia sia verso il singolo (una volta vaccinato), sia verso i terzi e nella responsabilità delle aziende che volessero somministrare il vaccino obbligatoriamente ai propri dipendenti.

Il quesito non è di facile soluzione, almeno in questo momento storico in cui l’evoluzione dei contagi da Covid-19 è ancora in crescita (non solo in Italia), seppure contenuta dalle misure restrittive, dalla rigida osservanza dei protocolli di sicurezza, considerando peraltro che la campagna vaccinale è ancora agli inizi.

Il dibattito si è acceso in questo scorcio di inizio d’anno dopo l’avvio il 27 dicembre scorso e per tutti i paesi europei della campagna di vaccinazione e a discuterne sono stati in tanti tra i tecnici del diritto del lavoro e della salute e sicurezza sul lavoro, dottrina ed esperti del settore e chi, a vario titolo, ha iniziato ad interrogarsi sugli effetti che potrà avere il vaccino una volta che sarà andato a regime l’intero processo di vaccinazione della popolazione (oggi in rallentamento rispetto agli annunci iniziali forse fin troppo ottimistici).

Il fulcro delle argomentazioni che sono state portate da chi ha affrontato questo complesso argomento si è concentrato prioritariamente sugli aspetti di salute e sicurezza sul lavoro che sono di immediata e primaria percezione e poi, sulle conseguenze organizzative che discendono necessariamente dall’applicazione delle disposizioni del Testo Unico in materia di Salute e Sicurezza sul lavoro, le quali implicano un coinvolgimento diretto del medico competente nello svolgimento dei compiti di sorveglianza sanitaria preordinati ad esprimere quel fondamentale giudizio di idoneità alla mansione (art. 42 TUSL) che costituisce il presupposto per il legittimo esercizio del potere organizzativo nella complessa organizzazione d’impresa e di tutte le attività economiche.

In questo quadro – peraltro definito dai più in modo abbastanza lineare – si collocano da un lato l’art. 2087 c.c. il quale prescrive che “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, imponendo quindi l’obbligo generale di adottare tutte le misure necessarie per prevenire eventuali rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, sia come singoli sia nei rapporti con i propri colleghi. Da altro lato, l’art. 279 del D.Lgs. n. 81/2008 (TUSL) il quale impone al datore di lavoro in caso di rischio di esposizione ad agenti biologici, su conforme parere del medico competente, di adottare misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali:

a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all'agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente;

b) l'allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure proprie della sorveglianza sanitaria (art. 42 TUSL).

Norma che viene letta in stretta correlazione con l’attuazione della recente Direttiva UE/2020/739 del 3 giugno 2020 la quale, attuata con la decretazione d’urgenza dello scorso anno, classifica la SARSCoV-2 nell’ambito delle misure di prevenzione da rischio biologico disposte dallo stesso TUSL.

Tra i sostenitori della tesi più rigorista, ossia che sia possibile procedere al licenziamento (previa sospensione dal lavoro) del lavoratore che in ipotesi rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione, l’argomentazione principale poggerebbe proprio sulla doppia valenza di tali previsioni. In pratica, poiché la legge impone al datore di lavoro di adottare le misure tecniche e organizzative necessarie a tutelare la salute fisica e morale dei lavoratori e poiché tra i rischi oggetto di valutazione si collocano oggi gli agenti patogeni derivanti dal virus, il lavoratore che non voglia o non possa sottoporsi alla vaccinazione potrebbe in ipotesi incorrere in un licenziamento rispettivamente, per giustificato motivo oggettivo a fronte del giudizio di inidoneità alla mansione formulato sulla base delle valutazioni del medico competente, oppure in un licenziamento disciplinare nell’ipotesi in cui la non sottoposizione alla vaccinazione venga intesa come una forma di inadempimento contrattuale.

Tra i sostenitori della tesi meno rigorista, per contro, ci sarebbero quelli che ritengono di dover fare appello da un lato ai principi Costituzionali di cui all’art. 32 Cost. dove si prevede che “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e, dall’altro alla circostanza per cui sarebbe proprio il giudizio di idoneità alla mansione a dover concretamente guidare l’analisi dei singoli casi, considerando con maggiore forza la posizione dei lavoratori esposti a particolare rischio biologico da Covid-19, come ad esempio il personale sanitario (aziende Covid esposte) e con minor rigore chi per lo svolgimento della propria attività lavorativa non è costantemente esposto a tale tipologia di rischio (aziende non Covid esposte).

Il DVR e la particolare funzione del medico competente nella specifica contingenza della pandemia (su cui si veda la circolare del Ministero della Salute n. 14915/2020) guiderebbero tale valutazione con la conseguenza di dare particolare rilevanza, in caso di rifiuto, proprio al giudizio di inidoneità alla mansione che legittimerebbe in primo luogo un allontanamento del lavoratore (ovvero per i lavoratori fragili la loro adibizione alla prestazione in smart working, ove possibile) e la valutazione dell’ipotesi del recesso (oggi peraltro nemmeno consentito quanto meno sino al 31 marzo 2021 in forza del divieto da licenziamento ancora in vigore, forse pure prorogato) solo in caso di oggettiva impossibilità di allontanamento (con o senza retribuzione) oppure di collocazione dello stesso in altre mansioni, anche inferiori, considerando i principi della libertà d’impresa (anch’essi tutelati dalla Costituzione) e l’applicabilità dei criteri di impossibilità sopravvenuta della prestazione, che possono guidare tali scelte organizzative (seppure con onere della prova a carico del datore di lavoro che in ogni caso, secondo la giurisprudenza, non può essere tenuto ad un vero e proprio stravolgimento della propria organizzazione nell’assolvimento dell’obbligo di repechage).

Ma il nucleo del problema non può essere a mio avviso risolto sulla sola base di questa pur rilevante dicotomia. Io credo che il vero punto della questione – cui potrebbe conseguire ogni ulteriore valutazione in termini di legittimità o meno del licenziamento così come anche delle ipotesi di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione – sia proprio il ruolo intrinseco del vaccino (o dei diversi vaccini oggi sul mercato e un domani potenzialmente nella disponibilità di tutti, anche delle aziende). In pratica la sua efficacia sia verso il singolo (una volta vaccinato) sia verso i terzi.

E qui ci arriva in soccorso proprio la legge. E’ lo stesso articolo 297 del TUSL che impone al datore di lavoro che abbia effettuato la valutazione del rischio biologico, di mettere a disposizione dei lavoratori esposti al rischio vaccini efficaci. Ora, sappiamo, perché ci viene detto anche dagli esperti, che da un lato, l’efficacia del vaccino contro il virus Covid-19 è stata testata (con percentuali di successo sul virus variabili da vaccino a vaccino) ma che, comunque, dall’altro, in base alle attuali conoscenze scientifiche, la vaccinazione non rende totalmente immuni dal virus verso i terzi, tanto è vero che sarà necessario attendere comunque che la maggior parte della popolazione abbia sviluppato (anche autonomamente e non solo grazie al vaccino) gli anticorpi al virus raggiungendo quella che viene indicata come “immunità di gregge”, per poterci forse dire “fuori dai guai”.

In altre parole, se allo stato delle conoscenze scientifiche attuali non c’è certezza che un soggetto vaccinato non possa nuovamente contagiare un altro soggetto (ad esempio il proprio collega o il cliente ovvero il paziente in un ospedale) a mio avviso viene a cadere la premessa maggiore su cui si basa tutto il ragionamento dell’obbligatorietà del vaccino in capo ai lavoratori fondato sull’art. 2087 c.c. e cioè: l’obbligo di proteggere non solo se stessi bensì anche i propri colleghi (come sostenuto da chi ritiene che sia un dovere morale vaccinarsi per proteggere anche gli altri).

Se così è, ne deriva ancora che non è affatto scontato il recesso legittimo dal rapporto di lavoro in conseguenza della mancata adesione del lavoratore alla campagna vaccinale e ciò per due ordini di ragioni che vanno oltre l’ambito dell’attuale dibattito.

In primo luogo per poter considerare “obbligatoria” la somministrazione dei vaccini ai dipendenti in una particolare azienda (in assenza di una legge che lo imponga e che in futuro ad esempio potrebbe prevederlo per alcuni specifici settori dove è più alto il rischio biologico endogeno ed esogeno come ad esempio il settore sanitario), determinando le condizioni per rendere in ipotesi legittimo un provvedimento organizzativo datoriale in caso di rifiuto (sospensione e successivo licenziamento del non vaccinato), l’azienda dovrebbe dimostrare che:

· dietro parere favorevole del medico competente, l’adozione delle misure sino ad oggi prescritte sul luogo di lavoro (mascherine, distanziamento, guanti, sanificazione, rispetto rigoroso dei protocolli, attratto peraltro nell’ambito dell’art. 2087 c.c. dall’art. 29bis del Decreto Liquidità – 40/2020) sono misure insufficienti a prevenire il contagio in azienda (dimostrato dall’alto numero dei casi conclamati in quella azienda);

· non sia possibile lo svolgimento di lavoro a distanza (in modalità smart) per il dipendente non vaccinato;

· da ultimo, ma di fondamentale importanza e direi alla base delle conseguenze sopra indicate, solo il vaccino (dando per scontato che azzeri scientificamente il rischio contagio non solo per sé ma anche e soprattutto per i colleghi e i terzi, il che al momento non è provato dalla comunità scientifica) potrebbe efficacemente garantire la salute degli altri dipendenti sul luogo di lavoro facendo venir meno le altre misure ad oggi osservate (distanziamento, lavaggio mani, obbligo di mascherina etc.).

Come vedete, elementi e condizioni di non poco conto.

In secondo luogo, una volta anche ritenute sussistenti le condizioni sopra indicate, si dovrebbe necessariamente valutare anche la responsabilità delle aziende che volessero somministrare il vaccino obbligatoriamente ai propri dipendenti. Argomento di non poca rilevanza considerato che qui entrano in gioco non solo implicazioni in termini di salute e sicurezza sul lavoro ma anche ulteriori considerazioni legate al possibile rifiuto del vaccino da parte del lavoratore per motivi di salute ovvero per motivi personali (no-vax). Valutazioni queste ultime che entrano anch’esse nell’ambito della tutela e degli obblighi previsti dall’art. 2087 c.c. laddove la norma impone al datore di lavoro di tutelare non solo l’integrità fisica ma anche la personalità morale del lavoratore (il quale, peraltro, non può essere discriminato in ragione delle sue convinzioni personali).

Come già ho avuto modo di evidenziare altrove, una azienda che oggi imponesse obbligatoriamente il vaccino ai dipendenti seppure sorretto da motivazioni legate alla rigorosa applicazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro (art. 2087 c.c.) in assenza di una legge ad hoc, si troverebbe però nella non facile posizione di doversi accollare anche tutte le eventuali conseguenze che ne dovessero derivare (reazioni allergiche, patologie specifiche e future etc.), ad oggi difficilmente prevedibili anche alla luce della estrema novità dei vaccini e della brevità dei tempi di sperimentazione .

Ma ad analoga conclusione si giungerebbe qualora tale azienda si “limitasse” a mettere a disposizione gratuitamente il vaccino ai propri dipendenti, traendo poi delle conseguenze giuridiche sul piano del rapporto di lavoro dall’eventuale rifiuto al vaccino manifestato dal dipendente (ad esempio, in caso di rifiuto, spostandolo a mansioni differenti ovvero sospendendo quel lavoratore dalla prestazione e dalla retribuzione come qualcuno ha suggerito). Con la conseguenza che anche in tal caso la scelta del dipendente non sarebbe libera bensì in qualche modo forzata dall’azienda ossia dal timore di subire conseguenze per sé dannose (sospensione dal lavoro e dalla retribuzione o addirittura licenziamento) in caso di rifiuto del vaccino.

Insomma, le problematiche legate a questo tema non sono né semplici né almeno per ora di facile soluzione proprio perché caratterizzate da una molteplicità di implicazioni. Il dibattito, certamente, è appena iniziato e ragionare solo sul piano dei principi conosciuti senza tenere conto che ci troviamo davanti a fattispecie del tutto nuove e non solo giuridiche potrebbe essere limitativo e foriero di conseguenze in capo alle aziende.

Un po’ di calma, ora più che mai, è altamente consigliabile.

Fonte: https://www.ipsoa.it/documents/lavoro-e-previdenza/amministrazione-del-personale/quotidiano/2021/01/30/vaccino-anti-covid-19-responsabilita-aziende-dibattito-continua

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